Redistribuzione del reddito e rilancio della crescita

16 Settembre 2017

Capitalism, Alex Pietrowski

Gianfranco Sabattini

Il mondo moderno industrializzato è caratterizzato da una profonda e diffusa polarizzazione della ricchezza e del reddito; all’interno di ogni Paese, una piccola minoranza della popolazione è titolare di un patrimonio in continua espansione, mentre il resto della popolazione rimane impotente di fronte alla riduzione del proprio livello di benessere acquisito, e spesso non riesce a d evitare di cadere nella “trappola” della povertà. Le difficoltà che le classi politiche devono affrontare nel governare il sistema economico e, più in generale quello sociale, sono determinate dell’aggravamento continuo delle disuguaglianze distributive; Antonella Stirati, docente di economia nell’Università di Roma TRE, in “Distruzione dei ceti medi e redistribuzione del reddito” (MicroMega 4/2017), afferma che le difficoltà stanno, non tanto nell’individuazione delle misure che potrebbero consentire di affrontare il problema delle disuguaglianze con successo, quanto “nella mancanza della volontà politica di realizzarle”.

Oltre che sul piano economico, l’approfondimento continuo delle disuguaglianze distributive determina infatti una crisi della capacità di tenuta della democrazia, nel momento stesso in cui il corretto funzionamento in senso democratico delle istituzioni sarebbe necessario per affrontare con rapidità, e in presenza di un generalizzato consenso, i problemi posti dalla crisi economica. Ciò è la conseguenza del fatto, rilevato da una folta schiera di economisti contemporanei, che la polarizzazione della ricchezza e del reddito “ha fornito a una piccola minoranza i mezzi per finanziare e influenzare pesantemente la politica, l’informazione, i centri di produzione culturale (fondazioni, università), soprattutto in ambienti sensibili come l’economia – con ciò fornendo sostegno a politiche economiche che hanno ulteriormente favorito l’ampliarsi della loro ricchezza”.

La compensazione del disagio sociale indotto dall’approfondimento e dall’allargamento continuo delle disuguaglianze è nella tradizione delle classi politiche dei Paesi, che da tempo subiscono l’aggravarsi del fenomeno; la comprensione del fenomeno spinge tali classi ad adottare di continuo misure volte a garantire un minimo di “giustizia sociale”, intesa questa come eguaglianza delle opportunità. Nell’attuazione di tali misure, però, è sempre stato trascurato il fatto che il miglioramento delle opportunità, per la parte delle popolazione vittima delle disuguaglianze distributive, non è ottenibile con semplici atti di ridistribuzione del reddito, se questi atti non sono preceduti da una ridistribuzione delle ricchezza accumulata.

Accade così che, malgrado le ”buone intenzioni” di volere conseguire un minimo di giustizia sociale attraverso la sola ridistribuzione del reddito monetario, la mancata realizzazione di un concreto miglioramento delle opportunità per chi sta peggio comporti, per il sistema sociale nel suo insieme, “la perdita delle potenziali capacità di chi appartiene ai gruppi sociali svantaggiati”.

Il persistere delle ineguaglianze economiche sul piano distributivo è divenuto anche la causa di una “crescita squilibrata”. A parità di altre circostanze – afferma la Stirati – “una distribuzioe polarizzata riduce la domanda di beni e servizi, e la crescita delle produzione e dell’occupazione ne risulta rallentata”, a meno che la stagnazione del mercato interno non si coniughi con “politiche mercantiliste” e, dunque, con la formazione di avanzi commerciali nei rapporti con l’estero, com’é accaduto in Germania in occasione della Grande Recessione degli ultimi dieci anni.

Per capire la natura delle ineguaglianze distributive e i reali rimedi per contenerle, e al limite rimuoverle, occorre considerare come esse si formano nei Paesi economicamente avanzati ad economia di mercato. Il reddito disponibile delle famiglie è il risultato della somma del reddito di mercato (ovvero dalla rimunerazione dei servizi della forza lavoro della quale dispone ogni famiglia, al lordo di imposte e dalla rimunerazione della ricchezza posseduta) e dai trasferimenti ridistributivi effettuati dallo Stato (entrate che traggono origine dai sussidi di disoccupazione, pensioni, reddito di inclusione ed altro). Un’altra componente del reddito disponibile, con cui lo Stato realizza l’equità sociale, è costituita “dall’accesso universale, al di fuori del mercato, a servizi che soddisfano alcuni bisogni fondamentali, in primo luogo quelli concernenti lo stato di salute e il livello di istruzione, attraverso lo sviluppo dello Stato sociale”.

Nonostante l’attività ridistribuiva con cui lo Stato ha attuato, soprattutto a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, una giustizia distributiva di natura monetaria, attraverso la quale sono state contenute le disuguaglianze e i loro effetti negativi sul funzionamento dei sistemi ad economia di mercato, occorre capire perché l’aumento delle disuguaglianze sia andato fuori controllo tra gli anni Settanta e Ottanta. Ciò è accaduto, sia per l’indebolimento del ruolo ridistribuivo dello Stato, sia per la riduzione della quota del reddito di mercato della forza lavoro, sia per l’aumento delle disoccupazione. L’insieme degli eventi che hanno caratterizzato il periodo compreso tra gli anni Settanta e Ottanta è valso a dimostrare che, per contenere le disuguaglianze, non basta il ruolo ridistribuivo dello Stato, occorre anche intervenire sui “meccanismi” che determinano le disuguaglianze dei redditi formatesi sul mercato, impedendo che diminuiscano i salari ed aumenti la disoccupazione.

La causa della crescita delle disuguaglianze sta nei “meccanismi” che sorintendono alla distribuzione del reddito di mercato tra i vari protagonisti del processo produttivo. Sul modo di operare di tali “meccanismi” e sull’interpretazione dei loro effetti, la scienza economica è divisa in due opposte “scuole di pensiero”: la prima origina dalla teoria neoclassica dell’economia, e considera la distribuzione del reddito complessivo tra i vari percettori come esito espresso dal libero mercato; la seconda origina dalla teoria classica di Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx, e ritiene che la distribuzione del reddito sia il risultato di forze sociali e dei rapporti di forza esistenti tra i vari protagonisti del processo produttivo.

Secondo la scuola di pensiero oggi dominante, che origina dalla teoria neoclassica, la distribuzione del reddito tra i titolari dei mezzi capitalistici e i vari tipi di forza lavoro, se non esistono ostacoli al libero svolgersi della concorrenza, riflette in pieno il contributo di ogni gruppo alla formazione dell’intero prodotto sociale; tale distribuzione, inoltre, “è quella che assicura un equilibrio tra domanda e offerta. E cioè la piena occupazione del lavoro […] e il pieno utilizzo della capacità produttiva”, mentre l’esistenza di eventuali differenze distributive costituiscono “incentivi necessari a promuovere competitività e innovazione”.

Secondo la scuola di pensiero che si rifà alla teoria classica, che “nei suoi sviluppi moderni si coniuga con gli aspetti principali del contributo teorico di Keynes, non esiste alcuna tendenza delle libere forze di mercato a realizzare condizioni di pieno impiego dei fattori produttivi, cioè di pieno utilizzo degli impianti e della forza lavoro disponibile; sono i rapporti dio forza, sia economici che politici, a determinare la distribuzione del prodotto sociale, riflettendo “tanto le condizioni del mercato del lavoro […] che l’aspetto istituzionale e politico”.

Questa scuola di pensiero è prevalsa nei primi trent’anni successivi al 1945, ma sostituita tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, a seguito dell’instabilità monetaria seguita alla crisi dei mercati delle materie energetiche, dalla scuola di pensiero che, rifacendosi alla teoria neoclassica, ha affermato che, per il superamento dell’instabilità, occorreva considerare la rimunerazione della forza lavoro in funzione della crescita della produttività originata dalle innovazioni e dal progresso tecnico.

Ciò però non è avvenuto, in quanto la distribuzione del prodotto sociale degli ultimi decenni è avvenuta sempre più a vantaggio dei detentori dei mezzi capitalistici di produzione e non dei detentori dei servizi della sola forza lavoro. Questo andamento della distribuzione del reddito deve quindi essere ricondotto a una specifica “peculiarità dello sviluppo economico nei decenni recenti”, cioè al fatto che l’innovazione e il progresso tecnico, più che in passato, hanno consentito di risparmiare quote di forza lavoro, originando disoccupazione e alimentando il processo di approfondimento e di allargamento delle disuguaglianze distributive.

La giustificazione del perché la distribuzione del reddito secondo i principi della teorica classica sia stata sostituita da quella propria delle teoria neoclassica è consistita nel sostenere che la prolungata crescita della spesa pubblica per scopi ridistributivi e per mantenere alti i livelli occupativi aveva sottratto aree di potenziali iniziative economiche ad alta redditività; occorreva quindi procedere ad un ridimensionamento dell’intervento pubblico, soprattutto in importanti comparti d’intervento, quali pensioni, sanità e istruzione. Nonostante il ridimensionamento della spesa pubblica, verificatosi, ad esempio in Italia, a scapito dell’offerta di molti servizi sociali, non vi è stata alcuna crescita dell’economia, e parimenti sono mancati gli aumenti dei salari e dell’occupazione. Perché?

La risposta della Stirati è che la causa di quanto è accaduto, contrariamente alle previsioni dell’ideologia neoliberista, deve essere ricondotta alla globalizzazione, in particolare alla liberalizzazione dei flussi internazionali di capitali. Le trasformazioni in senso neoliberista, avviate alla fine degli anni Settanta (quali i cambiamenti nelle politiche macroeconomiche, l’affievolimento del controllo dei mercati finanziari e la deregolamentazione del mercato del lavoro) non hanno prodotto ciò che era nelle attese, e cioè, pur in presenza di maggiori disuguaglianze distributive, una maggiore crescita, una più alta efficienza nella conduzione delle attività produttive e il pieno impiego della forza lavoro. Nel caso dei Paesi europei, infatti, si è verificato che “la diminuzione dei redditi da lavoro in rapporto alla produttività e l’aumento del saggio di rendimento del capitale sono andati di pari passo con l’aumento persistente dei tassi medi di disoccupazione”, mentre l’aumentata flessibilità del mercato del lavoro non ha avuto “alcun impatto sui tassi di disoccupazione e la crescita dell’occupazione”.

Le difficoltà che impediscono all’Italia di adottare politiche monetarie e fiscali realmente informate all’equità distributiva e a una condivisa giustizia sociale derivano, a parere della Stirati, da due limiti risultati sinora insuperabili: da un lato, dall’attuale assetto dell’Eurozona, che si oppone alla loro realizzazione; dall’altro lato, dalla mancanza di volontà politica, o meglio “dall’assenza di forze in grado di rappresentare e organizzare in modo credibile gli interessi dei lavoratori e dei disoccupati”. Questo non significa, conclude l’autrice, che non esistano nei Paesi europei, e soprattutto in Italia, movimenti portatori di una diffusa protesta popolare molto critica nei confronti delle politiche sinora attuate.

Certo si può essere ottimisti, come pare voglia esserlo la Stirati, per pensare che in Italia possa emergere dai movimenti di protesta un soggetto politico credibile, in grado “di organizzare lo scontento polare intorno a un programma egualitario realmente progressista”; ma questa possibilità è per ora solo “in grembo a Giove”, come stanno a dimostrare i continui cambiamenti di linea politica dei vari movimenti di protesta esistenti, l’incapacità di offrire un progetto credibile sul futuro del Paese agli scontenti, nonché il “bailamme” su alcune riforme, qual è stata l’introduzione recente del “reddito di inclusione” per combattere la povertà.

Tale forma di reddito, anziché essere “brandita” come strumento per combattere realmente le disuguaglianze, andando oltre il welfare State, è stata oggetto di riflessioni solo orientate alla cattura del consenso; con ciò dimostrando quanto sia ora fuori luogo anche il solo pensare che dai movimenti di protesta nostrani possa nascere un programma unitario “realmente progressista”.

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