Si uscirà dalla crisi?

1 Luglio 2009

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Redazionale

Riuscirà la sinistra, quella che potrebbe essere rappresentata da almeno il 10% degli elettori, a rinsavire e a lavorare per la realizzazione di alcuni obiettivi importanti (la pace, la democrazia, il lavoro, i diritti, la laicità) che sembrano sempre più irraggiungibili? L’ultima insensata dispersione di voti, causata dallo scontro irragionevole degli attuali gruppi dirigenti, non offre prospettive ottimistiche. Eppure non ci sono, fra questi gruppi, differenze ideologiche così rilevanti da giustificare le separazioni.  Forse, come sostiene Luigi Ferraioli, bisogna superare un vizio antico e autodistruttivo: ‘la diffidenza e il sospetto settario che porta sempre a vedere un nemico nel compagno più vicino e a svalutarne le differenti opinioni come segni di deviazioni o di interessi inconfessati’. Sicuramente c’è anche l’aspetto che riguarda la rappresentanza politica, la delega sia nei rapporti con le istituzioni sia con gli organismi di partito, il rinnovamento dei gruppi dirigenti. Su questi problemi o riusciremo a realizzare cambiamenti radicali o la crisi che attraversiamo diventerà irreversibile.
Proponiamo ai lettori del manifestosardo due interventi (Alberto Asor Rosa e Rossana Rossanda) apparsi recentemente sul manifesto quotidiano. Sono un tentativo (l’ennesimo) per riprendere a dialogare e, soprattutto, individuare percorsi unitari.

L’unità della sinistra dal 2005 a oggi
Alberto Asor Rosa

Il 15 gennaio 2005, preceduta da una campagna di stampa sul manifesto durata sei mesi, alla quale parteciparono le personalità più rilevanti della sinistra italiana, politici e intellettuali, si riunisce alla Fiera di Roma una grande Assemblea nazionale, affollatissima ed entusiastica, che darà vita a quella che qualche giorno più tardi si definirà – modestamente e ambiziosamente insieme – «Camera di consultazione della sinistra». Compiti espliciti e teorizzati del neonato organismo sono: a) la riformulazione di un organico programma della sinistra radicale italiana, quale non era ancora uscito dalla fase convulsa post-1989; b) l’intenzione di mettere a confronto continuo ed organico società politica e società civile, politici e intellettuali, partiti e associazionismo, secondo una modalità, da tutti a parole auspicata, di «democrazia partecipativa»; c) l’avvio di un processo di fusione delle forze organizzate della sinistra radicale, allora molto più consistenti di oggi (nel titolo redazionale del mio articolo del 14 luglio 2004, con cui il manifesto dette inizio alla campagna suddetta, vi si accennava in forma interrogativa ma chiara: «Che fare di quel 15%?»). Aderirono in maniera attiva, oltre a molte associazioni politiche e culturali di base (mi piace ricordare con particolare rilievo il fiorentino «Laboratorio per la democrazia»), Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, una componente significativa dei Verdi (Paolo Cento e altri). Vi svolsero un ruolo non irrilevante la Fiom e l’Arci. Vi partecipa attivamente Occhetto. Dà un contributo insostituibile Rossanda. Alle riunioni tematiche intervengono o collaborano Rodotà, Tronti, Ferrajoli, Dogliani, Magnaghi, Ginsborg, Serafini, Bolini, Lunghini, Gallino e altri. Quando nell’aprile 2005 si tratta di fare un passaggio decisivo – quello che consiste nel «mettere in comune» un certo numero di temi da discutere e di decisioni da prendere («dichiarazione d’intenti») – nel corso di un’animata riunione presso la Casa delle Culture di Roma Fausto Bertinotti, improvvisamente e calorosamente, se ne chiama fuori. Una gentile signora, sua fedelissima, abbandonando la sala, mi passa accanto e affettuosamente mi sibila: «Bella come esperienza intellettuale ma la politica è un’altra cosa».
Mi rendo conto, naturalmente, che ognuno che abbia preso parte, attivamente e convintamente, ad una qualche esperienza, sia spinto ad attribuirle un’importanza eccessiva. Mi pare però che, obiettivamente, sia legittimo, a partire da questa, anche personale, disfatta, porre almeno due domande: 1) Quale altro serio tentativo di perseguire l’«unità della sinistra» è stato fatto successivamente? (spero che a nessuno venga in mente di tirar fuori l’aborto elettoralistico dell’Arcobaleno, che è esattamente il contrario di quel che io pensavo si dovesse fare); 2) è mai possibile che ci si ripropongano di volta in volta gli stessi problemi e non ci si chieda mai quale esperienza ne abbiamo già fatto, positivamente o negativamente, nel (talvolta immediato) passato? (sicché non si sa mai bene di chi e di cosa si parla). La scelta bertinottiana, giusta o sbagliata che fosse (a me pare, naturalmente, che fosse drammaticamente sbagliata), consisteva nello scegliere senza esitazioni le «ragioni del Partito», del «suo» Partito, ovviamente, che in base al sacro principio dell’autoreferenzialità del ceto politico italiano (di qualsiasi colore esso sia), coincidevano con quelle sue personali. I risultati delle elezioni del 2006, cui egli guardava, sembrarono perfino dargli ragione. Ma su di un periodo appena un po’ più lungo, sono risultate catastrofiche.
Cercherò di dire ora, a scanso di equivoci, perché lo schema logico-politico della «Camera di consultazione», così nostalgicamente richiamato nelle righe precedenti, non sia più oggi riproponibile. Quello, in realtà, era un semplicissimo schema binario: bisognava costruire una sinistra radicale unitaria da affiancare in maniera tutt’altro che subalterna ad una sinistra moderata altrettanto unitaria, allo scopo di governare decentemente il paese, arginando la possente ondata berlusconiana. Oggi le cose rispetto ad allora si sono estremamente complicate, da una parte come dall’altra (ha ragione Parlato a farlo rilevare). Lo schema binario non regge più, se non nei termini assolutamente generali della coppia «progresso-reazione» (sulla quale tuttavia tornerò più tardi). Le ragioni mi sembran queste: 1) fra le due componenti più consistenti (si fa per dire) della sinistra radicale le divergenze sono strategiche, e dunque incomponibili; 2) le forze che hanno dato vita alla lista «Sinistra e libertà» promettevano all’origine di rappresentare una seria alternativa riformista al, presunto, riformismo della cosiddetta sinistra moderata; da come stanno andando le cose, rischiano di fungere solo, al centro come, soprattutto, in periferia, da gambetta di sinistra del Pd; 3) il Pd non è, come dichiarava di voler essere, il partito della sinistra moderata, o di un centro-sinistra moderato o di un moderato riformismo: è invece un qualcosa che rischia sempre più di sparire come tale per la sua organica incapacità di darsi una fisionomia e un’identità, quali che siano; contemporaneamente, non è più neanche in grado di egemonizzare la sinistra (?) moderata (crescita del dipietrismo); 4) l’autoreferenzialità del ceto politico della sinistra – tutto – è cresciuto in misura feroce in ragione diretta della lotta che esso conduce per la propria sopravvivenza. Contestualmente, il caso italiano, da «anomalo» qual era, rischia di diventare, come è accaduto altre volte nella storia, «esemplare» a livello europeo. La deriva di destra del Vecchio Continente, che rappresenta la sua patetica ma dura e inquietante risposta ai rischi e alle incertezze, contemporaneamente, della globalizzazione e della crisi (in controtendenza, e questo ne costituisce un ulteriore motivo di debolezza, con le scelte americane), dovrebbe costituire attualmente il vero tema di riflessione per la costruzione di una «nuova sinistra» in Italia e in Europa. Anzi, più esattamente: cosa s’intende per «programma di sinistra» oggi in Italia e in Europa? Come si organizza e «si rappresenta», al di là di ogni ulteriore qualificazione, una «forza di sinistra» oggi in Italia e in Europa? La domanda è così radicale (e io desidero consapevolmente che lo sia) da riguardare nella stessa misura, anche se con modalità diverse, forze di sinistra moderate e forze di sinistra radicali: i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi e spagnoli, i laburisti inglesi, i democratici (?) italiani; e la Linke in Germania, i verdi in Francia, i «comunisti» e tutti gli altri in Italia. Insomma, nel suo insieme, il «blocco» politico e sociale di forze cui è affidata in Europa la possibile alternativa (qui torna alla fine, naturalmente molto semplificato per ovvii motivi, lo schema binario, che però, lo ribadisco, in questa parte del mondo è ineludibile).
È chiaro che s’apre in questo modo un orizzonte sconfinato di problematiche e di riflessioni, frutto, oltre che della complessità dei problemi, anche dell’immenso e disastroso ritardo con cui vengono affrontati (ammesso che ora lo siano). Io penso seriamente che i milioni di astenuti a sinistra si astengano esattamente perché non hanno una risposta a queste domande. C’è un’alternativa già oggi operante, che sostituisca alla lenta e seria fusione una qualche miracolosa formula alchemica? Fatemela vedere, e cambierò opinione.

Sinistra, alle origini del disastro
Rossana Rossanda

La diagnosi dello stato della politica in Italia è semplice: metà dei cittadini si è astenuta alle elezioni, e al ballottaggio e al referendum molto di più. Il quadro è simile in tutta Europa. I socialisti hanno perduto ovunque, il parlamento europeo è largamente di centro destra. Le sinistre radicali sono più deboli del previsto, quelle italiane sono scomparse di scena. In Italia è assente una socialdemocrazia, indebolita altrove. Dovunque spunta o si rafforza una destra estrema. Il segnale è opposto a quello venuto dagli Stati uniti, infatti in Europa per nulla raccolto. In Italia Berlusconi non supera, come sperava, il 35% ed è meno forte di un anno fa. La Lega va al 10, sono inseparabili. Fini gioca un gioco suo. Se questo porterà a una crisi di governo, sarà prodotta e gestita dalla maggioranza (e apppoggiata dal Vaticano, via Casini). La minoranza è divisa fra un Pd in calo, diviso e confuso e una sinistra radicale in briciole. Neanche i Verdi sembrano fuori dalla crisi, malgrado che Obama negli Usa e molti in Europa vedano nell’ecologia un investimento necessario e un valore-rifugio. L’opzione bipartitica che era stata comune a Berlusconi e Veltroni è caduta. Se su questo quadro sintetico siamo d’accordo, resta da vedere se si condivide il perché di questo esito.
1. A mio avviso per l’Italia esso va cercato lontano, nell’arco della mia gneerazione, che d’altronde non è più di un momento storico. Infatti il disastro di oggi appare tanto più grande in quanto la sinistra del dopoguerra è stata più forte che altrove. Essa non è mai stata maggioranza, come ha osservato Norberto Bobbio, ma anche perché era rappresentata, in un paese tenuto fuori dal crogiuolo degli anni venti e trenta in Europa, da comunisti e socialisti e da un forte sindacato, che hanno schiacciato, fra se stessi e la Dc, una interessante terza forza (Giustizia e Libertà). Questa forma presa dalla sinistra dalla resistenza al 1956 è alquanto diversa dalle altre in occidente. I socialisti e i comunisti, liberi dalle contese degli anni trenta coperte dal fascismo, sono ancora uniti e i comunisti appaiono – salvo che alla dc e al ”partito americano” – abbastanza svincolati dall’Urss (percepita peraltro anch’essa non come un pericolo incombente). Così dopo il 1956 e la divisione con il Ps, il Pci supererà gradualmente  in quantità e qualità di ascolto il già più forte Pcf, facendo propria una larga frangia d’opinione. E’ difficile separare da esso la messa a fondamento del senso comune repubblicano, costituzionale, antifascista; e questo, perlopiù, colorato di un’ombra di concezione classista (vivissima nella resistenza anche in Giustizia e Libertà e poi nel cattolicesimo di Dossetti e della corrente di Base della Dc).
2. Il quadro muta negli anni sessanta-settanta, in corrispondenza con la grande modernizzazione del paese nella composizione sociale, produttiva e culturale. Il Psi ha mutato fronte, nel Pci si apre un dibattito, il sindacato cresce e muta la sua struttura di base, un’area di sinistra radicale comincia a apparire separata dai comunisti, che però crescono di peso.Il corto circuito è determinato dal movimento del 1968. Diversamente dal resto d’Europa, esso si verifica in presenza di un forte partito comunista che non lo attacca frontalmente, ma del quale esso chiude l’egemonia. Il 1968 ha in Italia una coda lunga un decennio, come in nessuna parte altrove ha modificato diversi parametri della cultura, ha prodotto la densa politicizzazione dei gruppi extraparlamentari – diversa da quella del movimento comunista – ha indotto un vasto associazionismo di base e professionale che si vive come controcultura e contropotere. E’ una seconda e tumultuosa modernizzazione del paese che si colloca a sinistra del Pci ma non riduce la sua forza nell’opinione di massa, anzi. I comunisti arriveranno a un terzo dei voti, il sindacato è forte, l’intellettualità è come non mai politicizzata e diffusa. Il “movimento” critica Pci e Cgil ma trascina l’appartenenza al sindacato (il più modificato) e il voto al Pci: le elezioni del 1975 danno alla sinistra tutte le grandi città.Questa tendenza non sembra intaccata dal compromesso storico (1973), poco percepito a livello di opinione . E’ come se soltanto l’astensione comunista del 1976 verso il governo Andreotti ne rivelasse il vero senso. E’ in quella estate che si spezza ogni speranza delle minoranze di movimento, il movimento stesso si divide e una piccola parte di esso (non occorrono molti per sparare) va davvero sulle armi (omicidio di Coco a Genova). Tuttavia l’elettorato sosterrà sempre maggiormente il Pci fino alla morte di Berlinguer: il quale peraltro compie, negli ultimi anni e isolato dal resto del gruppo dirigente, una virata a sinistra. Tardiva. Sul piano mondiale il 1968 non è sfuggito alle classi dominanti, che si riattrezzano. Il Pci non ha compreso il senso dell’abolizione del gold standard, né quello della crisi dell’energia del 1974 e tanto meno i mutamenti strutturali del capitale e delle tecnologie in atto e la ricomposizione delle strategie che ne conseguono (la Trilateral). Né ha capito realmente le soggettività che si dibattono contro di esso. Non intende neppure, se non in un breve sussulto concernente le donne, la rivoluzione passiva che si compie fin dall’inizio fra generazioni, nei rapporti familiari e d’autorità. Non capisce la portata ideale dell’anticonsumismo del movimento. Del tutto estraneo gli è il 1977 italiano, assai reattivo ai mutamenti del lavoro ma errato nella previsione, come non aveva capito prima il formarsi dell’estremismo, delle Brigate rosse e Prima Linea, di cui non vede che il pericolo che costituiscono per il suo accreditamento come forza di governo. Berlinguer pratica duramente l’emergenza inseguendo Moro, anch’egli incerto e isolato nella Dc. Negli anni ottanta il salto tecnologico è avvenuto, specie nell’informazione e quel che ne deriva per il movimento dei capitali e la finanziarizzazione, ma i comunisti leggono solo in termini di politica antisovietica la restaurazione di Thatcher e Reagan, sottovalutano la stagnazione dell’Urss di Breznev, non capiscono il tentativo di Andropov, esitano su Solidarnosc in Polonia come avevano esitato su Praga; la berlingueriana “fine della forza propulsiva” del 1917 arriva quando la decomposizione del Pcus è ormai avanzata e tutti i rapporti con il dissenso ancora di sinistra dell’est sono stati mancati. Così fino a Gorbaciov.
Con Craxi e poi con la morte di Berlinguer è gia andata molto avanti, anche se non in termini elettorali, la crisi del Pci; e comincia quella della Cgil. La fine della prima Repubblica è soprattutto la fine loro.
3. Negli anni ottanta il movimento del 68 si chiude del tutto, abbattuto assieme alle Brigate Rosse, con le quali pur non aveva avuto a che fare, il radicalismo e anche l’estremsimo essendo una cosa, passare alle armi un’altra. Si forma e struttura, di nuovo, soltanto il filone del secondo femminismo. Con il 1989 la crisi del Pci semplicemente si compie, la ”svolta” induce un altro partito, idealmente e organizzativamente, e si fa senza una rivolta di base. Rifondazione nasce come un ritorno a ieri e si dibatterà senza pace sul come diventare una chiave per il domani; né il Pds né Rc fanno un bilancio storico, né del comunismo né della loro stessa funzione in Italia. Quella che era stata l’intera area della sinistra resta fra disincanti e fibrillazione mentre precipitano socialisti e comunisti. Bruscamente va in pezzi quel che era parso per venti anni senso comune, il rifiuto del “sistema”. Le sinistre si restringono in piccoli gruppi, alcune si affinano, non riusciranno o forse non vorranno più unificarsi. Da allora una perpetua discontinuità produce spezzoni di movimento puntuali e perlopiù incomunicanti. Il sussulto di quello enorme per la pace e poi del sindacato al Circo Massimo non daranno luogo a una ripresa costante, anche per il senso di impotenza che deriva dalla nullità del loro risultato.
4. L’89 è tutto gestito dalla ripresa del capitale, nella sua forma prekeynesiana. L’ideologia dei Fukujama e degli Hutchinson – fallimento ab aeterno del socialismo e inevitabile scontro di civiltà – colpisce a fondo la sinistra storica, che patisce i fallimenti dei socialismi reali, non li affronta e si arrende; le socialdemocrazie altrove e gli ex comunisti in Italia praticano con zelo e pentimento le politiche liberiste. Ma anche le culture diffuse delle sinistre radicali galleggiano a fatica. Molte percezioni del 68 si rovesciano su se stesse nel risentimento verso quel che il movimento operaio, già venerato, non ha compreso: ha sacrificato la persona alla collettività, l’individuo al partito, il conflitto dei sessi all’ “economicismo”, la terra allo sviluppo devastatore. Ha sottovalutato la dimensione del sacro, dell’etnia, dei cicli. Ha glorificato la ragione contro l’emozione, l’occidente contro le diversità, l’avvenire rispetto al presente. Il postmoderno ha dato una mano. Questa è la tendenza maggioritaria. Restano, ma molto minoritari, alcuni movimenti. La trasmigrazione verso l’ecologia è il piu forte. La precipitazione della politica nella corruzione e nella bassezza, l’emersione di Berlusconi non trovano freno. L’area già comunista e socialista non tenta neppure un ripiegamento verso la solcialdemocrazia. La spoliticizzazione segue alla delusione; si vive nell’oggi perché è dannata la memoria del passato e non si sa che cosa volere per il futuro. Incertezza, risentimento, paura. Protezionismo degli ancora occupati davanti a una crisi che non intendono. Mai, per parafrasare Guicciardini, la gente italiana è stata così infelice e così cattiva.
5. Se “sinistra” ha avuto un senso nel XIX e XX secolo, era libertà, eguaglianza, fraternità, declinate nell’eredità della rivoluzione francese. La prima nell’idea di democrazia, la seconda da Marx, la terza (diversamente dal senso che aveva avuto nel 1789) come solidarietà fra gli umani. Esse percorreranno fra le tragedie tutto il XX secolo.
Il loro rifiuto non significa che sia avvenuta una rideclinazione; significa il ripiegamento dalla libertà all’individualismo e il volgere il bisogno di appartenenza verso categorie metastoriche (religioni, nazionalismi, etnie e altre presunte origini). Significa negare l’eguaglianza di diritti (e non solo né tanto nella interpretazione che ne dà parte del movimento delle donne) e fare dell’affermazione del più forte il principio e motore della società. Significa affogare la fraternità nell’odio e nella paura dell’altro e del diverso. Berlusconi e Bossi sono inimmaginabili negli anni ’60. Questa è oggi la metà dell’Italia che parla. L’egemonia è passata a destra. La sua affermazione segnala una rivoluzione antropologica prima che politica. La degenerazione della politica ne è concausa e conseguenza. Almeno se politica significa, non marxianamente ma arendtianamente, “preoccuparsi del mondo”. Di questo rozzo tentar di delineare il quadro, vorrei discutere.

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