Democrazia, referendum e lotta di classe
12 Maggio 2025[Francesco Tanzarella]
Più di un motivo sembra rendere difficile alla campagna elettorale per il voto referendario del 8 e 9 giugno trovare lo slancio che meriterebbe.
Una corsa azzoppata dall’inammissibilità dichiarata dalla Corte Costituzionale contro il sesto referendum, quello sulle autonomie regionali differenziate, tema di forte impatto nell’ attuale quadro politico, che avrebbe dunque fatto da traino anche per gli altri 5 referendum. Una corsa verso il quorum del 51% vissuta con grande preoccupazione, visto il trend crescente dell’astensionismo che lo ha visto superare il 50% alle elezioni europee del giugno scorso. Eppure, nonostante queste premesse, i prossimi referendum costituiscono una grande occasione per riportare sulla scena pubblica quel conflitto sociale che il governo Meloni definisce “tossico”, e che è il vero avversario contro il quale le destre di tutto il mondo si riconoscono tra di loro.
Dopo più di un trentennio dominato dall’idea che la riduzione del costo del lavoro e l’uso flessibile della forza lavoro avrebbero condotto allo sviluppo economico e al conseguente progresso sociale, il fallimento di quel sistema di pensiero appare difficilmente contestabile. Alla sparizione della scala mobile e persino del sistema concertativo di recupero dell’inflazione programmata, non è seguito alcun intervento di tutela del potere d’acquisto del salario, mentre è stato attaccato a testa bassa lo Statuto dei lavoratori e il contratto a tempo indeterminato.
E se la perdita del potere d’acquisto del salario nel trentennio è oggi un dato appurato dall’Istat, la serie storica dei valori di PIL annui mostra una curva decisamente declinante, smentendo la correlazione tra stagnazione salariale e sviluppo economico. Che quel sistema di pensiero abbia poi da tempo perso il consenso delle classi subalterne, è allo stesso tempo una realtà ben visibile nei dati dell’astensionismo elettorale, ma purtroppo anche nei dati dei flussi di voti operai verso i partiti di destra.
Voti che hanno in comune la rabbia contro quel sistema che ha allargato a dismisura le disuguaglianze, ma anche il paradosso di premiare quella stessa élite finanziaria beneficiaria dei processi di accumulazione economica. Più è andato avanti il disconoscimento dei bisogni sociali e più sono stati smantellati gli strumenti politici e sindacali per rispondere alle rivendicazioni popolari, più il conflitto di classe si è trasformato in conflitto razzista e nazionalista. In Italia come in Europa, come in America.
Ma l’oscuramento del conflitto sociale è anche alla base della crisi della democrazia. Crisi che investe anch’essa tutto il mondo occidentale nella condivisione degli stessi processi regressivi: erosione della separazione dei poteri e in particolare dell’indipendenza della magistratura, concentrazione dei poteri nell’esecutivo e conseguente restringimento delle funzioni del Parlamento, revisione delle Costituzioni nate dall’antifascismo. Obiettivo ultimo è quello di restringere la rappresentanza della società nelle istituzioni e di espellere il conflitto sociale dalla scena pubblica.
Il capitalismo stretto alla gola dalle sue stesse crisi si rivela in tutta la sua insofferenza verso la democrazia e colpisce i presidi di pluralismo e di bilanciamento dei poteri dove la perdita di consensi si potrebbe manifestare e metterlo in pericolo. L’attacco allo Stato sociale si intreccia dunque con l’attacco allo Stato democratico in unica battaglia dell’economia contro la politica, dove il taglio della spesa pubblica per i servizi e le pensioni è parallelo all’erosione dei diritti sociali stabiliti dalle leggi e dalla Costituzione.
Sarà difficile dunque difendere la democrazia senza restituire legittimità al conflitto sociale, senza una svolta che ne riconosca il suo ruolo insostituibile per una politica di reale sviluppo e progresso, assieme all’urgenza di un necessario risarcimento a quanto tolto in risorse e diritti alle classi popolari.
Una svolta che non può passare solo per l’affermazione di un’area d’opinione o elettorale che sia, ma che deve passare anche per la conquista di spazi concreti nelle condizioni di vita dei lavoratori, quali quelli che i quesiti referendari mettono appunto in gioco.
Quesiti che, giova ricordarlo, puntano all’efficacia diretta della normativa di risulta delle abrogazioni delle norme sottoposte a referendum, a cominciare dall’obbligo di causale nella reiterazione dei rapporti a tempo determinato sino a 12 mesi, al superamento del tetto di indennizzo per i licenziati senza giusta causa nelle piccole aziende, all’estensione della responsabilità civile del committente alle ditte appaltatrici e subappaltatrici, al ritorno all’obbligo di residenza di 5 invece di 10 anni per le richieste di cittadinanza. Infine, ma non certo da ultimo, al ripristino dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, che nella storia del movimento operaio del dopoguerra ha rappresentato il “diritto di avere diritti” dei lavoratori perché sancì la fine dei licenziamenti delle avanguardie delle lotte operaie.
Un insieme di obiettivi dunque, che pone la tutela dei diritti dei lavoratori come premessa per affrancarsi dalla condizione di marginalità e di disgregazione in cui le tante sconfitte hanno condotto le classi popolari. In questo senso va sottolineata la connessione tra il referendum sulla cittadinanza agli stranieri e quelli sul lavoro, dal momento che la differenziazione di trattamento dentro il mercato del lavoro verso i lavoratori stranieri è stato uno dei varchi dove le destre hanno affondato le loro leve.
I 5 referendum possono infine avere non solo l’effetto di gettarci completamente alle spalle il renzismo, bonificando così il centro sinistra perlomeno da questo perverso retaggio, ma anche quello di far emergere un altro punto di vista su quanto accade nel mondo. Un mondo attraversato da guerre sia commerciali che militari che sembrano essere del tutto frutto della competizione tra stati nazionali e in cui le classi sociali divengono invisibili.
Un mondo la cui rappresentazione diviene oggi soprattutto geopolitica. Ma come avvertiva quel Manifesto di Ventotene di recente tornato in auge, la geopolitica diviene spesso una “pseudoscienza”, che impedisce di vedere il vero ruolo delle oligarchie capitalistiche dietro la facciata nazional-patriottica, sotto la quale scompaiono anche i problemi di povertà, precarietà, disoccupazione e sfruttamento dei lavoratori.
Problemi che attraversano qualsiasi confine nazionale e che richiedono in risposta la ripresa di una lotta comune che sarebbe anche la miglior misura di sicurezza contro i venti di guerra totale che spirano sempre più forti.
da www.micropolisumbria.it