Il discorso economico del militarismo italiano in Sardegna

16 Febbraio 2017
Andrìa Pili

Diversi elementi hanno reso peculiari il militarismo e l’antimilitarismo in Sardegna, tra questi: la storica funzione militare dell’isola nel Mediterraneo per il potere esterno di turno, dall’Impero Spagnolo sino allo Stato italiano entro l’Alleanza Atlantica; l’etnica Brigata Sassari, emblema di un legame «indissolubile» tra il popolo sardo e l’Italia; il ruolo dell’Esercito Italiano nella violenza coloniale contro il banditismo.

Va da sé che oggi, al di là delle ideologie e appartenenze politiche, i sostenitori dell’occupazione militare in Sardegna siano anche i più fedeli sostenitori della dipendenza politica-economica e si identifichino nello Stato e nell’imperialismo occidentale; gli avversari dei poligoni esprimono, invece, un’idea di emancipazione della nazione sarda e di solidarietà internazionalista verso i popoli oppressi dagli eserciti che usufruiscono dell’isola. Ciò è stato evidente negli ultimi tre anni di lotta contro le basi militari: buona parte della società sarda considera gli ettari destinati alle esigenze fondamentali della cosiddetta Difesa italiana come la rappresentazione dell’utilizzo della Sardegna ad uso e consumo di interessi altrui; i poligoni simboleggiano la somma delle vessazioni subite in nome del potere politico-economico esterno, con la complicità della classe dirigente autoctona.

Questa è la ragione per cui molti tra i militanti attivi in questa battaglia sono in prima linea anche sugli altri fronti aperti nel conflitto nazionale e sociale sardo: ad esempio, contro la speculazione energetica, in difesa dell’ambiente e delle economie locali contro i progetti industriali neocoloniali del capitale straniero. A sua volta, chi è più attivo in questi ambiti sostiene il movimento contro l’occupazione militare dell’isola.

Per contrastare questo e porre un freno alla sua crescente influenza nell’opinione pubblica, la propaganda militarista – tramite dichiarazioni di esponenti delle FF.AA. (come il delegato del COCER Antonsergio Belfiori), note e mozioni di consiglieri regionali e parlamentari di centrodestra (FdI e FI in primis) e centrosinistra (PD) – ha difeso l’occupazione militare facendo ampio uso delle classiche argomentazioni a difesa della generale oppressione della Sardegna da parte dello Stato italiano. Mi soffermerò sulle tesi economiche emerse.

Il discorso economico del militarismo in Sardegna ha tre costanti: la negazione della questione sarda; la rappresentazione dell’Esercito come una grande industria all’avanguardia tecnologica, impiegante personale altamente qualificato e professionale; l’insostituibilità dei poligoni militari per impatto su reddito e occupazione generati sul territorio.

La questione sarda viene negata ponendo le attività belliche contro l’industria, il turismo di lusso e la speculazione edilizia. Queste tre sarebbero realmente invasive sull’ambiente sardo, che sarebbe invece preservato nel demanio militare. Inoltre, dietro la volontà di chiudere le basi ci sarebbe un complotto volto a favorire gli imprenditori immobiliari e la costruzione di nuovi grandi resort a beneficio della ricchezza altrui. Ovviamente, tale contrasto può essere sostenuto soltanto da chi ignora completamente gli effetti dell’integrazione politico-economica della Sardegna entro lo sviluppo capitalistico italiano: la petrolchimica e la creazione della Costa Smeralda rientrano chiaramente nella nostra condizione di dipendenza, insieme all’occupazione militare cui sono accomunati dalla creazione di enormi profitti per il capitale italiano e internazionale, scaricando in Sardegna i costi e condizionando in negativo il nostro sviluppo.

L’enfasi attuale sulla tecnologia militare (le novità del momento sono l’aerospazio, la sperimentazione sui droni e il Sistema Integrato di Addestramento Terrestre) e i suoi mirabolanti effetti moltiplicatori sull’economia sarda, non a caso, ricordano molto il grande entusiasmo che accompagnò la modernizzazione passiva dell’isola con i poli di sviluppo industriale che, poi, non hanno affatto generato il grande indotto e le numerose imprese correlate che erano stati fantasticati. Inoltre, come avvenne in quell’epoca, l’argomento dei militari portatori di tecniche avanzatissime è inserito nella storica tensione tra italianità e sardità: la dipendenza dall’Italia come l’unico modo per far uscire la Sardegna da isolamento e arretratezza.

Non a caso, la fuga dei militari viene spacciata come una condanna a povertà e sottosviluppo per le comunità sarde; tesi campata completamente per aria e con un chiaro risvolto razziale. Questo è piuttosto evidente nel richiamo frequente alla percentuale del territorio sardo occupato da installazioni militari: lo 0.5% della superficie e il 4% delle coste. Ciò suona come: se i sardi non sono riusciti a sviluppare il 99% della propria terra, perché dovrebbero riuscire a usare con profitto le aree sotto demanio, una volta dismesse? Se la Sardegna è sottosviluppata è forse colpa dei militari?

La Sardegna necessita di industria e terziario avanzati, la cui crescita sia protetta e favorita in nome di uno sviluppo endogeno; impiegare ricerca e finanziamenti nella tecnologia militare è uno spreco di risorse intollerabile. Inoltre, non credo che debba essere la politica a dire come riutilizzare le aree attualmente occupate; questa dovrebbe piuttosto creare gli incentivi perché siano le stesse comunità locali a promuovere delle nuove iniziative sul loro territorio.

L’isola non è povera a causa della presenza militare; essa è sede di questo peso proprio perché è povera. Non conosciamo alcuna periferia economica che abbia avviato un suo processo di sviluppo sulla spinta di un’occupazione militare. Due fattori, in particolare, sono fondamentali per lo sviluppo economico: sovranità e struttura degli incentivi. In una società economicamente dipendente da interessi bellici esterni, l’elaborazione di scelte per uno sviluppo interno è ostacolata: il sottosviluppo è una condizione importante perché le basi siano accettate come un’opportunità; non ci sono stimoli in favore della creazione di imprese produttive, capaci di cogliere le opportunità delle nuove tecnologie; gli individui più intraprendenti si dedicheranno a iniziative di mero supporto alle attività militari. Guam, Okinawa, Hawaii, in cui il settore bellico è realmente una delle principali fonti di reddito, sono esempi significativi. Possiamo aggiungere ad essi la Guyana francese, sede di un importante centro spaziale.

Fosse vero che le attività militari sono l’industria più importante in Sardegna, ciò sarebbe ragione ulteriore per pretendere la rapida dismissione dei poligoni. Una scelta politica in favore dello sviluppo crea sempre vincitori e perdenti. La fine dell’occupazione militare lederebbe direttamente, nel breve periodo, soltanto una minoranza, laddove l’eliminazione di questo gravame aprirebbe delle grandi possibilità per la nostra autodeterminazione e il nostro sviluppo futuro. A vincere sarebbe una nazione intera.

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