La difficile via della nonviolenza. Su un recente libro di Giuliano Pontara

16 Aprile 2020
[Annamaria Loche]

In occasione del 150° anniversario della nascita di Gandhi (2 ottobre 1869), Giuliano Pontara, uno dei maggiori esperti del pensiero gandhiano a livello internazionale, propone un’edizione riveduta, ampliata e aggiornata di una sua importante pubblicazione del 2006: L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo (Edizioni Gruppo Abele, Torino 2019, € 24; I ed. EGA editore, 2006). Pontara è autore anche di altri significativi studi su Gandhi; in particolare mi sembra opportuno ricordare Teoria e pratica della nonviolenza, non solo in quanto consente di disporre in italiano di un’ampia raccolta di scritti del Mahatma, ma anche perché lo studioso italiano presenta quest’opera con accurata e documentata Introduzione.

L’antibarbarie, dedicato alla memoria di Aldo Capitini definito “convinto” e di Norberto Bobbio definito “perplesso” in merito al pacifismo nonviolento, ha lo scopo principale di mostrare come le tesi elaborate da Gandhi offrano una via di uscita dalla barbarie insita in quelle che Pontara definisce le tendenze naziste «largamente presenti nel mondo» (p.13). La Weltanschauung nazista va «intesa come ideologia generale, categoria astorica» che comprende «strutture mentali, assunti, atteggiamenti, norme, valori largamente condivisi» (p. 313), sempre presenti nella storia dell’uomo e tutt’altro che scomparsi ai nostri giorni. Nello stesso tempo, anche le tendenze nonviolente, parallelamente a quelle naziste, hanno una lunga storia e sono state sempre presenti con un loro ruolo nella cultura di tutti i tempi e luoghi. Merito del pensiero e della pratica di vita di Gandhi è stato quello di averne riunito tutti gli elementi fondamentali che consentono di mostrare la pericolosità insita negli assunti nazisti.

Nel I capitolo, Giuliano Pontara indica in 8 punti i principi fondamentali delle tendenze naziste (la concezione del mondo come teatro della lotta per la supremazia; la tesi del diritto del più forte; la scissione fra morale e politica; l’elitismo; il disprezzo per i più deboli; l’esaltazione della violenza; il culto dell’obbedienza assoluta; il dogmatismo “fanatico”). Tali principi, sebbene abbiano una storia antica, dalla prima guerra mondiale e successivamente in modo esponenzialmente crescente, hanno creato fenomeni sempre più violenti, provocando un enorme numero di vittime innocenti. Se la loro presenza nel mondo ha favorito l’affermarsi del nazismo, è stato poi il nazismo, con la cultura che ne è derivata, a incrementarli; teorie strettamente imparentate con quelle del nazismo storico si individuano facilmente anche presso molte Nazioni che si definiscono democratiche. Nel X e ultimo capitolo Pontara confuta  ciascuna delle “tendenze naziste” che ho sopra elencato con puntuali riferimenti alle tesi della nonviolenza.

A parte il secondo, dedicato a Gandhi come persona e alla sua attività politica, gli altri 7 capitoli del libro analizzano e discutono i temi del pensiero del Mahatma: verità, religione, etica, rispetto della vita, teoria della nonviolenza, strategia di risoluzione non violenta dei conflitti, disobbedienza civile, e altro ancora. Sono tutti argomenti di grande interesse, ma è impossibile riassumerli nello spazio di una recensione. Preferisco pertanto soffermarmi solo su alcuni, avvertendo che in realtà ciascuno di essi meriterebbe un’analisi specifica.

Al centro del pensiero e della pratica politica di Gandhi sta, come è peraltro noto, il concetto di nonviolenza, il quale tuttavia, non deriva da una «posizione semplicistica o di generico pacifismo» (p. 134). L’ahimsa, parola con la quale il Mahatma indica la nonviolenza (mentre himsa denota la “violenza”) è un termine complesso che non ha un significato semplicemente descrittivo, ma etico e normativo. Violenza è infliggere sofferenza, fisica e psicologica, o agire contro la volontà della persona che la subisce e va intesa come rivolta non solo agli esseri umani, ma a tutti i viventi, in senso lato, con un’accezione molto vasta, sulla quale peraltro Pontara non concorda. Se violenza è «un atto o un insieme di atti (commissivi o omissivi)» (p. 137) che provocano in modo intenzionale morte e sofferenza senza l’assenso di chi la subisce, sono violenti non solo i comportamenti operati da una singola persona, ma anche quelli di istituzioni e sistemi sociali. Gandhi, sebbene consapevole dell’impossibilità che si possa essere interamente liberati dalla hisma, sostiene che bisogna impegnarsi a rifiutarla in quanto è un male morale: è infatti «un dovere fondamentale […] ridurre il più possibile la violenza nel mondo» (p. 141).

Va, perciò, perseguito lo scopo di minimizzare la violenza, di cercare di attuare, ogni volta che sia possibile, una strategia non violenta, che Gandhi chiama satyagraha. Il satyagraha – che costituisce, tra l’altro, «il momento più originale del “messaggio” gandhiano» – è  «la traduzione delle esigenze dell’ahimsa nel campo dell’azione politica e sociale», implica la trasformazione dei conflitti antagonistici e violenti in confronti non antagonistici e costruttivi, spezza «la dicotomia ragione-violenza» (p. 195). È forse opportuno riportare i principi della strategia della nonviolenza come Pontara li riassume: 1. astensione dalla violenza; 2. adesione alla verità; 3. auto-sacrificio; 4.agire costruttivo; 5. compromesso; 6. gradualità dei mezzi. Ciascuno di questi principi è centrale per il perseguimento della nonviolenza e tutti sono connessi fra loro in una relazione di stretta reciprocità; ciascuno di essi, tuttavia, apre dei problemi. Ad esempio, il principio della verità è fondamentale; ma la verità non è un assunto dogmatico e anzi si collega a un’assunzione fallibilistica: se la verità è assoluta e oggettiva, è relativo invece «il nostro modo di avvicinarci ad essa»; si deve perciò essere disposti «a modificare o anche abbandonare una credenza […]» se si dimostrasse contraddittoria o «basata su argomenti in seguito trovati invalidi» (p. 93).

Giuliano Pontara tiene peraltro a precisare come «in più occasioni Gandhi diede il proprio appoggio a lotte violente e con alcune addirittura collaborò direttamente» (p.162). Lo studioso italiano riporta una citazione da un testo del 1921 dove il Mahatma chiarisce che il nonviolento non deve usare la violenza, ma, per non condannarsi all’immobilità, non deve soggiacere «alla proibizione di aiutare uomini o istituzioni che non operano in base alla nonviolenza» (p. 184). Per questo Gandhi più volte ebbe modo di dichiarare, in caso di conflitti, il suo appoggio a una delle parti. Dal punto di vista teorico, la possibilità di un tale genere di appoggio «muove dalla premessa generale per cui di fronte a una patente oppressione o aggressione le vittime hanno un diritto-dovere di resistenza» (p. 191). I termini della questione sono piuttosto complessi e le risposte al problema di notevole interesse; in questa sede, tuttavia, non è possibile scendere in ulteriori particolari.

Fra i numerosissimi temi di riflessione cui L’antibarbarie invita, meritano un accenno almeno altri due argomenti.

Il primo concerne la questione della “vera democrazia”, cui Gandhi si riferisce con il termine proprio della tradizione indiana di swaraj, che peraltro utilizza con significato ampiamente polisemico; con esso fra l’altro indica – in senso sia  individuale sia collettivo – autogoverno, autonomia, autolimitazione, libertà, indipendenza. L’autentica indipendenza politica si realizza solo in una “vera democrazia”, cioè con «il massimo controllo democratico dal basso»: così si sarebbe dovuta organizzare la società indiana una volta liberata dal dominio inglese. La vera democrazia comporta il massimo rispetto degli interessi altrui e, in senso lato, l’accettazione della prospettiva nonviolenta, con l’ampiezza di significati che essa contiene. Ed è per tale motivo che Gandhi ritiene politicamente carenti ed eticamente povere le democrazie dei Paesi occidentali.

L’ultimo tema su cui vorrei rapidamente soffermarmi riguarda la disobbedienza civile. Giuliano Pontara precisa la differenza fra l’autorità di comandare e l’esigere obbedienza de facto e de jure. Nel primo caso si tratta solo di constatare che una autorità esiste; nel secondo si tratta di appurare se l’autorità ha buone ragioni per esigere l’obbedienza ai suoi comandi, implicando così l’assunzione di un piano normativo. È perciò importante diffidare «di ogni presunzione e pretesa di autorità assoluta» e, nel contempo, sviluppare «una capacità critica di mettere in questione la legittimità de jure di questo o di quel comando, di questa o di quella legge» (p. 305). È vero che ci sono buoni motivi per obbedire alle leggi; per quanto concerne le leggi democratiche, l’obbligo di obbedienza «viene radicato nei due […] principi di uguaglianza del potere e di rispetto dell’autonomia della persona»: non si ha mai, però, un obbligo assoluto. Gandhi ritiene che vi sia «un diritto morale “inerente a ogni cittadino” alla disobbedienza civile in relazione a leggi, ordini, direttive ritenuti ingiusti» (p. 306). Disobbedienza civile significa violazione deliberata della legge per motivi di coscienza, violazione operata pubblicamente e «accompagnata dalla disposizione a sottomettersi volontariamente alla pena prevista per la violazione» (p. 307; corsivo mio). Giustamente Giuliano Pontara richiama in proposito Thoreau e l’Antigone sofoclea (cui ha dedicato altrove stimolanti saggi); è però chiaro che tali esempi hanno le loro peculiarità che non coincidono pienamente con la nonviolenza gandhiana. Il Mahatma, da parte sua, distingue la disobbedienza civile verso leggi particolari di uno Stato democratico da quella nei confronti di un intero ordinamento illegittimo e oppressivo: nei due casi vanno attuati comportamenti diversi, ma in entrambi è essenziale al concetto stesso di disobbedienza civile sottomettersi alla pena; in particolare, per chi vive in uno Stato democratico ciò è fondamentale sia per testimoniare la propria buona fede sia per riconoscere che il proprio atto possa essere sbagliato sia per dare testimonianza pubblica della propria scelta e delle proprie ragioni sia, infine, per evitare una condizione di anarchia.

Questi e molti altri sono i temi su cui si impegna Pontara per mostrare come la via della nonviolenza sia in grado di condurre a una “uscita dalla barbarie”, opponendo alle tendenze naziste una differente Weltanschauung. L’intera analisi degli argomenti affrontati nel libro si rende necessaria tenendo conto di quanto sia arduo eliminare tutti i tentacoli che la barbarie nazista della violenza ha insinuato nel mondo; ma «rivolgendo l’attenzione alle forze morali, costruttive e nonviolente […] si possono trovare […] appigli per un’intelligente speranza» e, se Gandhi stesso riconosceva come il compito sia difficile, Pontara può giustamente chiedersi: «Ma esistono forse vie facili?» (pp. 326-327).

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