La DAD tra vantaggi emergenziali e criticità

22 Gennaio 2022

[Cristina Lavinio]

     Indubbiamente la Dad (didattica a distanza) è stata ed è, in piena pandemia, una misura emergenziale che ha aiutato e aiuta a mantenere aperta la comunicazione tra la scuola e gli studenti. Meglio che niente, certo; e c’è anche chi l’ha considerata un vantaggio, perché ha dato un’accelerata alla capacità di organizzare eventi e lezioni online, ha insegnato a stare su piattaforme digitali e renderne familiare l’uso, combattendo l’analfabetismo digitale ancora molto diffuso ecc. ecc. Ma c’è stato anche un eccessivo entusiasmo di tanti amatori del digitale e delle magnifiche sorti progressive che al digitale sembrano legate e che, da molto tempo, sostengono che la scuola (e con lei l’Università) dovrebbero «dissolversi in rete».

           Invece, si dovrebbe ricordare la storia stessa dei molti modi per comunicare a distanza allargando la possibilità di raggiungere destinatari dislocati altrove (nello spazio e anche nel tempo), a partire dall’invenzione della scrittura prima, della stampa poi, per non parlare  del rilancio di un’oralità «secondaria» (perché impensabile senza il terreno del progresso scientifico e tecnico dovuto alla scrittura) grazie a telefono, radio, tv e ora streaming, in diretta o meno[1]; è una storia che insegna che le innovazioni tecnologiche non hanno mai comportato una eliminazione di quanto si faceva in precedenza: la scrittura non ha mai sostituito l’importanza e il peso della parola detta, la stampa e la video-scrittura non hanno soppiantato la scrittura a mano, difficilmente i libri stampati saranno completamente sostituiti dagli e-book e, per quanto sembriamo ormai tutti «presi nella rete»[2], c’è già qualcuno che comincia ad accorgersi di quanto la rete possa essere effimera (siti importanti che spariscono se non se ne fa una manutenzione costante, virus che possono aggredire anche dati e siti considerati impenetrabili, e così via)[3]. Dunque, la rete non manderà al macero archivi e biblioteche (anche se c’è chi pensa di poter buttare il cartaceo per ‘mancanza di spazio’[4]). E neanche la comunicazione a distanza soppianterà quella in presenza e faccia a faccia, tanto meno nella didattica e pur nel proliferare di corsi e università telematiche i cui risultati sarebbe ora di valutare molto seriamente.

        Si tratterà invece di continuare a sfruttare la rete per quanto di positivo già offre, conoscendone le potenzialità ma anche insegnando a tutti a navigarci al meglio e a difendersi dai rischi di quella che oggi si chiama infodemia (confusione informativa determinata dal cumulo eccessivo di informazioni, per giunta spesso contraddittorie, poco attendibili, piene di fake news ecc.). E invece bisognerebbe imparare a discernere attentamente informazioni e siti attendibili da quelli che lo sono poco o non lo sono affatto. E dovrebbe essere prima di tutto la scuola ad insegnarlo (o meglio ogni docente per le discipline che insegna e di cui è o dovrebbe essere specialista).

           Comunque, tornando alla Dad, ormai sembra maturata anche tra molti decisori politici la convinzione che la Dad  (assieme alla DID, didattica integrata a distanza, che mette insieme utenti presenti in classe e altri collegati da casa) abbia grossissimi limiti e sia da evitare il più possibile, a favore di una scuola che, per dirsi pienamente tale, non può che essere in presenza.

  • La Dad e l’Invalsi

            Qualche mese fa è balzata al centro dell’attenzione massmediatica la presentazione dei risultati delle prove nazionali Invalsi del 2021. Gli insegnanti dovrebbero sapere che queste prove sono una sorta di termometro per misurare periodicamente, in alcune classi dei diversi ordini di scuola, le conoscenze di base raggiunte, in primis in italiano e matematica, più nell’immancabile inglese. E sono state concepite per la valutazione del sistema ‘scuola’[5] e non dei singoli istituti, scuole, classi, alunni e insegnanti, al di là delle distorsioni (che talvolta ci sono state) e dell’antipatia con cui le prove Invalsi sono state (o sono) guardate.

      Nel 2020, a causa della pandemia, sono saltate anche le prove Invalsi. Ma i dati del 2021, confrontati con quelli ricavati nel 2018 e 2019 da prove analoghe, rivelano ovunque un preoccupante arretramento medio delle capacità degli studenti di capire un testo e di rispondere a un quesito matematico, anche se a perdere più punti sono le regioni del Sud e i ragazzi provenienti da famiglie socio-economicamente e culturalmente più deboli. Un divario cronico, si dirà, in una scuola dove i dislivelli non sono mai stati eliminati: dislivelli territoriali e di “classe” (come si diceva un tempo, prima di parlare, in modo più neutro, di povertà educativa e di conseguente dispersione scolastica). Ma adesso, dopo un anno di Dad anche se più o meno a singhiozzo e non uguale in tutti gli ordini di scuola, il divario si è accentuato di molto e hanno perso terreno anche i ragazzi che due anni fa, pur a partire da situazioni sfavorevoli, mostravano segni di recupero. A resistere su livelli simili ai risultati precedenti è stata solo la scuola primaria (la vecchia scuola elementare) che in realtà, durante la pandemia, è rimasta chiusa per meno tempo. Citando, con Alberto Sobrero[6], qualche dato per l’Italiano si ricava che:

  • alla fine della secondaria di primo grado la percentuale di alunni che non raggiunge il livello minimo delle competenze indicate in capacità di leggere e capire un testo sale dal 34% pre-dad al 39%;
  • alla fine del secondo anno delle secondarie di secondo grado chi non raggiunge il livello minimo sale dal 37% del 2019 al 44% nel 2021;
  • nel 2021, tra l’altro, si è allargata di molto la forbice tra Nord e Sud più isole, con un Nord che tutto sommato ‘tiene’ (ed è superiore del 30%) rispetto a un Sud che precipita;
  • dunque,  «i più deboli sono sempre più deboli, i più forti sono sempre più forti», con l’aggravante che nel Mezzogiorno – denuncia ancora Sobrero- sembra aumentata la tendenza a formare classi omogenee, relegando gli studenti più deboli e di estrazione socio-economica e culturale bassa in classi che rassomigliano tanto (aggiungo io) a quelle che un tempo venivano dette ‘classi differenziali’. Il criterio dell’inclusione (sancito da tempo a parole) e dell’apprendimento cooperativo salta spesso dunque, a partire dallo stesso momento di composizione delle classi.
  • Dad e disuguaglianze

Nel giustificare la scelta (giusta) di tenere le scuole aperte, nonostante Omicron, il governo e la stampa hanno detto che la Dad produce disuguaglianze. Ma si sono dimenticati di dire (non lo sanno o, peggio, hanno fatto finta di non saperlo) che queste disuguaglianze vengono da lontano e che la Dad, semmai, le aggrava. Certamente, la Dad

– ha accentuato il divario (oltre che, come si è detto, tra Nord e Sud più isole) anche tra grandi città e piccoli centri, tra quartieri ‘bene’ e quartieri popolari, tra ragazzi provvisti di computer e ambienti domestici in cui poter seguire le lezioni con agio e ragazzi meno attrezzati;

– ha evidenziato le difficoltà di connessione a una rete che non copre ancora in modo efficace l’intero territorio nazionale;

– ha reso tangibili le difficoltà iniziali di molti insegnanti nell’uso della rete e delle piattaforme per accedervi,  difficoltà che sono state solo parzialmente superate, con grande fatica.

Ma si dice meno che la Dad non ha funzionato soprattutto quando si è pensato di poter trasferire a distanza ciò che è già discutibile in presenza (lezioni scandite da interrogazioni e monologhi-spiegazioni dell’insegnante, rigidamente frontali), senza essersi mai preoccupati di instaurare modalità didattiche differenti di interazione in classe, per costruire le conoscenze degli alunni in maniera più motivante e partecipata. 

La DAD impone tra l’altro che si tenga conto pure dei limiti legati al mezzo  usato, che – ammesso che tecnicamente funzioni al meglio – comporta comunque tempi di attenzione differenti. Da tempo sappiamo che, nella comunicazione in presenza, neanche gli adulti riescono ad ascoltare chi parla senza interruzioni per più di tre quarti d’ora (ma alla mezz’ora la curva di attenzione incomincia già a scendere). Nella comunicazione mediata dal computer i tempi di attenzione si abbassano ulteriormente: quelli in cui si può ‘reggere’ con profitto l’ascolto di un parlato monologico sono tempi nettamente inferiori (20 minuti/mezz’ora al massimo). Per non parlare poi del fatto che si ha difficoltà a leggere e interpretare il feed-back proveniente dai destinatari, molto ridotto rispetto a quello normale della didattica in presenza in cui, anche quando i ragazzi non parlano, l’insegnante attento sa cogliere dal loro atteggiamento, di interesse o di noia, di distrazione o di curiosità, l’efficacia o meno della propria comunicazione. Nelle varie piattaforme si vede bene solo il viso, e dunque le espressioni facciali, di alcuni dei destinatari, le cui facce diventano  faccine ancora più piccole o spariscono del tutto quando ci si serva di qualche slide. La proiezione di slide e  immagini diventa comunque necessaria a interrompere la monotonia e la fatica del seguire, mentre sarebbe opportuno che chi ascolta potesse intervenire e avere l’accesso (senza timore di sovraccarico della rete e conseguente disconnessione) a microfono e video, per non dover riversare i suoi eventuali interventi solo in chat. E non voglio parlare di chi, collegatosi, può solo far finta di essere presente.   Sono innegabili insomma le numerose distorsioni interattive legate alla Dad.

  • La formazione necessaria

Inoltre, come dicevo, è diventato più evidente quanto sia difficile per molti insegnanti gestire in modo meno tradizionale la comunicazione in classe. Gli insegnanti spesso (e non per colpa loro) non hanno mai avuto in partenza una formazione di base (semiotica e linguistica) sulla comunicazione stessa e su come renderla più efficace, e pensano di poter trasmettere i propri contenuti disciplinari senza curarsi dei modi e del linguaggio usato per presentarli agli allievi.

Sarebbe adesso il momento di rilanciare, almeno come formazione in servizio, l’attenzione su questi temi. Invece troppo spesso si pensa che sia sufficiente addestrare i docenti all’uso delle nuove tecnologie (le TIC di cui all’Indire e al Ministero dell’Istruzione si parla da decenni) e che occorra limitarsi a dotare le scuole di strumenti tecnologicamente avanzati. Per i quali si spende tanto ma che rischiano di diventare obsoleti prima che si impari ad usarli in modo didatticamente efficace. Come è successo spesso per le LIM e come è successo,  anche in Sardegna, con il famoso “progetto Marte” che, dopo l’acquisto delle attrezzature in ogni scuola, non ha poi avuto seguito. Se dunque è giusto combattere l’analfabetismo digitale, ciò non basta affatto perché, al di là del mezzo che si usa per comunicare, occorre tenere presente ben altro.

L’interazione (meglio che comunicazione) che si realizza nelle aule scolastiche non è mai solo verbale. Sarebbe il caso di tenere presente la sua  multimodalità, costituita dalla compresenza e uso di linguaggi e strumenti diversi: dal linguaggio verbale a quello prossemico e di organizzazione dello spazio, da quello della gestualità e della mimica a quello della direzione degli sguardi di chi parla e ascolta, ricorrendo a slides, lavagne, tradizionali o meno, comprese quelle multimediali ecc.[7]. L’interazione in classe è stata studiata da tempo e, rispetto alla tradizionale «scuola del silenzio» (degli alunni che dovrebbero parlare solo se interrogati e che resiste ancora, specie nella secondaria di secondo grado), bisognerebbe correggere molte cose per risvegliare in loro maggiore motivazione, curiosità, partecipazione attiva, coinvolgimento nei processi di insegnamento/apprendimento di cui l’insegnante, regista di tutto ciò, è l’ovvio responsabile. Da tempo è stato affermato, ad esempio, che dovrebbe essere lasciato maggiore spazio alla parola degli alunni anche per educarli a una produzione orale ben organizzata (e indirizzata  ai compagni e al loro ascolto piuttosto che al solo insegnante quando interroga) e che si dovrebbe attivare in classe un parlato “euristico” in cui tutti partecipino alla costruzione delle conoscenze, e così via. Più recentemente è stato suggerito anche il metodo della flipped classroom o “classe capovolta”, in cui gli alunni, singoli o a gruppi, diventano parte attiva della lezione e riportano in classe l’esito di un loro scavare autonomamente su un argomento proposto dal docente (eventualmente corredato di materiale e/o di un video introduttivo, da guardare a casa) e senza dipendere passivamente da una preliminare lezione frontale.  Per poi approfondire/studiare in classe, in un apprendimento laboratoriale, partecipato e cooperativo.  Ma tutto ciò, ripeto, esigerebbe ben altri e diversi momenti di formazione dei docenti, diversi da quelli sporadici e frammentari, sugli argomenti più disparati che, in modo inutile e dispersivo, vengono offerti oggi da moltissimi ‘esperti’ o sedicenti tali.


[1] Molto importante sarebbe rileggere il libro di Walter Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola,  Bologna, il Mulino, 2014 [1° ed. 1982].

[2] Per citare il titolo di un altro libro importante: Raffaele Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Milano, Garzanti, 2012.

[3] Cfr almeno la voce dell’Enciclopedia Treccani, Obsolescenza digitalehttps://www.treccani.it/enciclopedia/obsolescenza-digitale_%28Enciclopedia-Italiana%29/  e l’allarme lanciato da Vint Cerf, di cui si parla in https://www.fastweb.it/web-e-digital/obsolescenza-dei-dati-informazioni-digitali-a-rischio-scomparsa/ 

[4] Ciò accade purtroppo anche nelle biblioteche universitarie, con la scusa che i libri – pur acquistati con denaro pubblico – sarebbero ‘vecchi’ o doppi. Libri che vengono esposti in regalo in scaffali appositi. Oppure sono fotocopie, regolarmente catalogate, di testi ormai introvabili.  Ci si mette sopra un bel timbro “Annullato” e la cosa è sistemata. Quando mi è capitato di protestare facendo osservare (per esempio) che sulle diverse edizioni (considerate anch’esse doppioni) di un medesimo dizionario si possono fare ricerche per vedere come e cosa risulta così documentato del cambiamento linguistico (es.: parole nuove che vengono lemmatizzate, parole che spariscono perché cadute in disuso), la bibliotecaria di turno mi guardava con gli occhi sgranati. Ma, cosa ancora più grave, una direttrice di biblioteca (di Facoltà), al mio protestare perché era stato interrotto l’abbonamento a una importante  rivista, mi ha risposto che quella rivista non era stata più richiesta in lettura dagli utenti e che la biblioteca da lei diretta non era una biblioteca “di conservazione”. No comment.

[5] Invalsi è del resto l’acronimo di Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e di formazione.

[6] A. Sobrero, Dad o non Dad. Imparare l’italiano senza se e senza ma, pubblicato sul sito www.giscel.it. Il Giscel (Gruppo di Intervento e di studio nel campo dell’educazione linguistica) è stato fondato da Tullio De Mauro nel 1973 e il suo manifesto costitutivo sono le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, del 1975 ma tuttoggi ancora attualissime. Se ne veda il commento nel volume a cura di S. Loiero e E. Lugarini, Tullio De Mauro: Dieci tesi per una scuola democratica, Firenze, Cesati, 2019.

[7] Cfr. ora il volume a cura di M. Voghera, Orale e scritto, verbale e non verbale. La multimodalità nell’ora di lezione, Firenze, Cesati, 2020

Nell’immagine: Opera di street art a sostegno della didattica in presenza nel liceo Giulio Cesare a Roma. L’opera è firmata della street artist Laika. L’installazione si chiama 2021: in presenza, in sicurezza e consiste in un computer portatile che raffigura uno studente nell’atto di liberarsi dello schermo in cui sembra essere trattenuto.

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