USA e Cina di fronte alla “Trappola di Tucidide”

16 Gennaio 2019

Graham Allison

[Gianfranco Sabattini]

In “Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?”, Graham Allison sostiene che, “quando una potenza emergente minaccia di spodestare quella dominante, il risultato più plausibile è una guerra”. L’autore, affermato politologo americano e professore presso la “John F. Kennedy School of Government” di Harvard, è del parere che la metafora, tratta da “La guerra del Peloponneso” del grande storico dell’antichità, “fornisca la miglior lente possibile con cui mettere a fuoco i rapporti che oggi intercorrono tra Stati Uniti e Cina”.

Dopo aver resa pubblica questa tesi, in America è iniziato un acceso dibattito, nel corso del quale, anziché riflettere sulle “misure correttive”, che sarebbe stato auspicabile fossero state prese da entrambe le superpotenze, è prevalsa – dice Allison – la propensione ad affermare apoditticamente, sulla base di argomenti pretestuosi, che l’inevitabilità della quale parla Tucidide è del tutto infondata, in quanto la guerra tra Washington e Pechino non sarebbe predeterminata, come invece l’esperienza storica sembra suggerire, considerata l’alta frequenza con cui il verificarsi di situazioni sul tipo di quella che caratterizza i rapporti attuali tra USA e Cina ha dato luogo allo scoppio di una guerra.

A sostegno della sua tesi, Allison ricorda che, a conclusione del progetto “Trappola di Tucidide” da lui stesso diretto, l’esame delle fonti storiche degli ultimi cinque secoli ha consentito di individuare 16 casi in cui “l’avanzata di una nazione di grande rilievo ha intaccato il ruolo di uno Stato dominante”; la ricerca ha consentito ad Allison di accertare che in 12 casi, fra quelli esaminati, l’esito è stato quello di una guerra, “una proporzione di certo non confortante – afferma il politologo americano – per il conflitto geopolitico più importante del XXI secolo”.

Malgrado ciò, sono molti in America coloro che si rifiutano di riconoscere il “segnale d’allarme” che ha per gli Stati Uniti la trasformazione della Cina, da Paese agricolo sottosviluppato in quello di un grande attore dell’economia e della politica mondiale. Dal momento in cui l’ascesa della Cina ad attore globale si è trasformata in “una sfida per il predominio consolidato dell’America”, è da irresponsabili correre il rischio di cadere in quella che lo storico dell’antichità ha identificato come una trappola mortale; nel descrivere la guerra che ai suoi tempi aveva devastato le due principali polis della Grecia classica (Atene e Sparta), Tucidide aveva avuto modo di affermare che “la crescita della potenza ateniese e il timore che ormai incuteva agli spartani resero inevitabile il conflitto”.

Nel 2015, ricorda ancora Allison, in occasione di un loro incontro, i presidenti Barack Obama e Xi Jinping hanno discusso a lungo della “trappola” nella quale i loro Paesi sarebbero potuti cadere; in occasione di quell’incontro, il Presidente americano aveva sottolineato come, di fronte all’ascesa della Cina, le due superpotenze fossero in grado di “gestire i propri disaccordi”, ma aveva anche riconosciuto, assieme a Xi Jinping, che laddove fossero stati compiuti reiterati errori di valutazione da parte di entrambi i responsabili della guida politica dei due Paesi, non era improbabile che entrambi potessero correre il rischio di cadere nella “trappola”.

Allison dichiara di condividere la presunzione che la guerra tra USA e Cina non sia inevitabile; però il senso della trappola di Tucidide non esprime, né fatalismo, né pessimismo. Al contrario, esso indica solo “il modo in cui riconoscere […] la tensione architettonico-strutturale che Pechino e Washington devono necessariamente controllare”, se vorranno costruire tra loro un rapporto pacifico. Se, data la volontà dei due Paesi ad intrattenere relazioni pacifiche, vi sarà o meno una guerra, oppure si troverà un modo efficace per evitare un conflitto, come gia accaduto, ad esempio, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, durante i quarant’anni di Guerra fredda, nessuno può dirlo. Si deve però essere certi – afferma Allison – che “negli anni a venire la dinamica individuata da Tucidide andrà intensificandosi”; per cui, limitarsi a confutarla, non la renderà meno reale, mentre riconoscerla, non dovrà significare l’accettazione delle sue possibili conseguenze indesiderabili. Ciò che si renderà necessario, per le classi dirigenti dei due Paesi, sarà il dovere che sia valutato e affrontato responsabilmente il pericolo che l’umanità possa essere vittima di “una delle tendenze storiche di maggior brutalità”.

A sostegno della sua tesi, Allison ricorda il modo in cui, più di un secolo fa, gli Stati Uniti, guidati dal loro Presidente, Theodore Roosevelt, hanno maturato l’idea di diventare, nei cent’anni successivi, una potenza globale. Alla fine del XIX secolo, sebbene gli USA si fossero appena affacciati sulla scena mondiale, la politica espansiva del loro ventiseiesimo presidente ha portato il Paese a “una nuova comprensione di che cosa significasse essere americani”, sostenendo che la grandezza della loro nazione dovesse poggiare su due imperativi, che affermavano, da un lato, la missione di fare avanzare la civiltà in patria e all’estero, e dall’altro lato, la necessità che il Paese si dotasse di un’adeguata forza militare per portare a termine tale obiettivo.

Sotto la guida di Theodore Roosevelt, gli USA hanno dichiarato guerra alla Spagna, acquisendo Porto Rico, Guam e le Filippine, allargando la loro influenza su gran parte dell’America meridionale, e minacciando guerra contro la Germania e la Gran Bretagna, a meno che queste ultime non avessero accettato di definire le loro aspirazioni secondo le condizioni dettate dall’America. In tal modo, Theodore Roosevelt è divenuto il primo presidente degli USA a proiettare il potere americano sulla scena mondiale, trasformando il il Paese, con l’affermazione del diritto di intervenire dove e quando lo avesse ritenuto necessario, nel “gendarme” dell’emisfero occidentale. La propensione ad allargare il proprio dominio accompagnerà gli USA anche nei decenni successivi, sino a diventare, dopo le due guerre mondiali, il “gendarme”, non solo dell’emisfero occidentale, ma anche di quello orientale.

In termini pratici, ciò ha significato per gli USA la necessità di “governare”, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, la propria influenza globale, attraverso una politica sorretta dall’idea che essa avrebbe contribuito a migliorare le condizioni di vita di rutti coloro che ne sarebbero stati coinvolti. Oggi, pero, a parere di Allison, sebbene siano molti gli americani che ritengono di tipo imperialistico la politica sinora attuata dagli USA a livello globale, nella cultura politica dell’establishment statunitense dominante prevale ancora il convincimento che la leadership americana, per quanto ridimensionata dopo la fine della Guerra fredda, corrisponda alla necessità di garantire al mondo “un ordine liberale fondato su regole internazionali”.

Il ridimensionamento del dominio globale degli Stati Uniti è dovuto proprio all’ascesa impetuosa della Cina, iniziata nel 1949, quando i comunisti cinesi, guidati da Mao Zedong, hanno vinto la guerra civile, ponendo fine all’ingerenza, iniziata nella prima metà del XIX secolo, dell’Occidente industrializzato e imperialista nella vita politica cinese,. La Cina, infatti, aveva dovuto subire il crollo del suo dominio millenario nell’area asiatica, a seguito di guerre che l’avevano vista sconfitta e colonizzata da potenze imperialiste straniere, prima da quelle occidentali (USA inclusi) e, successivamente, dal Giappone. Sebbene l’”impero celeste” fosse stato grande nel passato, a seguito degli avvenimenti occorsi a cavallo tra le seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX, all’inizio degli anni Cinquanta esso era in rovina; ma alla fine – osserva Allison – era tornato quantomeno in mani cinesi, consentendo al Grande Timoniere, Mao Zedong, di annunciare con orgoglio che il popolo cinese si era rialzato.

Durante i primi decenni di vita, la Repubblica Popolare Cinese ha subito le pesanti conseguenze di carestie, di scelte sbagliate di politica interna e del caos della rivoluzione culturale con cui Mao aveva tentato di contenere il processo di rinnovamento delle regole da lui stesso poste a fondamento della società comunista cinese; dopo la sua morte, però, avvenuta nel 1976, la Cina ha conosciuto decenni di espansione economica sostenuta, rafforzando il proprio ruolo a livello mondiale, quindi, secondo le parole dell’attuale Segretario generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Repubblica Popolare, Xi Jinping, maturando l’aspirazione a tornare di nuovo grande.

E’ per soddisfare questa aspirazione, che il grande Paese asiatico, secondo Xi, deve riacquisire un Asia il predominio, del quale godeva prima dell’irruzione delle potenze straniere imperialiste, ristabilendo il controllo sui territori della “Grande Cina” (includenti oltre che lo Xinjiang e il Tibet, anche Hong Kong e Taiwan), ricuperando l’influenza lungo i propri confini e sui mari adiacenti ed esigendo il rispetto delle altre grandi potenze nei consessi mondiali. Alla base del conseguimento di questi obiettivi vi è – afferma Allison – “una convinzione peculiare alla civiltà cinese, la quale vede la Cina come il centro dell’universo”. In rapporto alla trappola di Tucidide, perciò, continua Allison, il divario maggiore tra USA e Cina “emerge dalle loro visioni opposte circa l’ordine mondiale”.

Il modo in cui Pechino tratta i propri cittadini costituisce il paradigma di riferimento per capire le modalità con cui la Cina, dopo aver raggiunto gli obiettivi indicati ed essere diventata la superpotenza dominante a livello globale, si relazionerà nei confronti del resto del mondo. Gli ideali democratici americani, invece, a parere di Allison, sino a un certo punto si ripercuoteranno sulla loro politica estera; ciò perché, da un lato, gli statunitensi aspireranno a veder realizzato uno Stato di diritto internazionale, e dall’altro, riconoscendo la natura problematica e conflittuale dell’uso del potere a livello internazionale, essi tenderanno ad affievolire le tensioni internazionali, sollecitando le altre potenze ad accettare un “ordine internazionale fondato su regole’”; sollecitazione, questa, che agli occhi della Cina appare, spesso a ragione, “piuttosto come un ordine in cui sono gli americani a dettare le regole, mentre agli altri tocca ubbidire agli ordini.

E’ inevitabile che queste differenze filosofico-politiche si riflettano nella estroversione estera dei due Paesi. L’America, sebbene diffidente nei confronti di ogni sorta di autorità, non potrà non riconoscere che un corretto svolgersi delle relazioni internazionali richieda un ordine fondato sul rispetto di precise regole, in mancanza delle quali nessuno Stato sarebbe garantito dall’uso della forza da parte di eventuali “Stati fuorilegge”. Per la Cina, non potrebbe essere più diversa la concezione della quale è portatrice circa l’ordine internazionale. Il Paese asiatico trae dalla sua tradizione culturale il convincimento che tale ordine, così come quello interno, possa essere garantito solo dall’esistenza di un “centro forte”. Di conseguenza, ciò che gli americani considerano come un “male necessario” è, per la Cina, “il principale agente per promuovere l’ordine e il bene pubblico, a casa come all’estero”.

Di fronte alla profonda diversità tra le due concezioni dell’ordine internazionale riconducibili agli USA e alla Cina, nel caso di possibili situazioni di crisi nei loro rapporti, le burocrazie politiche e strategiche statunitensi tendono a considerare la “logica della situazione” il miglior quadro di riferimento per stabilire il modo in cui la Cina può essere dissuasa “dall’intraprendere azioni militari contro gli Stati Uniti”.

La logica della situazione, però, comporta che gli americani valutino responsabilmente e con costanza gli obiettivi della Cina; in questo modo gli USA, ma anche la Cina, sarebbero avvantaggiati, non dall’esortazione reciproca a tenere una condotta migliore, ma “dal perseguire – afferma Allison – senza falsi pudori i propri interessi nazionali”. Il possibile successo di un tale modo di operare dipende dalla consapevolezza, per entrambi i Paesi, che nelle reciproche relazioni ciò che vale ai fini di un possibile accordo su una qualsiasi questione è la prevedibilità delle intenzioni, non la falsa e presunta “amicizia”; la dissimulazione provoca infatti ambiguità, mentre la franchezza, alimentando la trasparenza, apre la via a compromessi costruttivi, che rendono superfluo il ricorso alla forza.

In conclusione, a parere di Allison, se gli statisti di entrambe le superpotenze vorranno perseguire con successo gli interessi del proprio Paese in condizioni di pace, non potranno che fare costantemente appello, nel risolvere i momenti di crisi, alla franchezza e alla trasparenza delle intenzioni perseguite, tenendo sempre presenti, nel condurre le loro trattative, le implicazioni sottostanti “La Guerra del Peloponneso” di Tucidide. Ciò che Allison sembra voler evocare è la funzione che svolta per quarantenni dalla Guerra fredda, quando, al di là delle dure esternazioni che Washington e Mosca si scambiavano, “le discussioni franche e persino il compromesso costruttivo” hanno consentito ai leader dei due Stati contrapposti di portare avanti negoziati, pur nella diversità delle posizioni, preservando la pace e conservando intatte le loro specifiche concezioni filosofico-politiche.

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