Un sardo senza qualità

1 Ottobre 2010

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Mario Cubeddu

Abbiamo visto tante volte un’auto in fuga su un rettilineo a perdita d’occhio, inseguita dalla ripresa verticale dall’elicottero e da una lunga fila di macchine della polizia. A bordo c’è la coppia di giovani ribelli e affascinanti che con un gesto clamoroso ha violato le regole sociali e un percorso normale di vita diventato intollerabile. Questa è una storia diversa. La strada non confina con cieli sterminati o col profilo delle Montagne Rocciose, ma con una pianura distrutta dai centri commerciali e “un brutto piazzale nell’imbarco commerciale di Porto Torres”.  L’auto in fuga non è una Chevrolet: i sedili anteriori della Fiat Punto nera a tre porte faticano a contenere i corpi obesi e debordanti di Serafino  e Amalia, la coppia  di mezza età protagonista de “Il primo passo nel bosco” di Alessandro De Roma, uscito qualche mese fa per Il Maestrale.  E‘ l’ultimo atto di vite segnate dalla fuga da se stessi e dal mondo. Fuga di due sardi del nostro tempo, due sardi che vivono come noi, accanto a noi. Lo spazio dell’azione è contenuto tra Ghilarza, dove Serafino Pinna è nato, e Cagliari. Luoghi segnati dall’ambiguità, come i destini degli uomini. Ghilarza è il paese di Gramsci, ma Gramsci è nato ad Ales; Ghilarza vanta “il lago più grande d’Europa”, ma non lo vede,  sente solo la nebbia che, appena la notte raffredda, invade l’altipiano e la statale 131. Un’ambiguità e una resistenza a definirsi che invade gli esseri umani, sino a diventare carattere e natura. Serafino è abbastanza intelligente da rifiutare una vita falsa e alienata e da immaginare un percorso nel bosco. La sua coscienza vigile è costantemente in azione e non può evitare il giudizio. Questo non si traduce però in un’azione volta a incidere sul mondo, ma in sarcasmo, sberleffo e rinuncia. Una scelta conscia di sterilità per una vita di cui da sempre si conosce la mancanza di significato. Da molto tempo per noi e la nostra terra è stato detto: “Tu sei al mondo perché c’è posto”. In una realtà senza senso diventano centrali le gioie apparentemente innocue: le paste alla crema, la villetta con prato inglese allo Scoglio Fiorito, vicino a Capoterra, le conversazioni e le cene con familiari, amici, vicini. Le gioie di un epicureo che osserva con un sorriso l’agitarsi frenetico degli uomini che si fanno vittime di desideri faticosi.  Ci sono anche le gioie tranquille e spirituali di Amalia, la moglie scelta col calcolo del commercialista di successo, quale Serafino è prima di ritirarsi a non far nulla: una religiosità “mescolata a superstizioni sibilline e a un disperato bisogno di soddisfazione, di amore, di rassicurazione”. “Avrebbe idolatrato una lampada o un comò, pur di non sentirsi sola al mondo.” L’”intelligenza” che ha condotto l’uomo a una cosciente rinuncia a vivere è per la donna espressione della mente superficiale di un bambino da commiserare: “Già sei poco scemo tanto…”. Perché lei conosce benissimo il bisogno e la capacità di amare del marito e ne aspetta la conversione. Serafino “aspettava qualcosa che gli altri chiamavano felicità e che lui aveva invece stabilito che non si chiamasse  in alcun modo.” Arriva a pensare che l’apice della sua vita consista nella zuppa di pesce consumata a casa dei suoceri il sabato a pranzo nella casa di via Rossini. Amalia sa invece benissimo cosa sta cercando. L’amore e le sue dinamiche, per lei e per le altre donne, non hanno misteri. E’ presente in tutto quello che fa, ma l’attivismo caritatevole non è sufficiente a darle ciò che cerca. Sarà la negazione dell’amicizia, la condanna alla solitudine a spingerla alla ribellione contro un destino che appare segnato e all’atto disperato. Serafino trova nella solidarietà con una moglie che ha imparato ad amare il Dio che aveva sempre rifiutato e sbeffeggiato. Lui e lei sotto un segno apparente di follia. Un libro bello e strano, quest’ultimo romanzo di Alessandro De Roma. Strano come gli altri che sinora ha pubblicato, uno diverso dall’altro per temi, ambientazione, stile. Come se il piacere di narrare venisse prima di tutto e l’autore adeguasse agli stimoli fantastici vari modelli di stile. De Roma fa venire in mente i più grandi. “La fine dei giorni” creava un clima narrativo capace di ricordare Franz Kafka. Quest’ultima opera ci riporta alla migliore narrativa sarda.   La bravura, la strada per la grandezza di uno scrittore, consiste anche nella sua capacità di servirsi al meglio della lezione di chi ha dimostrato di essere grande prima di lui. “Il primo passo nel bosco” richiama la lezione di Salvatore Satta, il più grande degli scrittori sardi moderni. Un indizio dell’altezza a cui mira questo autore ancora giovane. Serafino e Amalia sembrano ripetere in un contesto diverso la fuga disperata di Gonaria, la maestra che ha perso la fede dopo la morte del fratello prete. Ma il riferimento è più profondo. E sta nella ripresa dello stile, l’essenza di una scrittura. “ La vita è tutto il mondo: ogni vita, un suo proprio mondo, che lotta per esistere, fino all’ultimo, smarrita, incredula, se vede o anche solo intuisce per un istante il suo antidoto. Che non c’è. Niente come la morte rende vivo un uomo.” Un’ultima osservazione: per la geografia e la storia della produzione letteraria in Sardegna e per un orgoglio di campanile, raramente utile, è il caso di sottolineare la recente vitalità dell’area oristanese, a cui, forse con qualche forzatura, possiamo associare Alessandro De Roma. Un territorio, quello della provincia di Oristano che, senza clamori, comincia a smentire la fama di sonnolenza messicana: Michela Murgia, Alessandro De Roma e autori che cominciano a pubblicare ad alti livelli, come Savina Dolores Massa, al suo secondo libro per Il Maestrale, e  Tore Cubeddu col recentissimo “Cisaus”  pubblicato da Transeuropa.  L’Arborea cantata da Sergio Atzeni nel suo ultimo romanzo, la terra della libertà, guardava a Occidente, verso le Baleari e la penisola iberica. Oggi lo sguardo delle giovani generazioni sarde può arrivare all’Europa e al mondo.

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