Contorni: Progettualismi dall’alto

1 Dicembre 2015
Angioni_Francesca_Corona_Giulio Angioni

La vicenda del processo a Erri De Luca, con più evidenziate implicazioni di libertà di opinione e funzione degli intellettuali, va pure ricondotta al problema da cui nasce: una zona di montagna aggredita da un progetto di alta velocità ferroviaria. In quest’ottica è utile guardare ad aspetti delle culture locali, finora non messi in luce quanto meritano in casi come questo. Le esigenze e i saperi locali in questi casi appaiono, in Italia, più o meno sottomessi e privi di autorità e di prestigio rispetto ai sistemi di sapere compresenti ed egemoni, i quali li giudicano meno capaci di progetto, di strategie econimiche di lunga gittata, confinati nel loro uso tradizionale di nicchie ecologiche con programmazione temporale ristretta a non più di qualche annata agraria. Intanto si può notare, per esempio, che il localismo più o meno ristretto non ha impedito lo svilupparsi presso che universale del riciclaggio puntiglioso di ogni residuo di lavorazione, di consumo e di assimilazione biologica, tipico delle culture agrarie di ogni tempo e luogo.
Il localismo ristretto è spesso attribuito alle culture locali, mai ai saperi moderni ufficiali ed egemoni, non visti anch’essi come relativi a un luogo e a un’epoca determinata, cioè alla nostra modernità, che ha come sua forma di localismo l’idea forte che i propri saperi e progetti non siano localistici e storicamente determinati, ma di assoluta eccellenza e certezza, secondo i più noti modi dell’eurocentrismo. Ma è la subordinazione dei modi di vita locali che non fa problema, soprattutto perché considerate irrilevanti anche quando sono le più dirette interessate a un progetto che le riguardi.
Rispetto ai saperi e alle abilità egemoni, i saperi e le abilità tradizionali o indigeni o pratici o spontanei o empirici sono certo più o meno impliciti, informali, incodificati e più o meno indicibili e non ascoltati, ma soprattutto hanno il potere di saper fare e spesso poco o nulla il potere di decidere che cosa fare e i mezzi economici per farlo, mentre ci sono saperi e poteri che si individuano solo quando si capisce che l’andamento della borsa di Singapore influenza la coltivazione del prezzemolo a Pompu.
Tutte le caratteristiche che si riconoscono ai saperi locali indigeni sono presenti e rigenerate come tali anche nelle società occidentali, in quanto saperi pratici, quotidiani, informali appunto, poco soggetti al discorso e all’apprendimento esplicito: saperi che continuano a giustificare proverbi come che vale più la pratica della grammatica. Ma ciò che veramente distingue i saperi che diciamo indigeni o locali non è tanto la loro implicitezza, ma la loro carenza di autorità o di potere, la loro subordinazione rispetto ai saperi che diciamo scientifici e ai loro detentori. I saperi tradizionali non solo sono più o meno subordinati insieme con i loro portatori, ma questi saperi informali sono ancora ignorati e trascurati dai detentori dei saperi egemoni, che tendono a considerare “ignoranti” e tabula rasa contadini, pastori, montanari, pescatori, artigiani, subordinati e ignorati spesso rispetto al sapere e saper fare “vero”, che ogni volta è il sapere egemone in un luogo e in un tempo determinati.
Una qualunque politica di conservazione, di ripristino e di ampliamento del bosco o di altri contesti vegetali nelle regioni mediterranee, per esempio, non può ignorare le abitudini plurimillenarie delle popolazioni, anzi deve basarsi anche sul loro consenso fattivo o magari rieducato. In molte regioni mediterranee la gente di campagna ha modi di fare e di pensare radicati da cui risulta a volte che contadini e pastori per tradizione non “amano” il bosco, non hanno considerazione per l’albero che non sia utile per i frutti più o meno spontanei o coltivati, per la scorza, la legna o il legname o almeno come riparo. Ci sono poi lunghe tradizioni di concorrenza di breve termine nell’uso del suolo tra contadini, pastori, boscaioli, carbonai eccetera. A volte, come anche in certi luoghi della Sardegna, questo atteggiamento si manifesta esplicitamente come ostilità e disagio verso le vaste zone alberate. Non è raro trovare una cultura che a occhi occidentali odierni appaia “indifferente” e “ignara” delle funzioni ecologiche della vegetazione arborea anche per gli usi locali prevalenti del territorio come campo, pascolo, orto, alberato selettivo. Sentire ‘amore’ per il bosco o per la macchia sarà anche effetto di istruzione scolastica, di coinvolgimento nei modi nuovi di uso dei luoghi e di costruzione dei paesaggi. Ma anche conseguenza di un interesse immediato, per esempio di una (ri)forestazione fatta secondo le abitudini e i bisogni locali più o meno antichi o aggiornati. Il bosco, per le abitudini locali mediterranee, dovrebbe servire anche in tempi brevi per i diretti interessati, non solo per le gite domenicali dei cittadini. Diventa a volte un punto capitale che la forestazione sia produttiva nell’immediato. Una forestazione da ecologismo condotta solo in nome dei pericoli di desertificazione può non interessare quanto dovrebbe, se estranea alle abitudini millenarie delle popolazioni locali, che apprezzano l’albero utile al loro tipo di vita con preoccupazioni che appaiono inattuali, ma con non poche ragioni attuali. Anche per questo in Sardegna sono fallite imprese come il Parco del Gennargentu e il Piano Paesaggistico Regionale.
Le battaglie dell’ecologismo di gittata planetaria non si vincono ignorando modi di atteggiarsi verso il paesaggio e i mondi vegetali e animali legittimati da millenni di esperienza. I millenni di saperi e saper fare locali non avranno forse prodotto nemmeno una frazione delle conoscenze moderne sugli equilibri ecologici, ma hanno prodotto conoscenze, atteggiamenti, mentalità che non si modificano in un attimo e tanto meno con l’ignorarli, non tenerli in conto, a volte con l’anatema o il disprezzo, a volte con la mitizzazione di aspetti parziali. Oggi non è difficile smettere di vedere l’albero utile per abituarsi a vedere utile tutta la foresta, sebbene ciò che all’ecologismo planetario appare chiaro, per troppi diretti interessati il tutto resta più o meno oscuro, nuovo e anche pericoloso, comunque da digerire e da assimilare, sia nelle valli alpine che negli studi professionali e nei ministeri dei trasporti. E ciò accade non senza ragioni da studiare e da tenere in conto, per utilizzarle o per adattarle, più o meno aggiornate, a nuove conoscenze e a nuovi programmi pubblici d’azione nell’ambiente o territorio o paesaggio. In paesi come l’Italia questo tipo di nozioni e di sensibilità sembra ancora molto carente da parte di chi pianifica e progetta, come mostra oggi, per l’appunto, la controversia spesso violenta per l’alta velocità in Piemonte, che è diventata quasi solo un problema di ordine pubblico appunto perché il processo decisionale non è mai stato abbastanza pubblico e orientato alla condivisione, o al massimo lo si è voluto, da parte dei decisori, nel migliore dei casi come un processo di formazione, di educazione, di sensibilizzazione troppo spesso a senso unico, dall’alto verso un ‘basso’ che non si riconosce più tale, specie quando si voglia attuare una trasformazione dei suoi propri luoghi, delle sue proprie risorse locali.

Foto di Francesca Corona

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