Contorni: Arte e non arte (2)

16 Settembre 2015
carlo carrà - la stazion e di milano - 1911
Giulio Angioni

Per citare qualche caso di contributo degli antropologi alla critica del senso comune occidentale moderno che pensa l’arte per l’arte, in Italia, negli anni Sessanta del Novecento, Alberto Mario Cirese distillava forse quanto di meglio utilizzabile di ciò che il pensiero antropologico era in grado di dire intorno ai prodotti estetici, visti nell’ottica della distinzione-contrapposizione tra arte cosiddetta senza aggettivi (ma intendendo così le peculiari esperienze estetiche della nostra cultura occidentale moderna) e arte popolare e primitiva, o, più semplicemente, tra arte premoderna e arte moderna, o ancora, tra lo statuto dell’arte nella cultura euroamericana rispetto a quasi tutto il resto del mondo. Cirese poneva il problema dell’identificazione delle situazioni storiche in cui si producono e si consumano le cose che oggi qualifichiamo arte o estetica presso di noi. Si chiedeva, anche rispetto all’estetica sarda tradizionale, se sia legittima l’operazione di trasferire il sostantivo arte (e tutte le sue implicazioni) da un contesto storico-culturale a un altro, ritenendo che esso rimanga sostanzialmente immutato. E rispondeva ovviamente che no, che non soltanto cambiano le pratiche e le intenzioni e i contesti e gli ideali specifici delle arti, per cui una società può tranquillamente mirare a ciò che a noi appare orrido, ma che cambia anche la collocazione e la funzione socio-culturale di quella che diciamo arte, poesia e simili. E tuttavia Cirese era lontano dal negare che esistano, presso tutte le società umane, tipi di attività specificamente qualificate che si distaccano dalle attività più banali per speciali regole di “messa in forma”, come lui amava dire e analizzare. Ma non è detto che quel tipo di attività specifica, quella speciale messa in forma, che presso di noi è l’arte nel nostro senso generale, trovi esatta corrispondenza in tutte le società storicamente esistite.
In fatto di diversità, Cirese faceva l’esempio della ripetitività e della fedeltà pedissequa alla tradizione come aspetto tipico di molta parte dell’estetica popolare tradizionale sarda, e di tanta parte dell’estetica premoderna di ogni tempo e luogo. E lo mostrava come l’esatto contrario di ciò che noi moderni di solito richiediamo all’arte, intesa concepita e apprezzata soprattutto come scarto innovativo, come prodotto ed esperienza unica e irripetibile, di cui la ‘copia’ sarebbe inutile ripetizione e scadimento.
In altri contesti e per altri fenomeni, e prima ancora per la poesia popolare, Cirese è andato nel frattempo attenuando e precisando il suo relativismo storico o culturale, nella direzione del riconoscimento di ciò che nella storia e nella varietà della culture umane è comune, ineliminabile, in qualche modo universale, elementare, panumano; ma senza mai smettere o buttare a mare perché non più tanto di moda, bensì usandolo in modo più affinato, quanto osservava allora a proposito dell’arte ‘colta’ o nostra rispetto all’arte altrui o ‘altra’; e continuando a rigettare ogni tentativo ingenuo ed eurocentrico di considerare universale ciò che è tipico o addiritura esclusivo della nostra cultura moderna delle élites, pur andando alla ricerca proprio di ciò che più precisamente e più utilmente può essere riconosciuto come universale o transculturale, anche se si esprime variamente nella contingenza di situazioni storiche determinate, ma con un certo grado di necessità e di prevedibilità, in quanto qualcosa di proprio della nostra specie, come è il caso della valorizzazione estetica, appunto propria della nostra specie e quindi di ogni forma di vita umana, compresa l’estetica del normale fare e del normale dire, nel senso del “creare”, più o meno ma sempre, quel qualcosa che possiamo chiamare arte o estetica, cioè senso, piacere, soddisfazione, benessere, agio o gioia di vivere, magari insieme con quel più generale ethos del trascendomento di cui ha molto trattato Ernesto de Martino.
La prospettiva antropologica dell’onnipervasività dell’estetica si deve sopprattutto a studiosi come André Leroi-Gourhan, che era ben lontano da luoghi comuni fuorvianti che partono ancora oggi da assolutizzazioni astoriche delle esperienze estetiche della cultura europea occidentale delle élites. Negli anni Sessanta del secolo scorso egli analizzava il presente, ripercorreva il passato e immaginava il futuro della vicenda umana come caratterizzata e qualificata da attività che sono sempre estetiche, o anche estetiche, un po’ allo stesso titolo, viene da dire, per cui ogni attività umana fisica è anche intellettuale e viceversa, se pure in quantità anche intenzionalmente differenti, per cui, tra l’altro, poco si capirebbe dei modi di vita umana se si ritenesse che solo i filosofi pensano e che solo certe attività “meccaniche” siano fisiche o “manuali”.
Non si tratta di modi di vedere che siano entrati nel senso comune, nemmeno degli antropologi, dato che anche da parte di chi si occupa di estetica “primitiva” o “popolare” si sente ancora più o meno esplicitamente supporre che solo certi artisti facciano attività di tipo estetico e solo e puramente estetico, quando gli va bene, o caritativamente ci si sforza di ritrovare anche in situazioni premoderne e non occidentali uno statuto dell’estetica analogo a quello nostro occidentale odierno, magari anche con gli specialisti, l’opera irripetibile e la spinta all’innovazione a tutti i costi.
Non è certo il caso di riassumere qui ciò che lo studioso francese ci insegna ancora sull’estetica. E’ importante ricordare che la sua nozione di stile etnico si applica a qualsiasi prodotto e a qualsiasi attività, e quindi, poniamo, non solo al modo di danzare ma anche al modo di camminare, non solo a un testo messo in una forma che noi definiamo poetica ma anche alle attività di comunicazione più spicciola e comune, non solo alla statuaria ma anche ai prodotti dell’officina dello scalpellino o del fabbro di boscaglia, non solo ai grandi cicli mitografici rupestri ma anche alle asce di pietra coeve della preistoria.Tutto nell’uomo è più o meno pervaso di ciò che chiamiamo e percepiamo anche noi come arte o poesia o apprezzamento estetico, o comunque tutto aspira all’agio di vivere e può, in tutte le forme di vita umana, in tutte le culture, valorizzare e specializzare esteticamente un qualsiasi aspetto e momento del vivere individuale e collettivo.
E’ utile anche ricordare che Leroi-Gourhan si serve, per ricostruire a grandi linee il farsi dell’umanità come produttrice di estetica, della nozione di liberazione o separazione progressiva di attività o di funzioni prima congiunte, come è successo alla funzione estetica in epoca moderna in Occidente, concepita e praticata nel bene e nel male come a sé, autonoma, separata e magari libera dalla “non arte”. Così, è utile ricordare con Leroi-Gourhan come molte società mostrino che, per esempio, ciò che noi diciamo poesia o cerimonia o rituale oppure ciò che diciamo teatro non sono “separati” in modo netto, e del resto, una volta avvenuta questa separazione, tra poesia e cerimonia e teatro, la scenografia teatrale e gli affreschi di un tempio possono entrambi rappresentare avvenimenti mitologici o storici e avere intenzioni o funzioni simili o diverse.
Ancora oggi in parte è osservabile, per esempio in Sardegna, la pratica della poesia d’improvvisazione, che mostra, tra l’altro, un’unione non scissa tra parola e canto, e nemmeno tra il momento della produzione e il momento della fruizione, oggi da noi sempre più separati e separabili, oltre a essere scissi dai momenti festivi e cerimoniali, complice la scrittura e da ultimo la telematica. Credo che non sia stato senza importanza, per chi come me ha vissuto da piccolo in un tale ambiente, quale appunto il mondo tradizionale sardo, dove anche in fatto di arti tutti più o meno sapevano fare e fruire ciò che era una sapienza comune, dove alcuni potevano eccellere.

Nell’immmagine: Carlo Carrà – la stazione di Milano – 1911

 

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