American women

16 Novembre 2008

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Manuela Scroccu

Ann e Michelle. La prima è una  meravigliosa anziana signora afroamericana di 106 anni, Ann Nixon Cooper. A lei, che ha fatto diligentemente la fila ai seggi per dare il suo voto al primo presidente afroamericano degli Stati Uniti d’America, sonoandati i ringraziamenti più intensi del discorso della vittoria di Barack Obama. A lei che quando aveva 18 anni non poteva votare per due ragioni fondamentali: perché era donna ed era nera. A lei, la cui madre è stata schiava, che ha vissuto la segregazione razziale e ha sfilato con il reverendo King, Obama ha reso omaggio. Poi, naturalmente, c’è lei: Michelle LaVaughn Robinson Obama, la ragazza del south side. “My Rock”, così l’ha definita il marito, l’arma segreta del Presidente, con il suo tubino dai colori accesi, il pugno alzato, il suo metro e ottanta. Il vero american dream è il suo: figlia del ghetto, plurilaureata ad Harvard e a Princeton, avvocatessa di successo. È stata lei stessa a dichiararlo: sono un errore statistico, non dovrei essere qui. Michelle la radicale, che tanto spaventava l’establishment democratico, ha affrontato i riflettori di una campagna elettorale durissima convincendo l’America che il marito sarà uno straordinario presidente. Certo ha pesato un’efficace operazione “normalità” abilmente orchestrata dagli strateghi della campagna elettorale democratica, tesa a riposizionare la sua immagine nell’alveo dei valori tradizionali della famiglia, in modo da smentire i detrattori repubblicani che la presentavano come una donna nera arrabbiata e antipatriottica. Vero è che Michelle fa parte del “pacchetto Obama”, espressione di quel vento di rinnovamento che ha soffiato su queste emozionanti elezioni presidenziali americane. Una donna  fuori dagli schemi e totalmente nuova come First Lady, non mediata e sicuramente non un surrogato del marito. Una capace di denunciare pubblicamente la profonda ingiustizia di una società razzista, divisa tra bianchi e neri, ricchi e poveri, paralizzata dalla paura e dal consumismo sfrenato. Avrebbe potuto scandalizzare le brave donne bianche americane, avrebbe potuto spaventarle e spingerle nelle braccia “armate” di fucile di Sarah Palin. E invece, non è successo. Dio, armi e rossetto non sono bastati. Le donne americane, come stava scritto su uno striscione elettorale idealmente indirizzato a Mr. McCain, “non hanno aspettato 232 anni per Sarah Palin”. Barack Hussein Obama deve molto alla forza, alla determinazione, alla rabbia e alle speranze delle donne d’America che l’hanno sostenuto. Il giovane senatore afroamericano ha conquistato il 56 per cento dell’elettorato femminile, superando di 5 punti quel 51 per cento che nelle ultime elezioni aveva votato per John Kerry. Le elettrici  indipendenti e democratiche lo hanno votato in massa e sono state in prima fila nella raccolta fondi attraverso le piccoli sottoscrizioni che hanno costituito una delle grandi novità di questa campagna elettorale. Non solo le afroamericane, ma anche le donne della classe media, le cosiddette “Wal-Mart women” stritolate dai mutui subprime e dai conti delle innumerevoli carte di credito distribuite per “drogare”il consumo e nascondere la crisi, oppresse dalla preoccupazione dell’università per i figli e dai conti dell’ospedale. Sono loro che hanno pagato di più la crisi e le guerre inutili dell’era Bush, sono loro che dovranno sopportare il peso delle famiglie per fare in modo che il sogno americano non naufraghi del tutto. Obama ha promesso di mettere mano al vergognoso sistema sanitario americano e di puntare molto sull’istruzione. Ha promesso di affrontare la crisi economica avendo come punto di riferimento l’uomo della strada e non l’uomo di Wall Street. Se non lo farà, dovrà risponderne anche a loro che si sono messe in fila ai seggi per ore e hanno fatto il porta a porta per rastrellare voti democratici nell’elezione che “ha fatto la storia”. Le donne sono state la chiave per la vittoria alle elezioni presidenziali e non rinunceranno ad avere un ruolo di primo piano nel progetto di riformare la struttura governativa del paese a tutti i livelli. Di certo, per ora, c’è il fatto che Barack Hussein Obama è il nuovo volto degli Stati Uniti d’America. Ha scommesso la sua storia personale, il suo albero genealogico, la sua famiglia e li ha presentati come il simbolo del cambiamento e del rinnovamento, della società che cresce e dà i suoi frutti migliori attraverso la contaminazione e la fusione delle differenze. Il popolo americano lo ha eletto. Per tutti noi, che hanno fatto le cinque del mattino al di qua dell’oceano in attesa della sua elezione, Obama rappresenta la faccia buona della globalizzazione, l’aria fresca in grado di attenuare l’odore di marcio che ha sta contaminando il mondo.  Free, at last.

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