Risposta ai giovani che non vogliono vedere bruciare la Sardegna

27 Settembre 2023

[Cristiano Sabino]

Pubblichiamo l’intervento di Cristiano Sabino dal titolo Contro la quarta colonizzazione della Sardegna senza se, ma e però Risposta ai giovani che “non vogliono vedere bruciare la Sardegna”.

Titolo fuorviante. Lo scorso 20 settembre sono stato chiamato in causa sui social in un dibattito lanciato da alcuni giovani attivisti e pubblicato su Il Manifesto sardo sulla questione “rinnovabili”, “transizione energetica” e “moratoria”. Gli autori hanno scritto un appello intitolato “Alla Sardegna. Da parte di giovani che non vogliono vederla bruciare” che merita una profonda riflessione.

Partiamo dal titolo. Non so se sia o meno il frutto degli autori, ma si tratta di una trovata tanto giornalisticamente furba quanto del tutto fuorviante. Infatti la Sardegna brucia da decenni e le cause accertate di questa situazione sono l’abbandono colpevole delle campagne, la scarsissima prevenzione e l’esiguità di mezzi antincendio a nostra disposizione (basta vedere il rapporto con la vicina Corsica). Non dico che il cambiamento climatico non contribuisca, ma le cause principali accertate dei roghi sono altre! Su questo è uscito un bell’articolo su S’Indipendente di Giuseppe mariano Delogu a cui rimando (Su fogu est unu perìculu? No, est a mudare sas sustàntzias chi costìtuint su “perìculu”).

Ora occupiamoci delle argomentazioni contenute nell’appello.

Appello rivolto a chi? Gli autori pongono cinque domande alle  “forze politiche della sinistra e dell’autodeterminazione” e sinceramente partirei proprio dai destinatari perché si tratta di categorie ricche di ambiguità. Cosa vuol dire “ forze di sinistra”? Cosa vuol dire “forze dell’autodeterminazione”. Intendiamoci, non voglio deviare il discorso, ma proprio non capisco il senso di queste parole se si prescinde da una precisazione di metodo, vale a dire chiarire il rapporto che intercorre tra le soggettività politiche e il sistema coloniale o – se si preferisce – il rapporto ineguale e combinato che esiste tra Stato italiano, potere economico e nazione (o popolo, come preferite), sardo. Fuori da questa precisazione, a mio parere, non ha alcun senso parlare di “sinistra” e di “autodeterminazione”.

Lo dico perché ci sono tante forze sedicenti di “sinistra” e perfino “indipendentiste” che non mettono in discussione il rapporto di subalternità tra Sardegna e Stato italiano. Banalmente c’è il Psd’Az che all’articolo 1 del suo statuto pone la questione dell’indipendenza della Sardegna e poi mette in campo tutt’altre dinamiche. Poi ci sono le forze che vanno alla corte del PD. Vi rivolgete anche al cosiddetto “campo largo”? Perché in questo caso vorrei segnalarvi che storicamente proprio questi soggetti hanno sempre osteggiato i movimenti ambientalisti, il referendum contro le scorie (fumi di acciaieria e quant’altro), la lotta per le bonifiche, la denuncia dei crimini ambientali condotta spesso in solitaria da indipendentisti anticoloniali e ambientalisti non organici al sistema. È tutto documentatabile ed esiste ampia letteratura in materia. Sui destinatari del vostro appello è necessario fare chiarezza perché le responsabilità delle forze legate alla “sinistra” non sono meno gravi di quelle della “destra”.

La questione assente: Sardegna «zona di sacrificio» A me sembra che nel vostro documento ci sia un convitato di pietra che è il processo coloniale che oggi, con la scusa e il marketing della “riconversione energetica” passa ad una nuova fase, la quarta, se vogliamo conteggiare i processi di sfruttamento economico e non anche la deculturazione e in particolare lo sradicamento della lingua sarda dalla società sarda. Non ne parlate mai e invece credo che si dovrebbe partire da lì.

La Sardegna, storicamente, è una “zona di sacrificio” che lo Stato centrale utilizza, senza trovare particolari resistenze nella classe politica (e purtroppo anche in quella colta) servile e compiacente, a suo vantaggio. Abbiamo subito nel corso di 160 di dominazione coloniale (prima monarchico-liberale, poi fascista e oggi repubblicana) diversi processi di sfruttamento intensivo, cioè di utilizzo delle nostre risorse attraverso uno scambio del tutto ineguale e basato sull’oppressione che, in diverse fasi, ha assunto i tratti della repressione poliziesca e militare (complotto separatista degli anni Ottanta e operazione Arcadia del 2006) quando non del vero e proprio  «stato d’assedio» (Gramsci definisce così le varie operazioni militari contro il “banditismo”).

Chiedete giustamente un punto di chiarezza sul fatto che coi «negazionisti non si fanno alleanze, nemmeno nei territori, nemmeno su battaglie specifiche». Va bene, certo, i movimenti radicali non li hanno mai fatti. Ma esiste un’altra forma di «negazionismo» (se vogliamo usare questa categoria che per molti versi trovo impropria) ed è quella del negazionismo coloniale, cioè forze sociali e politiche che negano la condizione della Sardegna ridotta a “zona di sacrificio”. Di che si tratta?

In un recente articolo, comparso lo scorso 15 dicembre su Il Fatto quotidiano [Nuova economia ok, ma l’inquinamento?,  Il Fatto quotidiano del 15 dicembre 2022; per approfondire, Cristiano Sabino, Decolonizzare l’ambientalismo, Filosofia de Logu], Linnea Nelli, Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito mettono in luce il fatto che «l’Europa è popolata da “zone di sacrificio”», cioè da aree geografiche destinate a sopportare tutti i costi delle produzioni inquinanti e della transizione energetica: «le asimmetrie non sono solo produttive e tra Paesi, ma anche territoriali all’interno dei Paesi» e ciò avviene anche a causa del fatto che «le comunità locali sono soggette al ricatto occupazione-salute». Precisano gli autori:

«Attuare politiche per la transizione ecologica è una necessità per tutti i Paesi. Ma se il processo avvenisse unicamente sotto il profilo produttivo, senza essere accompagnato da una transizione sociale che richiede interventi di politica economica, potrebbe esacerbare vulnerabilità e disuguaglianze esistenti. Perché la transizione ecologica sia giusta, occorre che un processo verso la neutralità climatica garantisca stabilità occupazionale, sostenibilità ambientale ed eguaglianza economica. (…)»

Segue un elenco di realtà geografiche tristemente note per essere in vetta alle statistiche epidemiologiche per quanto concerne patologie tipiche da inquinamento ambientale. Questi territori – glossano gli autori – «sono aree di deprivazione socio-materiale, che rischiano di restare indietro in assenza di riconversione produttiva, caratterizzati da spopolamento, disoccupazione e disparità di reddito che coesistono con irreparabili danni all’ambiente e alla salute».

La Sardegna rientra ampiamente nella descrizione di queste «aree di deprivazione», non solo per la sua storia di predazione, land grabbing, sfruttamento intensivo e inquinamento, ma anche per il suo presente di vastissime porzioni di territorio destinate, per decreto governativo e compiacenza degli ambientalisti da cortile, alla produzione energetica su vasta scala, a tutto beneficio di terzi.

I dati attuali forniti da Terna ci raccontano una realtà allarmante: circa 700 progetti, con un trend di 30/40 nuovi progetti alla settimana. Se si realizzassero tutti gli impianti da FER attualmente richiesti la Sardegna produrrebbero circa 56mila GWh (cifra ancora lontana da quella che sarà al termine della corsa all’oro “rinnovabili”), a cui bisogna aggiungere ciò che produciamo già (circa 3mila GWh). Ricordando che ne consumiamo circa 9mila la sperequazione appare nella sua più stringente evidenza.

Con l’approvazione del Tyrrenian link la Sardegna, insieme alla Puglia e alla Sicilia, diventerà la batteria energetica dello Stato che garantirà il 90% di produzione elettrica da eolico e oltre il 50% di solare. Energia – si badi bene – totalmente in mani private e senza alcun beneficio per i sardi, come accade nei regimi coloniali classici, dove si utilizzano le risorse locali (in questo caso terre, mare, sole e vento) utilizzandole ad esclusivo beneficio dei colonizzatori. Non piace chiamarla colonizzazione perché pare brutto? Allora chiamiamola scambio ineguale, subalternità, zona di sacrifico, il concetto è lo stesso!

Buoni e cattivi. Tutto così semplice? Nel vostro testo parlare dei comitati, di alcuni sindaci «in cerca di consenso», delle forze della destra pronte a cavalcare la battaglia antieolico, di associazioni «pseudo-ambientaliste» retrograde dedite alla «retorica paesaggistica». Non so bene a chi vi riferiate, ma anche su questo, magari prima di esprimere determinati giudizi, mi fermerei un attimo a valutare il lavoro di associazioni come il GRIG e Italia Nostra (lontanissime da me su tante questioni) che però si battono sul campo, e soprattutto giuridicamente, contro speculazioni ambientali, saccheggi, cementificatori, criminali delle discariche di stato ecc.. Per non parlare di alcuni sindaci come Maurizio Onnis di Biddanoa ‘e Forru (Villanovaforru in lingua di imposizione statale) che ha realizzato una delle due CER in Sardegna e che, contemporaneamente è in prima linea contro l’attuale colonizzazione “green”. Anche lui un sindaco con «pulsioni» narcisiste? Già questo dato dovrebbe mandare in crisi l’impianto sostanzialmente manicheo del vostro appello che vede da una parte le forze del bene (pro rinnovabili) e dall’altra l’impero del male dedito al lato oscuro della forza (nel senso letterale, petrolio + carbone).

Mi spiace dirvelo ma le cose non stanno così e la vostra mi sembra una narrazione capziosa. Faccio solo un altro esempio. Prima della nascita dei comitati e dell’attenzione mediatica sul tema “rinnovabili” è nata ADES, la piattaforma per la democrazia energetica, precisamente il 12 febbraio 2022, con un sit in e una conferenza stampa davanti al Palazzo della Regione.

ADES nasce da una serie di incontri promossi da diverse associazioni, tra cui in prima linea No Metano Sardegna, con l’obiettivo di creare un unico soggetto che ha come obiettivo una Sardegna sostenibile. Gli obiettivi di ADES erano e sono quelli di « promuovere l’uso delle fonti rinnovabili spingendo verso le comunità energetiche e l’autoconsumo,  ponendo molta attenzione all’evoluzione e gestione del processo affinché rimanga nelle mani delle comunità locali.  Obiettivi che tendono in qualche modo a sottrarre la Sardegna a uno sfruttamento incontrollato da parte di multinazionali dell’energia o comunque di grandi società che invece puntano al profitto e non certo alla tutela dell’ambiente e dell’interesse anche economico dei sardi» (https://www.sindipendente.com/blog/la-piattaforma-per-la-democrazia-energetica-in-sardegna-ades-presenta-il-suo-manifesto/ )

Non mi sembrano posizioni di retroguardia, ammiccanti ai poteri forti, negazionisti del cambiamento climatico o subalterni all’egemonia della destra. Voi invece come la collocate? ADES è stata all’avanguardia nel denunciare la complementarietà di due forme di colonialismo energetico. Cito dal manifesto reperibile al link:

«Da una parte, il blocco dei fautori della metanizzazione, che spingono per l’adozione di una tecnologia obsoleta e completamente contraria agli obiettivi di contrasto al riscaldamento climatico. Dall’altra i fautori di una “transizione energetica” verso le fonti rinnovabili completamente gestita dall’alto, delegata a pochi gruppi multinazionali, in un contesto di deregolamentazione che consenta il massimo della speculazione e il minimo del rispetto del territorio».

Si tratta di contrapposizioni apparenti e la cronaca degli ultimi due anni lo ha ampiamente dimostrato! Prosegue ADES:

«Questi due presunti blocchi contrapposti sono in realtà profondamente solidali, nello stabilire il principio che il futuro energetico debba essere deciso da pochi, per l’interesse economico di pochi, nella totale indifferenza verso i bisogni delle comunità e verso l’imprescindibile rispetto del territorio».

Scrivo il 24 settembre 2023, quando da poco Stato e Regione si sono dati la mano e hanno approvato il Tyrrhenian link, nel silenzio generale di molte – se non di tutte – quelle realtà che voi definite “di sinistra” e “per l’autodeterminazione”. In che modo questo fatto, di cui non trovo traccia nella vostra narrazione, rientra nell’immaginario di una «politica di palazzo» arroccata sulle posizioni dei petrolieri e dei fautori della carbonizzazione e del tutto ostile alle rinnovabili? Il cavo sottomarino servirà infatti a pompare dalla Sardegna un enorme surplus energetico, frutto di centinaia di impianti rinnovabili, imposti grazie al decreto Draghi (con l’attuale complicità del governo Meloni) alle comunità sarde, molti dei quali sono già in costruzione.

Metano contro rinnovabile? A smascherare la favoletta green sulla Sardegna isola all’avanguardia nella lotta al climate change propugnata da Legambiente WWF e FAI (su questo punto rimando alla lettura del mio articolo scritto per Filosofia de Logu “Decolonizzare l’ambientalismo. Come la ragion coloniale si tinge di verde”) sta la più cruda realtà di una schiera di progetti (tra approvati, presentati e in funzione) di depositi / rigassificatori di gnl assolutamente complementari e sinergici all’invasione di rinnovabili.

Del legame tra il metano da una parte e il far west delle rinnovabili dall’altra, vale a dire delle sempre più numerose richieste di autorizzazione per impianti eolici e fotovoltaici, si è occupato (con maggiori competenze rispetto alle mie) Piero Loi sul periodico di approfondimento e inchiesta Indip nell’articolo “Sardegna, la giungla dell’energia, e l’oligarca russo va a tutto gas”, a cui rimando per approfondimenti specifici. Il punto politico, in ogni caso, è chiaro: più la Sardegna verrà dotata di infrastrutture per il trasporto di energia verso il Continente, più aumenterà la produzione da fonti rinnovabili e più si avrà bisogno di metano per stabilizzare le rinnovabili, la cui produzione è intermittente. Di questo nel vostro appello non si parla!

Si tratta di un processo già in atto, che è possibile mappare. Nel Porto industriale di Oristano sono previsti almeno quattro depositi costieri (Higas, in funzione), Edison (approvato – si pensa ad un ampliamento – ma non ancora realizzato), Ivi petrolifera (due autorizzati). Poi ci sono le famose FSRU della Snam, vale a dire le navi gasiere dotate di rigassificatori: oltre a Porto Torres, una seconda FSRU è prevista a Portovesme. Un secondo deposito costiero a Porto Torres è stato previsto dal Consorzio industriale, ma il progetto appare dormiente. Infine sono previsti un deposito costiero con rigassificatore e centrale a metano ad Olbia e un deposito/rigassificatore di Giorgino a Cagliari. Da nord a sud, da est ad ovest la Sardegna sta diventando un enorme ormeggio per navi gasiere. Tutti progetti ad altissimo impatto ambientale e a rischio incidente rilevante, che vanno a stratificarsi su territori già fortemente segnati da attività inquinanti pregresse (come per esempio Porto Torres che è un S.i.n in cui tutte le matrici ambientali risultano irrimediabilmente compromesse secondo la stessa ARPAS).

Dove li mettiamo questi impianti nella favoletta green che ci raccontano Governo e Legambiente?

Basterebbe chiedersi se tutta quest’infrastrutturazione serva al territorio e ai sardi per inquadrare il problema: basti pensare che la sola nave deposito-rigassificatore prevista a Portovesme è in grado di rigassificare 5 mld di mc di gas/anno, mentre il fabbisogno della Sardegna (sovrastimato dal Piano energetico ambientale della regione Sardegna, Pears) è pari a circa 900 milioni di mc/anno. Si capisce che il trend politico di Stato italiano (della sua alleanza atlantica) e multinazionali è quella di trasformare la Sardegna in un hub energetico, indipendentemente dal carattere pulito o meno che implica la produzione e questo dipende da tanti fattori, non ultimo il precipitare della nuova guerra fredda con Russia e Cina e il bisogno di mettere a regime zone considerate sacrificabili perché poco propense alla ribellione e alla resistenza, esattamente come è stato fatto in passato con la militarizzazione selvaggia dell’isola da parte di EI e NATO.

Questa programmazione energetica, volta a trasformare la Sardegna in un hub coloniale del gas, è foriera di pesanti conseguenze. Ad esempio, un rischio concreto è lo sfruttamento futuro di giacimenti locali di idrocarburi (sul modello del famoso progetto Eleonora della Saras, a cui la Sardegna si era opposta con successo), on e off shore. Inoltre, uno degli effetti più che probabili di questo disegno è lo sviluppo di colture energetiche (land grabbing e conflitto con le colture alimentari) per la produzione di biometano (metano a tutti gli effetti).

Per ora lasciamo da parte la questione nucleare (deposito unico di scorie e possibilità di diventare una piattaforma per il nucleare civile). Su questo sono intervenuto recentemente su S’Indipendente (Al 20,9% la Sardegna diventerà una discarica nucleare, 26 luglio 2023), ma è necessario rimanere all’erta!

Passiamo ora a quei punti del vostro appello che mi sembrano davvero centrali.

  1. Siamo disposti a non fare alcun patto con i «negazionisti, nemmeno nei territori, nemmeno su battaglie specifiche»?

No, le lotte si fanno con chi c’è. Ho fatto tante lotte con chi non riconosceva nemmeno l’esistenza del popolo sardo (anche con alcuni firmatari del vostro manifesto) su specifici punti, se li si ritiene strategici, non si fanno le analisi del sangue, specialmente se stiamo parlando di comitati che per loro natura sono assolutamente trasversali. Solo un esempio: sapete nelle lotte dei pastori per un giusto prezzo del latte quante volte mi è toccato discutere con gente che iniziava il discorso con “quando c’era lui!”?. Nelle lotte bisogna sporcarsi le mani e – come ricordava Lenin – non si può fare una frittata senza rompere le uova. Da una parte bisogna avere un atteggiamento pragmatico, dall’altra svolgere un lento lavoro egemonico, perché le idee non cascano dal cielo, ma sono il frutto di una prassi lenta e costante. Questo lavoro non lo si fa dando patenti, soprattutto se stiamo parlando di comitati popolari che difendono il proprio territorio da una vera e propria aggressione barbarica e non di personaggi prezzolati ed etero diretti come lo sono gli agenti che cercano di adescare coltivatori e pastori per comprargli le terre a basso costo, approfittandosi della crisi agricola e seminarla di gigantesche torri eoliche. Allora il discorso è diverso e non si fanno prigionieri!

  • Chiedere una transizione che non impatti sul paesaggio significa, di fatto, non chiedere la transizione

A mio avviso impostate il discorso in maniera fuorviante. Magari ci sono anche gli ambientalisti da cartolina, anche se io non ne ho visti nelle lotte contro le speculazioni energetiche. La vera questione è una transizione non coloniale e autodeterminata e questa si può fare solo se si blocca quella che il sistema Stato-multinazionali chiamano “transizione” ma che in realtà è a tutti gli effetti una nuova fase della colonizzazione della Sardegna, precisamente la quarta, dopo estrazione taglio selvaggio dei boschi, estrazione mineraria, industria pesante – occupazione militare (che vanno insieme perché sono coeve).

  • «Siete disposti a formulare una proposta di transizione energetica basata su dati, evidenze e scelte praticabili nell’immediato, che sia, in una parola, una proposta di governo»

La prima transizione che deve essere perseguita in Sardegna è quella dalla condizione coloniale a quella autodeterminata, ovviamente meglio se fondata su un modello a zero emissioni. Ciò che non siamo disposti a fare è fiancheggiare la “transizione” (che come abbiamo visto transizione non è visto che implica metano e rigassificatori) a qualunque costo, perché ad oggi la fantomatica “transizione energetica” (a parte i pochi esempi virtuosi di CER) in Sardegna implica l’aggravarsi della dipendenza coloniale dell’isola e l’utilizzo delle nostre risorse per arricchire regioni e circuiti economici esogeni. Non esistono progetti di governo alternativi se prima non si ferma la colonizzazione in atto per volontà di Stato, multinazionali dell’energia e Regione Autonoma.

  • Moratoria. Voi siete contro «questo strumento» perché lo ritenete «inefficace agli scopi di un progetto ecologista e democratico, ma addirittura dannoso».

Questo di fatto è il filo scoperto di tutto il vostro ragionamento e la cartina di tornasole dell’approccio (credo inconsapevolmente) coloniale del vostro manifesto. Quando parlate di «agenzia sarda dell’energia» per un sistema energetico «pulito, pubblico, sardo» dobbiamo per forza di cose premettere una moratoria energetica su tutti i progetti in corso di realizzazione che non sono «pubblici» (né tanto meno democratici), non sono «sardi» e sono coloniali perché servono a realizzare un rapporto subalterno tra la Sardegna e il sistema Repubblica italiana-UE-multinazionali.

Di grazia, come volete raggiungere il meraviglioso “regno dei fini” (per citare Kant) rappresentato da un sistema energetico siffatto, senza bloccare lo stupro in atto verso le nostre terre, le nostre comunità e i nostri diritti di popolo? Davanti ad una lotta oggettivamente anticoloniale come quella condotta dalle comunità che stanno difendendo con i denti e con le unghie la propria terra, non si può vestire i panni dell’imparzialità o rimandare ad una palingenesi futura dove verranno piantate solo pale belle, pulite e sarde. Questa è pura retorica! La colonizzazione in atto adesso è una pura macchina di violenza e va fermata ad ogni costo e subito, esattamente come un saccheggio o uno stupro in corso. Assumere una posizione neutrale di fronte a questo significa solo schierarsi dalla parte del più forte e cioè in questo caso dello Stato e delle multinazionali. Spero ve ne rendiate conto..

  • Non utilizzare il lessico “sventramento e stupro di fronte a delle pale sulla collina”

Si, ho scritto “stupro”, perché di questo si tratta, anche se non vi piace. E parliamo di «stupro» non perché – come voi scrivete – ci si indigna «di fronte a delle pale sulla collina», ma perché la pantagruelica quantità di campi eolici e fotovoltaici che sta invadendo le nostre terre, i nostri monti, le nostre valli, perfino le aree archeologiche rappresenta un preciso disegno di dominio brutale e non consensuale tra alto e basso, tra dominatori e subalterni, esattamente come lo è lo stupro. Quando uso questa categoria, oltre che ai classici riferimenti a Fanon, Sankara e Aime Césaire sulla brutalità e i dispositivi dei processi coloniali, mi riferisco alle più recenti ricerche della studiosa femminista e antimilitarista Cynthia Cockburn. La ricercatrice e attivista britannica ha studiato i movimenti femministi e antimilitaristi individuando un nesso tra «violenza di genere» e «violenza sistemica» e questo si realizza nella normalizzazione e nella banalizzazione delle pratiche violente da parte del sistema politico, economico dominante. Nella prospettiva femminista antimilitarista si stabilisce una connessione inestricabile tra neoliberismo, militarismo, patriarcato e depredazione delle risorse naturali che vanno intese come facce di un unico modello dominante.

Cito da un testo facilmente reperibile on line che mette in relazione gli studi femministi intersezionali con le lotte femministe antimilitariste in Sardegna:

«La lettura femminista di tale processo di organizzazione socio-spaziale ha privilegiato nel tempo l’uso esemplificativo dell’immagine dello stupro. Si è analizzato l’utilizzo della violenza sessuale come effettiva arma bellica, comune a conflitti in ogni angolo del pianeta, ma, già negli anni novanta con Cyntia Enloe (1993), evidenziando come la peculiare risonanza tra razionalità e discorsi nazionalisti e militaristi, in un ambiente sociale patriarcale, crei le condizioni per l’uso “scientifico” della violenza come atto di guerra sui corpi delle donne, territorio nemico materiale e simbolico sul quale si articolano peculiari geografie transcalari dell’aggressione (Mayer, 2004). È un punto essenziale, dunque, della critica operata dagli studi di genere verso il modello sociale egemone, nel quale la violenza sessuale è effetto di relazioni autoritarie, gerarchiche, di possesso e controllo in funzione dell’ordinamento dominante» (Carlo Perelli, Fuori posto, fuori norma. pratiche femministe antimilitariste in Sardegna).

Di fatto, quella che stiamo vivendo, è una colonizzazione in processo, assolutamente complementare con quelle in atto (occupazione militare, modelli industriali esogeni, sradicamento culturale) e il discorso di Cynthia Cockburn sui modelli militaristi e bellici è applicabile ai più recenti processi di accumulazione capitalistica e sfruttamento coloniale rappresentanti dalla cosiddetta “transizione energetica”, così come la stiamo imparando a conoscere in Sardegna, basata su «relazioni autoritarie, gerarchiche, di possesso e controllo in funzione dell’ordinamento dominante» (cit.).

L’aut aut da porre con forza e urgenza non è dunque “rinnovabili” o “fossili” ma “colonialismo” o “decolonizzazione”?

Conclusioni. Gli ultimi due quesiti che ponete sul piatto sono fondamentali per comprendere la scelta di campo che ogni sarda e sardo deve fare:

  • Essere «pronti a dichiarare con nettezza la contrarietà ad ogni infrastruttura climalterante, in primis quelle relative al gas metano, e a creare mobilitazione su questo tema»
  • La questione relativa all’egemonia e cioè il pericolo da voi segnalato che le forze alternative subiscano l’egemonia altrui, invece di creare la propria.

Anche a questo proposito la prospettiva va a mio parere ribaltata. È condivisibile porre la questione dell’egemonia, ma l’egemonia – che è un concetto che per sua natura richiama le analisi gramsciane fra potere e consenso – non riguarda la scelta tra uno strumento di produzione e un altro, ma il rapporto tra dominatori e dominanti, cioè tra chi detiene il potere (in questo caso Stato e multinazionali) e chi lo subisce (gruppi subalterni, comunità, popolo sardo). In questo senso, visto che tirate in ballo una categorie non neutra come “egemonia”, più che essere «pronti a dichiarare con nettezza la contrarietà ad ogni infrastruttura climalterante, in primis quelle relative al gas metano, e a creare mobilitazione su questo tema», bisognerebbe allargare di parecchio il discorso che fate e dichiararsi pronti a contrastare ogni infrastruttura energetica, militare, economica che rafforzi il dominio coloniale e che riduca gli spazi di autodeterminazione, autogoverno, autodecisione delle comunità e delle persone sarde, contrastando il saccheggio, lo stupro, il prelievo energetico forzoso, lo sfruttamento becero della Sardegna e dei sardi, da parte di un potere sempre più convinto di avere carta bianca in questa terra.

La cosa più grave è che proprio la vostra proposta di “agenzia sarda dell’energia” risulta uno spettro senza alcuna possibilità di determinazione, proprio grazie al processo di “transizione energetica” in corso. Mi spiego meglio. La destinazione dell’isola ad hub energetico sta portando i sardi a non sviluppare un sistema energetico sotto il nostro controllo e basato sulle necessità della nostra isola, realmente rispettoso dell’ambiente e della salute, e capace di far risparmiare gli utenti o addirittura di far guadagnare loro qualcosa. Vale a dire un modello essenzialmente basato sull’elettrificazione dei consumi, l’autoproduzione-autoconsumo di energia (generazione distribuita e smart grid), utilizzo dell’idroelettrico per stabilizzazione le rete elettrica, comunità energetiche e – in generale – un ripensamento generale dei modelli di produzione e consumo. Inoltre, come ho accennato sopra, il gas non è alternativo alle rinnovabili, ma risulta funzionale al più ampio disegno della trasformazione della Sardegna in un gigantesco hub coloniale nella piena disponibilità delle regioni ricche, dei privati, dello Stato italiano e – in buona sostanza – della parte europea del blocco NATO in funzione anti Russa e anti Cinese. Fondamentalmente si vuole sacrificare il nostro territorio destinandolo a corridoio di transizione di enormi flussi di energia, variamente assortita. Se questo progetto va in porto e non trova una forte opposizione popolare, diventeremo una monocultura energetica intensiva diffusa in tutti i territori e a beneficio di aree della Repubblica ed europee industrializzate e ricche, senza alcuno scambio paritario. Tutto questo si tradurrà in ancora più significativi impatti sulla salute, sugli ecosistemi, sulle matrici ambientali e sul paesaggio e, soprattutto, si  arriverà ad una profonda trasformazione della proprietà fondiaria che avrà impatti devastanti su tanti versanti. La presenza di grossi impianti, infatti, attiverà operazioni di vendita o di cessione trentennale dei diritti di superficie. Il rischio, dunque, è che il già incrinato rapporto tra i sardi e la terra s’indebolisca ulteriormente. In altre parole, le campagne – sempre più abbandonate – potrebbero non essere più concepite come un’opportunità di reddito (per quanto riguarda le colture alimentari o la pastorizia) e, in definitiva, di radicamento sociale. E allora sì che la Sardegna brucerà come non ha mai bruciato finora e la vostra profezia rischierà di avverarsi, nonostante la presenza di enormi porzioni di territorio sacrificate alla produzione energetica per conto terzi e anzi proprio in virtù di quella presenza.

Dopo aver risposto a tante vostre domande ve ne faccio una io. Davanti a questo destino di schiavi della colonizzazione in tanti abbiamo già scelto da che parte stare. E voi?

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