La voce della libertà

1 Giugno 2009

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Manuela Scroccu

Aung San Suu Kyi ha ormai 63 anni, tredici dei quali (negli ultimi diciannove) passati in carcere o agli arresti domiciliari per la sua battaglia contro il regime dei generali birmani. Ne aveva 44, era il 20 luglio 1989, quando i militari dello Slorc (Consiglio di Stato per il Ripristino della Legge e dell’Ordine), che pochi mesi prima aveva ereditato il potere dal generale Ne Win con un fittizio colpo di stato, decisero di privarla della libertà per aver gridato pubblicamente la realtà del suo paese, soggiogato da un governo militare che, nonostante le promesse, non avrebbe mai  consentito il passaggio di potere ai civili per consentire la normalizzazione della Birmania. Una verità sotto gli occhi di tutti, ma il regime ebbe paura di questa esile donna che seppe urlarla dritta in faccia al suo popolo, questa verità. Popolo che  ricambiò il suo coraggio accordando una fiducia incondizionata a lei e al suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, fondata appena due anni prima, che riuscì a vincere le elezioni del 27 maggio 1990 conquistando 392 dei 485 seggi del Parlamento birmano. L’avevano sottovalutata, i militari del regime. Non si erano neanche accorti di lei quando, nel 1988, lasciò Londra, dove si era trasferita con il marito inglese, per Rangoon dove aveva deciso di ritornare per assistere la madre morente. Non faceva paura, allora, il suo nome anche se rievocava quello del padre, Aung San, eroe nazionale dell’indipendenza birmana. Strano destino il suo, simile a quello di altre grandi protagoniste della politica mondiale come Benazir Bhutto o Indira Ghandi, inciso nella pesante eredità di un nome. Con la vittoria elettorale, conquistata nonostante il regime di detenzione domiciliare, la fama di Aung San Suu Kyi ha attraversato le frontiere del Myanmar (così è stata ribattezzata la Birmania dal regime). La miope giunta militare cominciò a tremare e l’annullamento delle legittime votazioni attirò l’attenzione del mondo e la riprovazione dell’opinione pubblica internazionale che si riversò implacabile sul regime birmano. L’Occidente scoprì finalmente l’esistenza di una nazione chiamata Birmania e Aung San Suu Kyi diventò l’immagine della lotta e del coraggio del popolo birmano. Non è bastato. L’assegnazione del premio Nobel per la pace, le campagne internazionali e i testimonial del mondo dello spettacolo hanno fatto da cassa di risonanza mediatica ma non sono riusciti a scalfire il monolitico regime militare di Yangon (ex Rangoon). Ci sono molti modi per far tacere le voci libere e il regime birmano è noto per la ferocia con cui tratta i dissidenti che pacificamente si oppongono al governo dei militari e chiedono una vera democrazia. Migliaia di oppositori sono stati incarcerati senza cure mediche e in condizioni disumane. Ma è sempre difficile liberarsi di un simbolo. Questo rappresenta Aung San Suu Kyi, una figura carismatica capace di incarnare la speranza di democrazia del suo popolo. Tredici anni di detenzione non sono serviti a spezzare la resistenza di questa donna e a scalfire  il grande prestigio che ha saputo conquistarsi nella comunità internazionale. Sarebbe tornata libera il 27 maggio. Troppo presto per il regime militare che vede il lei l’unica concreta minaccia al mantenimento del proprio potere. Ecco perchè il 14 maggio, il Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è stata incarcerata di nuovo. Le accuse di violazione del regime di detenzione domiciliare sono evidentemente assurde e lo scopo dei militari al potere è  quello di rendere inoffensiva la carismatica leader dell’opposizione fin dopo le le elezioni che si terranno nel 2010. Se giudicata colpevole, infatti, rischia fino a cinque anni di carcere. Il processo farsa ha un bizzarro protagonista,  John William Yettaw, un cittadino americano mormone che ha attraversato un lago a nuoto per incontrare la leader birmana e introdursi nella sua abitazione. Ha detto di essere stato spinto da una voce divina perché aveva avuto una premonizione, che Aung San Suu Kyi sarebbe stata “assassinata”. E’ lui la causa della violazione contestata. Una strana storia, che sa tanto di complotto e di macchinazione. Oggi Suu Kyi è venerata perché è un’icona: rappresenta la continuità storica della nazione, la voglia di democrazia del popolo, il progresso, il sogno di una Birmania inserita saldamente nel puzzle della comunità internazionale. Con l’incarcerazione del simbolo stesso della lotta birmana il regime ha lanciato un messaggio chiarissimo: non ci saranno aperture democratiche, per i suoi abitanti la Birmania resterà ancora una prigione a cielo aperto. Le pressioni internazionali per la sua liberazione, efficaci sui mezzi di comunicazione, si stanno mostrando molto deboli dal punto di vista politico. Le campagne d’opinione contro il regime non hanno impedito a paesi come il Pakistan e la Cina di mantenere i contatti commerciali e politici con Myanmar, di fatto consentendo alla giunta di non essere del tutto isolata sul piano internazionale. Nelle sue rare interviste  il premio Nobel per la pace ha sempre ribadito che “ciò che la gente della Birmania vuole oggi è democrazia; una volta raggiunta avremo tutti i mezzi per risolvere le questioni che affliggono il Paese”. Per questo il regime la vuole in carcere, i militari sanno che è l’unica figura in grado di compromettere seriamente il governo di Myanmar. Durante l’ultima udienza, aperta per la prima volta dall’inizio del processo ad osservatori internazionali, Aung San Suu Kyi ha detto “spero di incontrarvi in giorni migliori”. Che arrivino presto questo giorni, per questa coraggiosa donna e per chi lotta per la democrazia e i diritti civili e politici in Birmania.

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