Il processo di integrazione degli immigrati in Belgio

1 Dicembre 2015
foto_Francesca_Corona
Michela Angius

In seguito alla strage di Parigi, la maggior parte dei media ha rinominato il Belgio con la parola Belgistan. Da capitale europea, Bruxelles è diventata il covo del terrorismo mondiale e Molenbeek, uno dei diciannove comuni facenti parte della Regione di Bruxelles-Capitale, è stato dipinto come il covo jihadista per eccellenza.
Pur non volendo negare il fatto che i terroristi in azione a Parigi fossero belgi, accade che etichettare sia più semplice dell’andare oltre la superficie. Innanzitutto il Belgio non è l’Italia. Per la sua storia coloniale ha attirato negli anni molte persone provenienti dal Congo. Mentre per la sua posizione geografica, centrale in Europa, è diventato meta strategica per molti migranti.
Nella seconda metà degli anni ‘40, le miniere di carbone belghe hanno ad esempio rappresentato una salvezza lavorativa per molti italiani. Oggigiorno la presenza delle Istituzioni europee e di molte multinazionali rendono Bruxelles più appetibile rispetto ad altre capitali europee.
Camminare per le sue strade fa entrare in una realtà a tratti surreale. Poche fermate di metro separano gli edifici scintillanti del Parlamento e Commissione Europea, al vivace quartiere africano di Matongè o all’arabeggiante Mercato della Gare du Midi. Più volte mi sono domandata se tra i vari quartieri di Bruxelles ci fosse una reale integrazione o fossero piuttosto separati da un sottile muro di gomma.
Chiunque sia stato a Bruxelles per un periodo superiore a quello della durata di una vacanza, si sarà sicuramente reso conto di questa vasta eterogeneità. E i dati ufficiali non fanno altro che confermarlo.
Nel 2015, l’11,40% della popolazione residente nella Regione di Bruxelles-Capitale proveniva da Paesi extra-UE, mentre il 22,53% da altri Paesi europei. Tra le nazionalità più rappresentate vi è quella francese, marocchina, romena e italiana (fonte, IBSA).
La presenza di persone non belghe è abbastanza omogenea nei diversi comuni. Un esempio è il comune residenziale di Etterbeek dove la presenza di stranieri si attesta al 45,8%, rispetto al 28% del comune di Molenbeek (fonte, IBSA).
Ciò che varia sono le nazionalità presenti al loro interno. Ad Etterbeek prevalgono i francesi e i polacchi, mentre a Molenbeek i marocchini e romeni.
Con una così significativa presenza di immigrati, diventa cruciale l’adozione di politiche di integrazione volte all’evitamento della ghettizzazione degli stranieri e all’emarginazione di coloro definiti dispregiativamente come immigrati di seconda e/o terza generazione.
Senza avere la pretesa di fornire una spiegazione univoca del processo di integrazione a Bruxelles, può essere interessante considerare il lavoro come uno dei possibili parametri di riferimento. Svolgere un’occupazione lavorativa è infatti uno degli strumenti principali attraverso i quali si può favorire l’inclusione sociale.
Un interessante studio condotto nel 2010, ha cercato di capire se esistono delle difficoltà di inserimento delle persone straniere nel mercato di lavoro belga. I risultati non sono confortanti (fonte, Keyser e coll.). Tra le persone nate al di fuori dell’UE, solo il 46,5% aveva un lavoro, contro il 63,6% dei belgi. E circa quattro persone su dieci era inattivo, ovvero non lavorava nè cercava un’occupazione (39,2%). I belgi disoccupati erano invece il 31,7%. Mentre il 14,3% delle persone provenienti da Paesi extra-UE percepiva i sussidi di disoccupazione. La situazione era ancora più preoccupante per le donne di nazionalità non belga.
Il tasso di occupazione correlava positivamente con il livello di istruzione, anche tra le persone non belghe. Ma il processo di riconoscimento del titolo di studio determinava in molti casi un fenomeno di declassamento professionale per le persone di nazionalità extra-UE. La differenza nell’accesso all’occupazione tra belgi e persone di nazionalità non europea si riduceva ma continuava a persistere se gli studi erano stati compiuti in Belgio.
Il paese di origine dei genitori è risultato essere un fattore di influenza nell’inserimento lavorativo. In base alla legislazione belga, chi nasce in Belgio da genitori non belgi che soddisfano alcuni criteri è considerato cittadino belga (almeno uno dei due genitori deve essere nato in Belgio o aver avuto la residenza principale in Belgio per almeno 5 anni nei 10 anni precedenti la nascita del figlio). I terroristi degli attacchi di Parigi erano ad esempio di nazionalità belga. Secondo tale studio avere avuto almeno un genitore nato in Belgio influiva positivamente sul processo di integrazione e sulle probabilità di inserimento professionale. La probabilità invece diminuiva se entrambi i genitori non erano nati in Belgio.
La disparità nei tassi di impiego tra belgi e stranieri era un fenomeno già presente nel 1990, anno in cui si era registrata una differenza di ben 15 punti percentuali.
Tra l’altro nel 2011 le persone nate all’estero occupate in Belgio (45,8%) erano di gran lunga al di sotto della media europea (58,1%).
Lo studio sembra indicare la presenza di specifici ostacoli nell’inserimento lavorativo delle persone immigrate in Belgio, sebbene dovrebbe essere evitata la deduzione secondo cui l’assenza di lavoro porti le persone ad abbracciare la causa jihadista. I fattori coinvolti sono infatti complessi e molteplici.
Sarebbe opportuno ragionare su quanto una condizione di povertà e precarietà causata dall’assenza del lavoro, possa amplificare il disagio vissuto dalle persone immigrate. Ripensare ad una nuova modalità di accoglienza sembra essere un obbligo a cui ormai nessun Paese può più sottrarsi.

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