Competition is competition

16 Gennaio 2011

loi

Gianni Loy

La Fiat non è lontana da noi, sia ben chiaro! Affonda radici nell’emigrazione della seconda metà del secolo scorso, quando eravamo noi gli extracomunitari ai quali veniva negato l’alloggio e che però, nella catena di montaggio, facevano grande, assieme al subdolo aiuto statale che smontava strade ferrate e costruiva autostrade, il marchio Fiat. Se le seconde e terze generazioni conservano l’imprinting del proprio DNA iniziale, anche inconsapevoli, ancora siamo parte di quel fenomeno industriale, un tempo italiano, ed oggi multinazionale. Ma il tema, sia ben chiaro, non è la Fiat. Pomigliano e Mirafiori, in fondo, sono soltanto episodi di un fenomeno che li sovrasta e ci sovrasta. Sono le cause occasionali.  Perché è finzione, utilizzata a scopo didattico, ritenere che l’attentato ad un principe possa scatenare una guerra mondiale. Ben più profonde sono le cause ed i fenomeni che la provocano. Così è per la Fiat. Pomigliano e MIrafiori sono soltanto i luoghi dove, occasionalmente, incominciano a manifestarsi i tratti del DNA della società industriale prossima futura. E se è vero che tutti i cambiamenti epocali si manifestano per mezzo dei profeti, Marchionne è solo un profeta di tale cambiamento. Pomigliano e Miarafiori anticipano, semplicemente, quel prossimo futuro con il quale dovremo abituarci a convivere, caratterizzato dalla fine di un ciclo di Relazioni industriali e dall’apertura di un nuovo ciclo. Il ciclo che si chiude era caratterizzato da un modello improntato alla solidarietà. Il contratto nazionale di lavoro, infatti, ha (aveva) la funzione di socializzare tra tutti i lavoratori le condizioni di lavoro e di reddito che soltanto determinati gruppi, per vari motivi, potevano conquistare.  Nessuno poteva sottrarsi a tale regola e, semmai, mediante la contrattazione integrativa, gruppi di lavoratori potevano ulteriormente migliorare le proprie condizioni di lavoro. E’ chiaro che non soltanto la Fiat, ma qualsiasi impresa che sia in grado di contrattare al ribasso, proseguirà lungo tale strada. Il contratto nazionale di lavoro, oltretutto, viene normalmente recepito dalla giurisprudenza come trattamento minimo obbligatorio anche per tutti i lavoratori di imprese non iscritte al sindacato datoriale e quindi, non obbligate ad applicare un contratto collettivo di lavoro. Cosa ne sarà dello stuolo di dipendenti da piccole e piccolissime imprese se verrà meno quella tutela che, in Italia, fungeva da equivalente del salario minimo garantito previsto da altri ordinamenti? Il ciclo che si chiude era caratterizzato da una solidarietà tra i lavoratori simboleggiata quantomeno da una patto di azione comune, dalla sottoscrizione unitaria dei contratti collettivi da parte delle principali sigle sindacali, che conferiva forza alle organizzazioni sindacali. In alcuni settori questo modello è ormai tramontato. Sostituito da un sistema di competizione tra sindacati che tentano di primeggiare e di conquistarsi l’accreditamento presso il padrone. Il tutto somiglia fortemente al modello anglosassone e nord-americano dove, nei modelli più spinti si può arrivare all’obbligo del datore di lavoro di assumerne solo lavoratori affiliati al sindacato vincitore. La formula proposta in Fiat di impegnarsi a non contestare gli accordi sottoscritti del sindacato maggioritario, ad esempio non scioperando, è già propria di questa diversa concezione. Il ciclo che si chiude era caratterizzato da un interventismo statale che fissava, per legge, garanzie minime nelle condizioni di lavoro. L’attuale tendenza è quella della “deregolazione”, il ritiro della legge per lasciare alla contrattazione collettiva il potere di disporre delle condizioni di lavoro. “Se otto ore vi sembran poche” cantavamo un tempo. E finalmente le legge sulla durata massima della giornata lavorativa, imposta direttamente dalla Costituzione repubblicana, è arrivata. Otto ore al giorno, quarantotto settimanali. Poi è arrivata la deregolazione. Oggi la durata massima della giornata lavorativa è di 13 ore, quella quella settimanale di 72 ore! E chi l’avrebbe mai detto? E’ chiaro che si tratta di una vera e propria rivoluzione del sistema di relazioni industriali che comporta, fatalmente, una riduzione dei diritti. Un ‘operaio che piangeva, ai cancelli della fabbrica. Ma ho visto anche un altro operaio, con un cartello in mano. Su quel cartello c’era scrittoi: “Per il lavoro, per il reddito, per i diritti, vota Si”.  Mi ha impressionato ancor di più. Avrei capito per il lavoro. Potrebbe essere persino nobile, o quantomeno giustificato, abdicare a qualche diritto, cedendo al ricatto, per potersi sfamare. Ma arrivare a dichiarare  che quell’accordo migliora il reddito e difende i diritti, è veramente penoso. Dimostra lo stato di degrado culturale e morale verso il quale ci avviano. Ho esordito dicendo che Pomigliano e Mirafiori sono soltanto episodi di un radicale mutamento del sistema di relazioni industriali in atto. In realtà, neppure il sistema paese è più significativo. Più rilevante ancora è il sistema globale. Quella globalizzazione di cui abbiamo parlato a lungo anni orsono e che adesso, che non parliamo più della teoria)  va producendo i suoi effetti. Diciamocelo spassionatamente. Perché mai il signor Marchionne, che è tutto tranne che un patriota, tutto tranne che un italiano, dovrebbe tenere aperte le sue fabbriche in Italia nel caso che, spostandole altrove, sia in grado di produrre un profitto più elevato? Eè ovvio che la risposta va cercata senza utilizzare categorie morali o, men che meno,  patriottiche. E vero o no che viviamo all’interno di un ordinamento sovranazionale che vieta con rigore gli aiuti di Stato? E’ vero o no che la competizione non guarda in faccia nessuno? Prodi, non Berlusconi, l’aveva riconosciuto da tempo: “competition is competition” affermava, a suo tempo, in perfetto vernacolo inglese. In altri termini: Si sta compiendo, con la globalizzaizione, quanto molti hanno fortemente, voluto, altri auspicato, altri convenuto (magari solo per sentirsi à la page), altri sopportato considerandolo un male minore.  Magari non tutti immaginavano che questi potessero essere alcuni degli effetti. Ma del resto, se persino all’interno del PD si trova chi non solo subisce, non solo conviene, non solo auspica, ma addirittura sembra fortemente volere un Accordo come quello di MIrafiori, evidentemente ci troviamo di fronte ad una rivoluzione che interessa la cultura e le coscienze assai più profondamente di quanto non possa apparire a prima vista. E noi che pensavamo che il valore della solidarietà fosse stato acquisito in maniera definitiva. Non mi riferisco solo alla Fiat, ma anche al rapporto tra la nostra terra ed altre comunità socio-politiche, per ora inserite all’interno dello Stato italiano, che si accingono a “governarci” con gli strumenti del federalismo.

2 Commenti a “Competition is competition”

  1. Giulio Angioni scrive:

    Toni Negri sostiene che il capitalismo oggi con l’informatica valorizza tutto intero l’uomo, anche le sue capacità intellettuali e relazionali, utili per la produzione di quelle merci particolari che sono le informazioni. Ma le merci cognitive non si producono da sole, come nemmeno i macchinari della fabbrica si producono da soli, anche quando a produrli sono altri macchinari o altre merci cognitive come i programmi per i computer. Dietro le merci, materiali o immateriali, e oggettivato in esse c’è sempre il lavoro umano, fisico e intellettuale. La scomparsa della classe salariata dei lavoratori-operai è purtroppo solo un miraggio: sono cambiati solo i luoghi e le modalità del lavoro, e dello sfruttamento dei lavoratori. Quando il lavoro nelle fabbriche non è stato delocalizzato (sempre di operai si tratta, anche se di altre nazioni più povere), esso è stato frantumato, subappaltato, esternalizzato, precarizzato, allargando progressivamente la fascia dei lavoratori non garantiti, spingendo i lavoratori nel lavoro nero, senza contare lo sfruttamento anche di tipo schiavistico degli extracomunitari senza permesso di soggiorno, ultimi fra gli ultimi.

  2. Marcello Madau scrive:

    Le osservazioni di Giulio portano entro la cosiddetta globalizzazione (e ne fa riferimento Gianni nel suo pezzo). Pur sempre, il lavoro trasforma compiutamente la conoscenza in merce.
    Condivido la critica a Negri, le cui riflessioni sono comunque preziose perché pongono nello scenario un soggetto sottovalutato dalla cultura rivoluzionaria. La possibilità di orientare il lavoro della conoscenza verso valori d’uso collettivi è resa molto più potente dall’informatica. A fronte di parcellizzazione e delocalizzazione delle produzioni materiali e immateriali, si possono costruire relazioni simultanee ‘orizzontali’ di informazioni e saperi.
    L’informatica credo sia ancora soprattutto strumento (se pure la via è avviata, Matrix resta un film), e il cyborg non realizzato appieno, almeno a livello di massa. Ciò che è uno strumento di conoscenza collettiva immediatamente gestibile con grande forza per via della velocità, e anche del software libero, per i più è traccia di una separazione assai severa del produttore dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalla destinazione delle ‘merci’ connesse.
    Credo che i lavoratori della conoscenza siano vicini alla formazione del potere più di una volta: ma la produzione primaria e la materialità dei beni ancora compongono il punto centrale dell’economia (penso oggi a cibo, energia, vestiario, farmaci). Spero che il ‘cognitariato’ e i suoi teorici non si chiudano in maniera ‘aristocratica’ alle relazioni con tutto il mondo del lavoro: qualche segno in questo senso appare.

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