Tradizioni liquide

16 Febbraio 2008

Carnevale ad Alghero
Sandro Roggio

Carnevale 2008. Un grande manifesto sui muri annuncia il Carnevale de L’Alguer. Lo spettacolo è confezionato per i turisti d’inverno, sempre di più quelli che arrivano via Ryanair ad Alghero, e che dovrebbero, secondo i bei programmi sui flussi dalle coste verso l’interno – e lo slogan “ visitate la Sardegna sconosciuta” – andare in giro a scoprire il suo patrimonio culturale, le sue tradizioni alimentari, le sue feste, ecc. Alghero non ha un carnevale tipico, per quello che mi risulta. Ci sono altre solide tradizioni locali come i riti che si svolgono nella settimana di Pasqua. Troppo poco, evidentemente, per coprire la stagione ormai estesa. E poi i turisti è bene non farli allontanare per ovvie bottegaie convenienze. Così il carnevale chi non ce l’ha lo importa, come ogni cosa nel mondo globale. Se serve si inventa. Le maschere sono quelle della Sardegna dell’interno che a domanda si trasferiscono, si esibiscono in sfilate che, a prima occhiata, sembra approssimative oltre che fuoriluogo. Per gli atteggiamenti disinvolti dei figuranti, perché, come è noto, il carnevale barbaricino è una cosa ‘seria’ ( ma lascio agli studiosi di queste espressioni la parola). Se le filiere corte con cui si dice di volere competere nella globalizzazione comprendono anche questi modi, non è un bel risultato. Nello sfondo il rapporto viziato con i turisti ai quali non solo si deve piacere, ma – è ormai obbligatorio – facilitargli ogni cosa, servirgli delle sintesi leggere di noi, perché la brevità dei soggiorni non ammette perdite di tempo. La cosa è vantaggiosa per chi si propone, con offerte arrangiate, dalle sagre spesso inventate con prodotti ‘locali’ arrivati dal continente o panini e piatti pronti con il marchio delle multinazionali fast-food. E ad adiuvandum qualche finta vecchia casa fintamente restaurata. In questo solco il folclore si vende, nel formato richiesto. Nulla di irrimediabile, si dirà. Solo un modo spiccio di mostrarsi che omologa un po’ il fiero popolo dei nuraghi. Si dirà anche che il carnevale è dinamico, che per sua natura è mescolanza, patchwork come il vestito di Arlecchino. Un indizio da non sottovalutare però, proprio perché riguarda tradizioni ‘minori’, che si corrompono con più facilità. Perchè la Sartiglia o i Candelieri sono meglio protette (nessuno pensa di trasferire il palio dal Campo senese in una piazza romana, o in un ippodromo, assegnando tempi supplementari allo spettacolo). Sono i beni ‘minori’ che rischiano di più, per quella tendenza che non rispetta provenienze- appartenenze, e a volte, come si sa, punta ad accogliere manufatti prodotti in periferia in un museo più centrale, più frequentato, più sicuro. Ogni tradizione locale, come ogni bene culturale, ha il suo scenario nelle piazze dov’è nata, si snoda nelle strade di quel posto, secondo rituali dove ogni scorcio ha un senso, a quell’ora, con quella luce, con la gente del posto che partecipa davvero. E il valore aumenta se i paesaggi si sono ben conservati. Togliere reiteratamente quelle maschere dai luoghi dove sono nate è un’operazione di marketing azzardata e perdente. Quanto più le si mette in vetrine estranee al contesto di appartenenza tanto più se ne depotenzia il significato culturale. Perdono soprattutto i paesi, le comunità che accettano di diventare pittoresche, anche nell’ottica spesso troppo enfatizzata di spostare flussi.

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