I versi raminghi e sognanti di Giulio Angioni in ‘’Anninnora’’ testamento poetico e umano per non restare indifferenti

25 Ottobre 2025

[Mattia Lasio]

Quando si scrivono versi ci si libra letteralmente in una dimensione sospesa tra l’immaginazione più astratta e la concretezza del poter vedere nitidamente racchiusi in pochi termini alcuni stati d’animo che lasciano un segno particolare nell’animo.

Forse, la bellezza dell’arte del verseggiare sta proprio in questo ovvero in un’alchimia speciale che si instaura tra la dimensione sognante e quella del tangibile e del concreto. Giulio Angioni, scrittore e antropologo tra i più influenti di sempre venuto a mancare nel 2017, tra queste dimensioni così suggestive, e al contempo difficili, si muove con la maestria di chi ha dalla sua un bagaglio culturale e di esperienze umane estremamente solido, aspetto che consente di guardare le cose e i contesti che si prospettano davanti con una lucidità unica. Una lucidità che traspare dalla sua raccolta di poesie postuma intitolata ‘’Anninnora’’, pubblicata nel 2017 dalla casa editrice Il Maestrale. Una raccolta costituita da 13 sezioni, a cui si aggiungono una prefazione a opera di Luigi Tassoni e una nota al testo di Giancarlo Porcu, avente inoltre un congedo brevissimo firmato dallo stesso Angioni con eleganza e concisione.

Se di Angioni erano già decisamente note le qualità come saggista e come narratore, prendendo in mano questa raccolta di poesie in italiano – lui che è stato anche raffinato poeta in lingua sarda come dimostrano le raccolte ‘’Tempus’’ e ‘’Oremari’’ – ci si accorge ancora di più della sua abilità nel tratteggiare con estrema concretezza contesti di vario tipo rendendoli vicini e ugualmente distanti, dando vita a un gioco lirico di continua ricerca che non si esaurisce nel toccare con mano questi luoghi descritti ma prosegue senza sosta in una ricerca prima di tutto interiore. Perché i luoghi che descrive Angioni nei suoi versi, prima ancora che luoghi fisici sono luoghi dell’anima.

La raccolta si apre con la poesia che a essa dà il titolo, in cui Angioni si sofferma sulla brezza inquieta del mare e fa un accenno alla sua Assandira, terra da lui creata e che dà il nome al suo celebre romanzo omonimo del 2004.

In ‘’Lontano’’ definisce la vita come una freccia scoccata sul morire, in ‘’Gnomica’’ invita a non sminuire mai la nostalgia in quanto essa è in grado di tenere il mondo in piedi quanto la speranza. Il suo flusso lirico ci conduce in un ‘’Multiverso’’ che racchiude sentimenti più profondi di quanto si possa immaginare. Il ricordo struggente della propria madre ancora giovane affiora in ‘’Casa’’, in ‘’Nostos’’ affronta il tema del ritorno, tanto caro alla letteratura greca, e tributa Itaca insieme a uno dei suoi maggiori cantori ovvero Kavafis. Nell’affrontare tematiche come il ritorno verso una precisa meta non manca un sentimento di profonda solidarietà che emerge da ‘’Rincasare’’ dove si pensa a chi una meta dove tornare non l’ha più.

Lo scorrere del tempo è protagonista di ‘’Cose grosse’’ dove l’autore sottolinea come il tempo che passa ci rende più cinici oltre che più fragili e più incerti. La complessità della vita è racchiusa da versi come «a vivere s’impara anche morendo», in ”Vocabolario” ci si sofferma sulla distinzione tra le differenze,  definite come il sale della terra, e le disuguaglianze  definite d’altro canto come il male assoluto.

In ‘’Disprezzo’’ Angioni ricorda che chi disprezza  chi soffre disprezza in generale tutto il genere umano, in ‘’Eccentricità’’ rimarca come nessuno conosca davvero sino in fondo se stessi. Non mancano  le dediche ad alcuni tra i suoi illustri colleghi come Enrica Delitala, Alberto Mario Cirese e Placido Cherchi esponenti di spicco come Angioni di quella che è passata alla storia come ‘’la scuola antropologica di Cagliari”.

In ‘’Come di giorno’’ emerge l’invito accorato a non fermarsi mai e a riprendere il proprio viaggio nonostante tutto, mentre nella poesia ‘’In principio era il verbo?” ci si scaglia contro chi è in grado solamente di dare ordini senza mai mettersi nei panni di chi è in difficoltà. Non mancano le domande dai tratti esistenziali come in ‘’Parola mia’’ dove ci si chiede con estrema franchezza: «che c’è mai di perfetto a questo mondo?».

Il tempo è nuovamente protagonista nell’omonimo componimento dove si parla di un tempo, per l’appunto, che ci occupa e ci preoccupa spaventandoci con il suo ritmo inarrestabile. Tra le poesie più significative e pregnanti spicca ‘’I bimbi di Gaza’’ in cui ci si focalizza sulla sofferenza del popolo palestinese per poi concludere con versi che colpiscono per la loro intensità lirica ed emotiva: «Ma il gioco migliore», scrive Angioni, «è giocare oltre i margini e i muri finalmente sicuri a far liberi tutti».

Immancabile una buona dose di, amara, ironia come ne ‘’Il tempo e il luogo’’ dove l’io viene definito come un’invenzione occidentale. Lo scorrere del tempo ritorna prepotentemente in ‘’Tempi’’ dove si legge: «nel tuo presente invaso dal passato e dal futuro il tuo futuro vuole nuovo passato da costruire». Il tempo è sì beffardo ma al contempo può avere in sé anche qualcosa di positivo in quanto, come affermato in ‘’Storicismo’’, «tutto resta da dire, vedere, sentire, capire, da fare». Tutto resta da fare in un mondo che vive sempre in trepida attesa, dove i cassetti delle persone sono spesso vuoti e privi di sogni. Un mondo in cui si prova la sensazione logorante «d’esser vivi e non saperlo fare», in quanto incapaci di stare in una vera  e propria giungla dove raccapezzarsi è compito arduo.

Forse, a causa di questo sentimento di profonda inadeguatezza, ci si potrebbe sentire dei perdenti e degli sconfitti ma Angioni ricorda con risolutezza in ‘’Spreco’’ che «sempre è migliore l’oppresso dell’oppressore» e che nel sentirsi fragili non c’è nulla di sbagliato. Fragilità di cui non vergognarsi ma da custodire così da «piantare al mondo un poco della nostra precaria intimità» come si legge in ‘’Scripta’’. Tante le riflessioni elaborate come, ad esempio, sulla poesia stessa definita ne ‘’Le regole del gioco’’ come «tirare un sasso in piccionaia, nascondere la mano, vedere l’effetto che fa».

Un effetto dirompente grazie a cui prendere di petto le insidie causate dai propri demoni interiori, grazie a cui imparare a distinguere ciò che è buono da ciò che buono non è senza mai cadere nel tranello delle generalizzazioni e, soprattutto, grazie a cui comprendere che fare poesia ora più che mai è fondamentale in quanto, come ricordato dal poeta palestinese Marwan Makhoul nei suoi ‘’Versi senza casa’’, potremmo anche non cambiare questo mondo con ciò che scriviamo ma perlomeno  potremmo graffiare la sua vergogna, senza restare indifferenti davanti alle ingiustizie.

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