Abitare la canapa

16 Dicembre 2015
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Cristina Ibba

In Italia, e soprattutto in Sardegna, edificare, negli ultimi cinquant’anni, è stato sinonimo di cementificare, di utilizzo smisurato di energia, di produzione eccessiva di rifiuti, di uso sconsiderato d’ acqua e di produzione massiva di anidride carbonica.

Per fortuna però c’è anche chi pensa che le micro soluzioni siano meglio delle grandi conferenze, chi crede che ambiente e sviluppo possano andare d’accordo, perchè lo sviluppo non è necessariamente legato ad un consumo bulimico di energia e di territorio.

Sono quelle donne e quegli uomini che dopo cinquant’anni ritornano a coltivare e a lavorare la canapa sativa. Si proprio quella canapa che i più conoscono al massimo per averla fumata in qualche spinello. E invece intorno al 1940 l’Italia era il secondo produttore mondiale di canapa dopo l’Unione Sovietica e fino alla metà del secolo scorso se ne coltivavano circa 100.000 ettari all’anno.

Il primo tessuto rinvenuto 5.000 anni fa era di canapa, così come la prima Bibbia stampata o le vele e le funi delle caravelle di Cristoforo Colombo. Con la fibra plastica derivata dalla canapa Henry Ford costruì la carrozzeria delle prime automobili. Erano di canapa i primi jeans, portati sul lavoro dagli operai del porto di Genova e poi passati ai cowboys americani.

Una volta, in Sardegna , nei nostri paesi, quasi tutta la biancheria di casa e l’abbigliamento erano di canapa. Gran parte dell’antica biancheria fine conservata nelle case e ritenuta di lino, in realtà è di canapa fine. La canapa è sempre stata utilizzata anche come materiale da costruzione mischiata all’argilla o alla calce. Poi il lungo periodo della proibizione, ma soprattutto la concorrenza con le fibre sintetiche ha fatto scomparire la canapa dai nostri campi.

Dal 2002 alcune circolari ministeriali consentono la coltivazione come negli altri paesi europei. Le sementi devono essere certificate e contenere una percentuale di tetracannabinoidi (THC) inferiore allo 0,2%. Da allora la produzione in tutt’Italia si è diffusa a macchia d’olio perché la canapa cresce praticamente ovunque e non richiede l’uso di concimi e diserbanti, anzi migliora la fertilità del terreno perché rilascia azoto. Da più di dieci anni anche in Italia operano aziende che utilizzano la canapa nel campo alimentare, erboristico, cosmetico, tessile e soprattutto edile.

Un’azienda brianzola ha ideato il bio-mattone assemblando la parte legnosa dello stelo di canapa (il canapulo) con la calce. Ha ottenuto un materiale rigido e leggero ottimo come isolante termico sia nella stagione fredda che nella stagione calda. Ha realizzato un materiale totalmente biodegradabile che, a fine vita, si può lasciare nel terreno o addirittura può essere reimpastato con acqua e calce per produrre nuovi mattoni. Con la fibra di calce invece vengono realizzati cappotti isolanti o intonaci a base di calce.

Un’azienda marchigiana è oggi una delle poche al mondo ad aver reintegrato l’olio di canapa, che in questo caso è di origine italiana, per produrre smalti, protettivi e impregnanti per legno, anche in questo caso recuperando una tradizione in uso fino alla metà del secolo scorso, quando gli oli di origine petrolifera, più scadenti, ma più economici, presero il sopravvento.

Qualche anno fa vicino agli impianti dell’Ilva di Taranto, dove vige il divieto di pascolo e di coltivazione per rischio diossina, è stata seminata la canapa. Si tratta di un progetto di ricerca e sperimentazione sulle enormi potenzialità di “fitorimediazione“ sui suoli contaminati dai metalli pesanti. Sono stati avviati simili interventi di risanamento in altre zone d’Italia pesantemente inquinate come Porto Marghera in Veneto, la terra dei fuochi in Campania, la Val d’Agri in Basilicata e in diverse province pugliesi presso centrali termoelettriche e discariche.

Vicino a Pisa un’azienda sta portando avanti un progetto per l’utilizzo della canapa come unico componente nella realizzazione di complementi d’arredo a km 0: mattonelle per rivestimenti, mobili, porte, arredi e paratie per imbarcazioni, interpareti da ufficio, naturalmente tutto privo di formaldeide e realizzato con canapa coltivata in loco.

Molte di queste attività sono sostenute ed incentivate dalle amministrazioni locali, attente alle buone pratiche e a promuovere uno sviluppo che salvaguardi il territorio e le sue tradizioni, creando una filiera agricola sostenibile e virtuosa che unisca aspetti altamente ecologici a quelli di un’ampia duttilità di impieghi.

Pur essendo un campione di sostenibilità, la canapa non è ancora sostenibile dal punto di vista economico dal momento che scarseggiano gli impianti di prima trasformazione, necessari per separare la fibra dal canapulo. Infatti gli unici impianti esistenti in Italia si trovano solo dove le amministrazioni regionali si sono fatti carico del costo per l’acquisto (Piemonte e Puglia).

In Sardegna la coltivazione della canepa riguarda più di 30 ettari distribuiti tra Sassari, Trexenta, Sulcis, Medio e Basso Campidano. Ho incontrato Martino Orrù, uno dei ricercatori del progetto “ Prospera” che si occupa di monitorare la fisiologia delle piante e la sua risposta nei terreni del basso Campidano perchè le uniche sementi certificate arrivano dalla Francia .

Noi facciamo tutto a mano” dice Orrù “dalla raccolta alla separazione dalla fibra, come si faceva una volta. Anche se il lavoro manuale è duro, siamo affascinati dalle infinite potenzialità di questa pianta”. A Guamaggiore un laboratorio alimentare all’avanguardia produce pane e pasta con grano Senatore Cappelli e canapa sativa coltivata in Sardegna in assenza totale di sostanze chimiche e pesticidi.

L’associazione Assocanapa Sardegna ha come obiettivo quello di arrivare a coltivare almeno 100 ettari per il prossimo anno, ma soprattutto di far conoscere le grandi opportunità che la canapa fornisce sia in termini di lavoro che in termini di qualificazione ambientale. Insomma bisogna reimparare tutto daccapo, ma ne varrà sicuramente la pena, perché si deve proprio dire: è una pianta che ha dello stupefacente.

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