Cavece ‘n culo alla libbertà

1 Maggio 2009

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Marcello Madau

Singolare coincidenza – non identità, ma vicinanza: sono solo tre giorni – fra una celebrazione nazionale come quella del 25 aprile, dedicata alla Liberazione dal Fascismo, ed una regionale come quella del 28, Sa Die de Sa Sardigna, in ricordo della cacciata cagliaritana dei Piemontesi (relativa e presunta, perché il seguito lo conosciamo). E’ una vicinanza che si pone a suo modo come fortemente simbolica del rapporto che può venirsi a creare fra questioni nazionali italiane e questioni regionali, fra di esse e la battaglia contro il capitalismo e le forze della destra al governo.
Non vi è necessaria contraddizione fra le istanze dell’autodeterminazione di un popolo e la sua liberazione secondo un moderno progetto comunista. Forse sarebbe importante riprendere a discutere su questi temi, perché una risposta solidamente progressista alle sfide imposte dalla globalizzazione ha bisogno di piani comuni e non può che unire il diritto alla democrazia dal basso, e perciò alla autodeterminazione, e la lotta anticapitalistica (fatto che a ben vedere non era sfuggito, assieme all’individuazione dei suoi rischi reazionari, ai grandi teorici marxisti). Mi sembra che questo fatto sia stato anche percepito, e definito, in modo interessante nell’ultimo Forum Globale a Belèm.
E’ però urgente e necessario decidersi ad impiegare materiale buono abbandonando quello cattivo.
Sa Die de Sa Sardigna, per quanto ogni ’racconto’ possa venire anche determinato dal lettore e dal narratore che a sua volta lo trasmette, è un racconto che funziona male, che non può servire come memoria culturale fondante condivisa per un serio progetto di liberazione della Sardegna.
La rivolta cagliaritana del 1794 – a pochi anni dalla sua ufficializzazione negli apparati identitari della contemporaneità – non è, al di là dei momenti celebrativi ufficiali e della rispettabile volontà politica di alcuni soggetti, globalmente percepita e neppure sentita.
Non di rado si crea un messaggio di alterità che, per definirsi, produce una separazione viscerale e senza un fine preciso, quasi autosufficiente; al di là di una funzione rituale consolatoria, non mostra di potersi consolidare oltre un certo limite, di poter operare come traccia culturale condivisa da ampi strati di popolazione all’interno di un progetto politico strutturato. Dubito quindi che da questa relazione fredda sia possibile una forte evoluzione, a meno che non viri in maniera irreversibile verso lo spettacolo frivolo e facile del consumo folcloristico di massa…
Credo che le ragioni fondamentali siano due: la prima, che la rivolta del 28 aprile non fu molto incisiva (ben altre lo furono), tanto da produrre a distanza di pochi anni il suo esatto contrario, la seconda è che il suo radicamento, sia nelle fonti sia nella memoria, è assai debole. Visto che intanto c’è, usiamola possibilmente come occasione di discussione e superamento della stessa, dato che difficilmente, e comunque non a breve, si riuscirà a rimuovere un apparato celebrativo così utile per la raccolta e l’elargizione di pubblici finanziamenti.
Se è un peccato che questo succeda, può essere anche questo un piccolo punto di partenza verso la costruzione più seria della memoria culturale e l’individuazione di momenti migliori, più democratici e popolari, la cui rivisitazione memoriale sia in grado di costruire ben maggiore consapevolezza.
Oggi la serie di immagini evocate da Sa Die de Sa Sardigna sembra generalmente piegarsi a piccoli ribellismi facilmente assorbiti, se non omologabili, nelle ‘parole d’ordine’ delle forze moderate e persino dal messaggio leghista (corroborato di storica diffidenza verso il Piemonte). Con un meridionalismo che si apparenta, più che con le storie dei braccianti sfruttati, con quelle del popolo clericale amico di re e imperatori, papi e cardinali.
Non stupisce allora che molte cose vadano al loro posto: la rivolta cagliaritana si inserisce nella reazione anti-illuminista del clero sardo, come fu il clero ad appoggiare nel Ducecento contro Federico Barbarossa la Lega Lombarda e (l’inesistente) Alberto da Giussano, o ancora i Sanfedisti guidanti dal cardinale Ruffo contro i Francesi e a favore dei Borbone, come ricorda il canto recuperato dall’indimenticabile Nuova Compagna di Canto Popolare, databile pochi anni dopo la nostra ‘rivolta di popolo’, un verso della quale dà il titolo a questo pezzo.
Sicchè l’invito del Presidente della Regione Sardegna alla ‘nazione sarda’ non crea problemi sociali e lascia intatto il potere del nuovo padrone coloniale, suo personalissimo dominus, Silvio Berlusconi. Codificando non a caso – come mostra la prolusione nazionalista di Cappellacci proprio in occasione di Sa Die de Sa Sardigna – la deriva qualunquista implicita nel mettere al primo posto la questione nazionale piuttosto che quella di classe, nazionale e internazionale.
A noi vedere se e come sia possibile combinarle per liberarci da quella dipendenza che, alla fin fine, sia su scala globale che su scala sarda, è prodotta da questo capitalismo e dai suoi apparati di dominio.

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