Onore al merito

16 Ottobre 2011

Marcello Madau

Leggere ‘Contro la meritocrazia’ di Nicola da Neckir (edizioni la meridiana, Lecce 2011, dodici euro) è stata un’esperienza appagante, e più lunga del previsto. E’ infatti un libretto di sole ottantun pagine, ma ogni capitolo merita una sosta e regala una delle situazioni più sovversive oggi possibili: prendersi tempo per pensare e riflettere.
Anche mettere in discussione luoghi comuni che si vogliono far passare per realtà obiettive nell’Università, come efficacia, efficienza, aziendalismo e criteri di produttività, è operazione poco meno che sovversiva. Come il coraggio dell’autore di prendere questa patata bollente fra le mani, esporre se stesso, e soprattutto il proprio alter ego, al compito di entrare in spazi che la politica, il degrado del sistema pubblico dell’istruzione e l’ignoranza al potere rendono più stretti della cruna di un ago.

Fra le tante emozioni intellettuali alle quali mi espone la mia pelle non sufficientemente corazzata verso di esse, in queste settimane ne ho provate due molto intense e in qualche modo associate: questa di Nicola da Neckir e del suo alter ego Arnaldo Bibo Cecchini, stimato docente universitario e animatore di movimenti colti e attenti all’ambiente, che parla delle sue origini popolari, e quella – su un versante direttamente politico – di Giovanni Cocco, segretario sassarese dei comunisti italiani che imposta la sua relazione congressuale esplicitando ugualmente le sue origini e il suo precariato, unito a quello di milioni di persone di una generazione devastata.
Ambiti e contesti diversi, due vite ambedue universitarie che cercano un ragionamento critico verso la società, impegnandosi in direzione di una sua modifica profondamente democratica.
E questa direzione la trama del libro di Nicola la traccia con ragionamenti e referenze bibliografiche preziose. Mettendo subito alla berlina un aziendalismo che nell’Università pubblica non dovrebbe esserci, poiché essa dovrebbe servire “a formare persone autonome per una società più equa e prospera”.
O la valutazione – che pure va fatta – dell’attività di insegnamento, che non può essere misurato facilmente neppure dal numero delle pubblicazioni, talora esercizi ginnici che possono nascondere la ripetizione e il vuoto, l’assenza di qualità attraverso la grafomania. Una prassi ben nota, aggiungo, a non pochi fra i ‘maestri’ più potenti. Con tante storture collegate: i criteri di valutazione, il mito dell’efficienza, l’incapacità di un sistema a far emergere chi non tiene conto in maniera ‘normale’ delle tracce stabilite dal potere.
Convince anche la critica ai parametri dello sviluppo, alle schede di valutazione degli studenti sui docenti.
Ma tre cose mi hanno particolarmente colpito, fra il numero altissimo di spunti, ragionamenti e riflessioni: l’accenno all’importanza di insegnare e stabilire relazioni ampie con studenti e persone, la smitizzazione del chiudere puntualmente con anni ed esami (stare nell’Università, anche studiando molto, è qualcosa di più) e, soprattutto, l’apprezzamento della scelta che non si lega a sbocchi immediati di mercato.
La cosa che amo maggiormente nell’istituzione dove insegno, l’Accademia di Belle Arti, è la presenza di centinaia di persone che scelgono un duro obbligo di frequenza senza sbocchi immediati di mercato. Che non significa non pensare al domani come l’antico figlio dei fiori cantati dai Nomadi, ma seguire la passione e cercare di adattare l’oggi e il domani ad essa. E’ un piacere che percepisco costantemente, del quale sono grato a chi fa queste scelte.
Non c’è capitolo che non stimolerebbe una discussione allargata, un convegno, uno studio. Anche i più brevi. Non tutti li condivido pienamente, ma questo poco importa. Ne faccio cenno a puro scopo dialettico: non mi convince del tutto il ridimensionamento del nepotismo, anche se il ragionamento è molto interessante e controcorrente. E, nel simpatico glossario curato (la voce straniero è incisiva: 1. sinonimo di qualità scientifica, specchiata onestà, chiara fama; 2. sinonimo di clandestino,ladro, nera fame. La scelta fra 1 e 2 dipende da quale Ministero se ne occupa.), tra il serio e il faceto, da Azzena e Rendeli, dire che il clientelismo non esiste lo vorrei prendere per ‘faceto’, come il suggerire che il vero baronato non c’è più. Magari. Lo accolgo come una bella speranza e certamente come un auspicio.

Infine, la tensione nel proporre il ruolo dell’istituzione universitaria verso la società. Credo che questo sia un aspetto essenziale per le nostre battaglie culturali e politiche, meritevole di ulteriore approfondimento.
Penso ad una Università al servizio del territorio e dei suoi reali bisogni, in funzione dei saperi come diritto universale e dei beni comuni: mi ricordo il magistero del mai abbastanza rimpianto Giulio Maccaccaro. Universitas in grado di riconoscerne le esigenze, più che staccare parcelle (credo infatti che sarebbe molto opportuno scegliere fra attività professionale extra universitaria e insegnamento universitario). O fuori o dentro le mura.
Leggere i ragionamenti di Nicola da Neckir è un balsamo di razionalità e democrazia. Ci costringe a ragionare a fondo sul merito, e criticare in modo appropriato la meritocrazia, cogliendone il senso. Mi ricordo una bella frase della ‘Critica al programma di Gotha, di Karl Marx: “Ciascuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Non sono sicuro che si debba rinunciare, come molti pensano in questa fase così difficile, a riprendere una discussione ed una battaglia su questi temi. Anzi, penso che di nuovo ‘siamo solo all’inizio’. Altrimenti non avrei neppure provato – con una modestia della quale mi scuso – a recensire questo prezioso libretto.

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