La Maddalena. Un futuro da inventare

16 Marzo 2009

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Marta Battaglia

Abbiamo chiesto a Marta Battaglia, maddalenina, un intervento che raccontasse brevemente la storia dell’arcipelago ed esponesse le prospettive dei suoi abitanti in relazione alle vicende del G8.
Che momento confuso, questo, per La Maddalena. Teatro di cambiamenti veloci e profondi che vanno scombinando gli equilibri sociali ed economici consolidati, si ritrova all’improvviso portata all’attenzione di un pubblico vasto quanto varioda quell’evento controverso e indubbiamente travolgente che è il G8. Come nuda, deve reggere lo sguardo di chi valuta investimenti economici, di chi critica le procedure operative, di quanti contestano i contenuti dell’evento, proprio nel momento in cui, in totale indipendenza dal G8, la storia di questa piccola comunità cambia decisamente rotta. Tante cose si dicono di Maddalena in questo periodo. E alto è il bisogno di un’informazione precisa, circostanziata, a difesa di una comunità che vive un momento di debolezza e a supporto di tutte le iniziative, le riflessioni, i movimenti che in qualche modo la riguardano e che possono utilmente contribuire alla messa a fuoco di un futuro tutto da inventare. La Maddalena è un arcipelago, con un’isola madre abitata e un insieme di isole inedificabili e sostanzialmente inedificate che i maddalenini vivono come proprietà comune, indivisa e intoccabile. Un arcipelago remoto, con un’attrattiva turistica elevata ma troppo distante per essere interessato da altri flussi turistici che non siano quelli concentrati nella stagione balneare. E’ un comune e insieme un parco nazionale, coincidenti territorialmente e dotati di enti e strumenti di gestione che sembrano per loro stessa natura incapaci di dialogare. E’ base militare, da sempre, e ha una storia da raccontare. Due storie, in realtà, ben distinte: quella della secolare simbiosi tra comunità residente e Marina Italiana e quella recente, superficiale se non fosse per le profonde implicazioni di tipo ambientale ed economico, della presenza americana. I maddalenini hanno un passato breve; l’arcipelago non ha mai avuto nulla da offrire alle economie tradizionali, fatto com’è di isole e di troppo granito, privo del suolo necessario per qualsiasi produzione degna di tale nome. Sino al 1767 non aveva ospitato più che 185 persone, pastori sardi e corsi che coltivavano i pochi terreni pianeggianti e trasportavano le bestie via mare da un’isola all’altra per garantirgli la sopravvivenza; poveri e abbastanza stanchi della loro vita da cogliere al volo la proposta della Marina del Regno di Sardegna che sbarca in un giorno di ottobre di quello stesso anno spinta dal vento di levante.
Questo l’accordo di reciproco aiuto: i maddalenini, sino ad allora arroccati nella parte più alta dell’isola madre, si trasferiscono sulla costa creando un effettivo avamposto sardo contro il pericolo del passaggio della Corsica da Genova alla Francia e il Regno si impegna a difendere la comunità civile con un presidio militare permanente. La Marina è sempre stata lì, fedele alla sua parte dell’accordo, e ha avuto un ruolo di primo piano nella costruzione del sistema economico e sociale, nella conservazione dell’integrità ambientale del territorio (e della sua totale immobilità, per contro) e nella formazione dei canoni estetici del paesaggio urbano. Da circa vent’anni, però, la Marina Italiana non svolge più il ruolo di soggetto attivo che l’aveva connotata in passato. Sono venute meno le motivazioni di carattere strategico che rendevano preziosa la presenza militare nell’arcipelago e gli aspetti economici sono diventati preponderanti nella scelta delle località e delle funzioni da mantenere; con un processo di progressivo disimpegno, la Marina è arrivata recentemente a decretare la chiusura definitiva dell’Arsenale militare dopo lunga agonia delle risorse e il decadimento delle strutture –bellissime- su cui non riteneva più conveniente investire, optando per una contrazione generale di tutte le sue attività nell’arcipelago. Facciamo un passo indietro. L’altra storia comincia nel 1972, con un patto bilaterale segreto tra il governo italiano e quello americano che offre un’area di Santo Stefano (isola prospiciente l’abitato della Maddalena e totalmente disabitata, se si fa eccezione per il villaggio turistico che già alla fine degli anni Sessanta occupava il capo opposto dell’isola) come punto di appoggio per la nave officina statunitense di supporto ai sommergibili a propulsione nucleare in attività nel Mediterraneo. La Marina statunitense ha sin dall’inizio un “contratto” senza scadenza, all’insaputa dei maddalenini. Può rimanere lì sinchè gli equilibri delicati della geografia mondiale lo richiederanno. E’ molto diversa la presenza americana rispetto a quella della Marina Italiana: gli statunitensi non acquistano strutture, le affittano (case sparse, villaggi residenziali); non utilizzano i servizi locali ma ne creano di propri (scuola, palestra, chiesa, spaccio); non frequentano le spiagge in estate e si concentrano solo in alcuni locali la notte, senza confondersi con la comunità residente. A questa quasi impalpabile presenza si contrappone una contaminazione pesante del sistema economico locale: a la Maddalena gli americani si riforniscono di beni e servizi, pagano affitti cari fuori mercato per i residenti e generano un indotto consistente che gira intorno proprio alla necessità di manutenzione delle seconde case. A fine 2006, appena avviati alcuni controversi lavori di ristrutturazione di vecchi capannoni in corrispondenza dell’approdo navale per l’espansione della presenza a terra, gli Stati Uniti annunciano l’imminente spostamento della loro base e nel marzo 2008 vanno via davvero: non lasciano nessun bene che non sia già di proprietà privata (neanche l’area di approdo, che era e rimane base NATO), non devono cedere né vendere alcunché perché non possiedono niente. Semplicemente vanno via, sottraendo un elemento portante della fragile impalcatura dell’economia isolana. Tanti trattengono il respiro, spaesati e un po’ increduli. Alcuni cercano il colpevole e credono di riconoscerlo in Renato Soru. Tutti si chiedono cosa succederà, cosa potrà rimpiazzare il tassello mancante. Non siamo stati furbi, noi maddalenini. Una comunità ricca che non ha mai dovuto faticare per assicurarsi stipendi, che ha vissuto solo marginalmente il fenomeno dell’emigrazione e ha potuto crescere e prosperare senza farsi tentare dallo sperpero di suolo che con tanta evidenza ha generato benessere e al tempo stesso “impoverito” i territori della vicina costa sarda. In tutta tranquillità, consapevoli dell’attrattiva turistica che l’arcipelago rappresenta e forti di alcuni saperi rari (nella meccanica navale, nella carpenteria in legno, nella lavorazione del granito) avremmo potuto lavorare alla costruzione di una capacità imprenditoriale forte e radicata sulle specificità territoriali, una sorta di rete di sicurezza in grado di sostenere l’economia locale nei momenti prevedibili di dissesto. La realizzazione del G8 si è offerta a tutti come un’ancora di salvezza, intervenendo sui nodi lasciati scoperti dall’evoluzione deteriore delle due storie militari: recupera i beni dimessi dalla marina italiana per creare gli spazi che ospiteranno i lavori (ex Arsenale ed ex Ospedale militare, entrambi sull’isola di La Maddalena) e rimpiazza per un anno, con il personale dei cantieri aperti intorno alla ristrutturazione degli edifici e alla realizzazione delle nuove strutture, quel pezzo del sistema economico locale sparito insieme agli americani. In tanti hanno trovato convenienza in questo G8: la Marina ha potuto chiudere definitivamente i cancelli delle strutture ormai economicamente insostenibili e rimanere immacolata, passando la mano su aree in forte stato di degrado e bisognose di bonifica; la Regione ha acquisito beni di pregio architettonico e di elevato valore economico; la comunità locale si riappropria di un pezzo di territorio urbano potenzialmente strategico per posizione e per caratteristiche strutturali. Tutti a Maddalena sanno però che il G8 non rappresenta la soluzione. Avere nuovi posti letto –anche se di lusso- non significa necessariamente riuscire ad occuparli e riqualificare l’Arsenale non comporta automaticamente la valorizzazione economica dei saperi che lo stesso Arsenale ha prodotto. La sfida vera sarà nella gestione di questo patrimonio ritrovato e partirà tra pochi mesi, a cantieri chiusi e quando saranno partiti, ormai, i turisti della prossima estate. I lavori attualmente in corso non sono uno scempio paesaggistico, anche se discutibili in alcune scelte, soprattutto di carattere procedurale. La cubatura complessiva delle nuove opere realizzate compensa quella delle strutture fatiscenti demolite, soprattutto dentro l’Arsenale e, per quanto è dato di capire allo stato attuale dei lavori, i canoni estetici adottati denotano un rispetto di fondo delle preesistenze. Non i cantieri adesso in corso devono destare preoccupazione, ma gli interessi e appetiti che –se non dovesse funzionare il rilancio economico che menti pur acute hanno visto accompagnato ai lavori per il G8- sarà difficile tenere a freno. Rimane, inoltre, l’amarezza per il ricorso reiterato alle procedure tipiche dell’emergenza per la gestione di una situazione che, seppur critica, doveva essere considerata ordinaria e risolta con un confronto aperto e leale tra le istituzioni e con la partecipazione attiva e consapevole della comunità locale. Tutti abbiamo da imparare, ancora.

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