Cile, neoliberismo e disuguaglianze

7 Novembre 2019

(Photo Marcelo Hernandez)

[Maurizio Matteuzzi]

Trenta pesos, 0.036 centesimi di euro. Tutto per 0.036 centesimi? Per 30 anni ci  siamo detti e ci siamo sentiti dire del “modello”, dell’ “esempio”, del “miracolo”, del successo neoliberista, della stabilità  democratica, della crescita economica, della diminuzione della povertà, della pace sociale, e adesso salta tutto per l’aumento di 30 pesos del biglietto della metro?

Solo un paio di settimane prima del 18 ottobre, giorno fatidico dell’ “estallido”, l’esplosione all’inizio studentesca poi popolare che forse (speriamo) ha cambiato il Cile, il  presidente Sebastián Piñera andò in tv  per dire che mentre l’Ecuador e il Perù bruciavano, “ il nostro paese, il Cile, è un’oasi”.

Due settimane dopo, mentre era Santiago che bruciava, è tornato in tv per annunciare che noi, il Cile, “siamo in guerra”, una guerra contro un nemico poderoso e implacabile”.

Ma non era un’oasi? E chi è questo nemico? Nonno Vargas Llosa ci crede alla “Spectre” cubano-venezuelana che incendia e destabilizza gli altri paesi dell’America latina,  ma il Cile no, “in Cile ovvio che no”.  Mentre non si sa come spegnere l’incendio nonostante lo stato di emergenza, il coprifuoco, i militari nelle strade per la prima volta dalla fine di Pinochet   (con relativi morti ammazzati, una ventina, migliaia di arresti e abusi di ogni tipo come ai bei tempi d’antan), è la primera dama Cecilia Morel,  intercettata su Whatsapp,  a spiegare che è come  una invasione di “alieni”.

Gli alieni non sono i castro-chavisti, ma gli studenti che saltano i tornelli della metro, i pobladores che assaltano i supermercati, il popolo cileno che scende in massa per strada senza nessun riferimento di partito (neanche quelli  di sinistra).

Parole sante quelle del presidente, della moglie, del sottosegretario agli interni Ricardo Ubilla (“delinquenza pura e semplice”). Niente potrebbe spiegare meglio le ragioni dell’ “estallido” e la irrimediabile disconnessione fra le elite politico-conomiche e la popolazione. Il Cile, a parte il breve periodo della Unidad Popular, è una feroce oligarchia classista e autoreferenziale. C’è anche chi è andato a vedere: il 67% dei componenti del governo proviene da sei scuole. E che gli altri si fottano.

Piñera è poi tornato in tv per recitare il mea culpa (“non abbiamo capito”), annunciare un rimpasto di governo  e qualche riforma. Come l’aumento del 20% delle pensioni, privatizzate sotto Pinochet da suo fratello José Piñera e che in media valgono ben 290 dollari, e il ritocco del salario minimo da 413 a 482 in un paese che ha “salari da Paraguay e prezzi da Spagna”. Briciole. “Troppo poco e troppo tardi” per un Cile che dopo 30 anni finalmente “si è svegliato” e che chiede molto di più. A cominciare da una nuova costituzione, al posto di quelle imposta da Pinochet nel 1980 e incredibilmente ancora in vigore, e dalle dimissioni di Piñera, la cui popolarità è crollata al 13%.

Lui e i suoi amici provenienti dalle sei scuole non hanno neppure capito che l’incendio di ottobre (che continua) non è per “i 30 pesos ma per i 30 anni” e per l’insopportabile grado di diseguaglianza che, nonostante i progressi economici, fa del Cile uno dei paesi più diseguali del mondo.

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