Fenomenologia di un nuraghe alchemico [3]

1 Marzo 2022

[Alfonso Stiglitz]

L’Alchimia, in arabo letteralmente pietra filosofale, è quel sapere esoterico (per alcunɜ) mistificatorio (per altrɜ) che afferma la possibilità di trasformare un metallo vile in oro: la cosiddetta trasmutazione. In auge per secoli declina inesorabilmente con il nascere e lo svilupparsi del metodo scientifico moderno.

O forse no, perlomeno se ci riferiamo al crescere degli articoli di giornale sul nuraghe di Monte Urpinu (vile metallo o oro?), tale da costringerci a tornare sul tema. Infatti, le settimane trascorse dal precedente articolo ci hanno portato nuovi aggiornamenti giornalistici sulla entusiasmante vicenda della mega reggia nuragica “più grande di Barumini”, con un singolare fenomeno giornalistico alchemico di trasmutazione virtuale: negli stessi articoli si passa dal “non ci sono evidenze” al “finalmente si scava”. Il mio consiglio, pacato, è quello di iniziare a scavare negli articoli, nei virgolettati, nelle dichiarazioni: in sostanza nella cruda realtà dei dati. Trattandosi di una fenomenologia, quindi di una «descrizione dei fenomeni, ossia del modo in cui si manifesta una realtà» (Enciclopedia Treccani), propongo una breve esegesi degli articoli e un riordino dei dati reali.

L’Unione Sarda del 19 febbraio ci informa, salomonicamente alla Catalano (Massimo, l’indimenticabile seguace di Lapalisse di ‘Quelli della notte’, per chi ha una certa età) che c’è «troppo poco per dire sì […] ma troppo poco anche per dire no, all’ipotesi che lassù sia sepolto un nuraghe». Poi, aggiunge la dichiarazione della Soprintendenza: «allo stato attuale, riteniamo che non ci siano elementi sufficienti per datare quel muro all’età nuragica. Premesso questo, ben vengano ulteriori accertamenti».

Castedduonline – che della reggia di Monte Urpinu ha fatto un proprio cavallo di battaglia – rilancia la notizia con uno ‘scoop’, un po’ in ritardo rispetto all’Unione, del 24 febbraio: «Cagliari, nuraghe a Monte Urpinu: via libera della Soprintendenza agli scavi archeologici»; il tono nel testo va in crescendo: «Sì alla campagna di scavo. La Soprintendenza ai beni archeologici dà il via libera alle indagini per il nuraghe di Monte Urpinu. Quello che, secondo lo studioso Giovanni Ugas, potrebbe essere più grande di quello di Barumini, una struttura imponente capace di dare al territorio di Cagliari (“porta del Campidano”) un ruolo strategico nella civiltà nuragica e in grado di scrivere un nuovo capitolo della storia della città e dell’Isola». In rete, con una semplice ricerca, troverete vari altri post di pagine affini, con lo stesso tenore che, quindi, diamo per acquisiti per non farla lunga.

In realtà, a voler leggere quello che effettivamente è stato detto e virgolettato in entrambi gli articoli si ritorna a quello che dovrebbe essere l’ABC della ricerca scientifica, archeologica in particolare: se fai un’ipotesi hai il dovere di portare le prove, non puoi fare un proclama giornalistico, cercare l’appoggio popolare e, poi, scaricare sugli altri l’onere della prova contraria. L’etica professionale e il metodo scientifico impongono un percorso ben definito, codificato dalla legge: il ‘Codice dei Beni Culturali’ (Dlgs 42 del 2004), infatti, stabilisce che qualora un soggetto pubblico o privato (non il singolo Indiana Jones, ancorché titolato, che vaga per le campagne alla ricerca del Santo Graal) intenda fare indagini archeologiche deve chiedere una ‘concessione di scavo’ (art. 89 e circolari connesse) – per non parlare poi della ‘Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico’del 1992, (ratificata con legge L. 29 aprile 2015, n. 57), ma non esageriamo con la puntigliosità.

In realtà, quindi, la notizia è – o avrebbe dovuto essere – la constatazione che allo stato attuale niente porta a testimoniare la presenza di un nuraghe. Semmai una semplice, lapalissiana, presa d’atto: gli studiosi interessati avrebbero dovuto, a monte, predisporre un progetto particolareggiato in connessione con un centro di ricerca, che comprenda anche gli interventi di restauro (costosi, vedendo le immagini), trovare i fondi necessari e chiedere la concessione; così fan tutti gli archeologi, in Sardegna e in Italia. Giusto per stare a Cagliari, così ha fatto l’Università che da anni conduce gli scavi sulla Sella del Diavolo. Fare uno scavo o anche dei semplici sondaggi non significa attivare un paio di volontari volenterosi, pala e piccone, come ogni tanto sembra vagheggiarsi sui social di appassionati e Fondazioni culturali, è un’attività complessa, delicata e, in sé, distruttiva.

L’Unione Sarda (e Castedduonline) ovviamente non può smentire sé stessa dopo il colossale clamore mediatico, comprese le improbabili ricostruzioni fotoshoppate. Cosa fa, quindi? Partendo dalla risposta che non v’è evidenza di nuraghe e dal consiglio di chiedere eventualmente una concessione a norma di legge, trasforma il tutto in un via libera agli scavi. Siamo all’invenzione totale, i desiderata si scambiano per realtà.

Un’archeologia a la carte in cui scegliere la pietanza che più ci piace, scartando gli ingredienti non graditi al nostro palato, una ricetta wow (©McDonald’s). Ma ci torneremo.

PS. Fotoshoppare è una parola che si può usare, lo certifica la consueta Treccani, che consente anche l’uso di fotoscioppare, ma non volevo esagerare.

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