Beni culturali, pubblici e comuni

1 Febbraio 2008

MAMUTHONES
Marcello Madau

La fine del governo nazionale di centro-sinistra ha evidenti riflessi nella politica sui beni culturali, dati alcuni aspetti che riepilogo per punti: 1. la Regione Autonoma della Sardegna impegnata nella richiesta del passaggio di competenze sui beni culturali 2.Il ridimensionamento degli Uffici di Tutela 3. la recente sentenza della Corte Costituzionale sulle competenze in materia di paesaggio; 4. le modifiche del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio operate in Consiglio dei Ministri prima della crisi. Mentre i recenti spostamenti dei Direttori del Ministero fanno percepire tensioni fra i partiti dell’ex-Unione e, anche da noi, fra senso dello stato e radicalismo regionalista, a sinistra ( e dintorni) serve un nuovo approfondimento della questione.
Dopo oltre mezzo secolo di fitta discussione sulla natura pubblica dei beni culturali, non possiamo dare tale natura per scontata, neppure per legge: le generazioni nate tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50 e formatesi su questi temi sanno quanto sia complesso (e probabilmente dovrebbero/dovremmo farlo assai meglio e di più) comunicare alle nuove generazioni per quale motivo ‘la testimonianza avente valore di civiltà’ vada tutelata, perché ciò abbia senso.
Il concetto non è affatto scontato né di immediata o innata formazione, anche se la disponibilità di almeno parte delle generazioni giovanili al bene comune è più alta di quanto sembrano farci credere i coatti del Grande Fratello o delle platee di Maria de Filippi. Conservare opportunamente i beni culturali (non in scantinati o assurde vetrine senz’anima, ma cognitivamente in senso pieno) è una delle risposte più efficaci all’alienazione di una società molto più unidimensionale di quella raccontata da Herbert Marcuse, rendendo l’esistenza umana più ricca e profonda.
Dal punto di vista storico e politico vi è la natura devastante di una crisi che vede la frammentazione dei popoli italiani come segno attualizzato di un processo nazionale nato male e mai concluso, quasi sempre – tranne rari bagliori temporali come la Resistenza e la fine degli anni Sessanta – condotto e modellato da aree e interessi forti.
Questa tendenza si contrasta anche potenziando nel campo della cultura i valori del bene comune e le politiche nazionali conseguenti, con un sistema nazionale unitario della tutela dei beni culturali (e del paesaggio), contributo alla soluzione del dramma mai risolto della questione meridionale nel processo di unità nazionale.
L’indebolimento della tutela si sente particolarmente nel Mezzogiorno d’Italia e in Sardegna, nelle aree urbane ma soprattutto in quelle non urbanizzate dove permangono reti di documenti storici, archeologici e non, ai quali lo Stato deve un impegno maggiore, che significa una forma non secondaria di riconoscimento pieno della stessa ‘questione meridionale’.
Se nella Sardegna i territori restituiscono dense testimonianze reticolari (si veda, sul Manifesto Sardo, “Sito, monumento, paesaggio”), che dire delle altre reti diffuse, se vogliamo più fragili ma ugualmente preziose, nelle aree lucane, pugliesi, calabresi, siciliane, nei territori vasti della Campania e del Lazio, e dovunque la modernizzazione agricola e industriale nei secoli non abbia piallato le testimonianze storiche ed archeologiche e annichilito le culture orali? Il nostro paese, considerato un modello di tutela all’avanguardia, è in forte affanno concettuale. Un esempio: il processo politico e legislativo italiano, dalla legge 1089 del 1939 all’attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio non ha ancora avuto la capacità di riconoscere vera dignità al patrimonio delle tradizioni popolari, non istituendo Soprintendenze né Direzioni apposite (solo miste, e da pochissimi anni). Verrebbe da dire, sapendo che le leggi vengono promulgate dai vincitori, che vi sia rappresentata la vittoria delle società a cultura scritta su quelle a cultura orale.
Ma il ministro Rutelli promuove, assieme a Maurizio Costanzo, lo spettacolo dell’etnografia con una selezione di 20 eccellenze fra le tradizioni popolari. Considerazioni che necessiterebbero di altri approfondimenti.
Torniamo perciò al dato immediato, con il quale dovremo velocemente misurarci in maniera drammatizzata grazie alla crisi politica: nell’attuale fase storica con il passaggio della titolarità alla Regione faremmo un grave danno ed errore politico, perchè la tutela è un dovere morale e finanziario dello Stato; faremmo un regalo ai teorici del contenimento della spesa pubblica colpendo la comunità nazionale. Ad essa servono i beni culturali e paesaggistici di un mezzogiorno nuragico, indigeno, italico, magnogreco, meridiano, per aumentare il benessere materiale e morale; per apprendere che una tutela non può limitarsi a pochi grandi episodi artistici e architettonici (di rarità e pregio selezionava l’ottica idealistica, mai abbandonata, di Bottai) ma a tutta la storia del territorio, senza cesure.
Battaglia indifferibile, tanto più che dagli anni ’90 si stanno affermando nuove e forti spinte alla rottura della natura pubblica dei beni culturali e del paesaggio, con responsabili di ogni provenienza politica; sembra che esista solo una ‘malintesa’ valorizzazione. La privatizzazione di una patrimonio in teoria indisponibile (ricordate il grave progetto delle cartolarizzazioni per fare cassa in direzione delle grandi opere, su tutte il Ponte sullo Stretto di Messina), ebbe antecedenti nei ministri di sinistra – oggi nel Partito Democratico – che precedettero ai ‘beni culturali’ l’ondata tremontiana basata sulle strutturazioni del poi ministro Siniscalco. Ed anche dopo: da noi in Sardegna c’è stato a sinistra il grave tentativo di vendita di un patrimonio culturale come quello minerario, sventato e infine corretto, e il profilarsi di un modello di gestione dei beni culturali e paesaggistici il cui impianto, migliorativo rispetto ai silenzi del passato, non manca di forti criticità. Ne parleremo nel prossimo numero, ma ora è necessaria una profonda riflessione, e sicuramente una battaglia affinché questi beni pubblici non siano indeboliti e frazionati in ‘gabbie culturali’ (come quelle ‘salariali’), e possano diventare bene comune di un territorio vasto e articolato, che non è composto solo dalle città d’arte, dalle coste pregiate dalle grandi mostre. Dal bene che è pubblico, classica condizione necessaria ma non sufficiente, dobbiamo andare verso l’obiettivo del bene comune, in modo che la coscienza lo difenda meglio delle leggi; che la pregnante origine economica della parola ‘bene’ perda, attraverso la natura ‘comune’, le sue connotazioni economicistiche conducendo finalmente alla comunità.
Ma oltre alla dimensione nazionale, nella drammatica crisi attuale, vi è il più vasto scenario del mondo globale, la dimensione europea e planetaria. Grandi battaglie da condurre per rispondere all’Europa capitalistica con la nostra ricchezza culturale, contrastando la forza delle legislazioni liberiste di molti paesi, non orientate verso il bene comune e di fatto conniventi col traffico internazionale dei manufatti archeologici ed artistici. Vi è ‘semplicemente’ da impostare una politica mondiale sulla tutela. Una sinistra europea che non si misuri su questi temi è destinata alla sconfitta, poiché l’assenza di un pensiero politico condiviso e sviluppato nella materia è spia di un economicismo speculare a quello capitalistico, definito anche dalla maniera con la quale si intende e si ‘tratta’ il patrimonio culturale, e che non vede i nessi con le nuove irrompenti forme del lavoro culturale.
Lo spazio della questione è affascinante, da coniugare con le moltitudini che credono in un mondo diverso, sostenibile, senza guerre, dove le tematiche di liberazione e coscienza proprie del lavoro cognitivo possono intrecciarsi con la difesa, lo sviluppo e l’uso di quel bene comune che sono i cosiddetti beni culturali.

1 Commento a “Beni culturali, pubblici e comuni”

  1. Angelo Liberati scrive:

    -…Conservare opportunamente i beni culturali (non in scantinati o assurde vetrine senz’anima, ma cognitivamente in senso pieno) è una delle risposte più efficaci all’alienazione di una società molto più unidimensionale di quella raccontata da Herbert Marcuse, rendendo l’esistenza umana più ricca e profonda.-…

    Giusto il richiamo di Madau, aggiungerei non solo conservare ma anche promuovere e facilitare quei progetti che invece troppo spesso annegano ancora prima di essere presi in esame.
    Un piccolo appello agli addetti ai lavori (critici, storici, artisti, anche se questi ultimi si esprimono meglio con le loro opere) nel settore delle arti visive, perché intervengano su argomenti di interesse comune con più frequenza, e alla redazione perché faciliti il passaggio sul giornale in tempi ragionevoli.
    Buon lavoro a tutti,
    Angelo Liberati

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