Del Femminismo, a modo mio

20 Marzo 2023

[Luana Seddone]

Era il settembre del 1791 quando Olympe de Gouges pubblicò un testo all’avanguardia: la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina che fu giudicata eccessiva e scandalosa.

Costituisce un’imitazione critica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, elenca i diritti validi solo per gli uomini, il testo denuncia la mancanza di libertà e chiede il riconoscimento di una serie di garanzie ed opportunità che rendano effettivi i principi della Rivoluzione anche per le donne. L’autrice vi difende, non senza ironia, la causa delle donne, scrivendo che «La donna nasce libera e ha uguali diritti all’uomo». Il suo appello cadde nel nulla, tra l’ostilità degli uomini e la totale assenza di solidarietà delle donne che temevano di dispiacere ai mariti da cui dipendevano economicamente. Inutile il richiamo inserito nel testo: “O donne, donne! Quando cesserete di essere cieche? Quali vantaggi avete ottenuto dalla Rivoluzione?”.

In poche si unirono alla sua battaglia e per Olympe fu una cocente delusione. Criticò alla Rivoluzione francese di aver dimenticato le donne nel suo progetto di libertà e di uguaglianza. In seguito, Robespierre proibì le associazioni femminili, chiuse i loro clubs ed i loro giornali, mentre Olympe de Gouges veniva ghigliottinata nel novembre 1793 «per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso» ed «essersi immischiata nelle cose della Repubblica».

Ognuno di noi ha un’opinione e una percezione degli avvenimenti e, spesso, tale visione e percezione sono un’evoluzione del proprio vissuto. Se dovessi pensare in maniera automatica, mi verrebbero alla mente folle di donne che si oppongono a limitazioni e prevaricazioni e sono urlanti, arrabbiate, sfogano repressioni, umiliazioni e vessazioni subite da secoli. I capelli di queste donne ondeggiano come i loro cuori, non importa se siano corti o lunghi, sono un simbolo.

Non si possono esporre i capelli, non si portano sciolti, non si accarezzano, inducono alla tentazione, eppure sono dei fili che tessono una trama, che imprigionano ricordi, di lunghe trecce, di colore, di veli. Le donne femministe non vogliono il velo, è una costrizione inventata da uomini che hanno paura della forza dei capelli.

Eppure il capitalismo è riuscito a trovare vie d’accesso anche nella costrizione: “Molte donne velate hanno voluto superare la frustrazione di non riuscire a trovare dei completi che soddisfacessero il loro desiderio di pudore senza essere noiosi e mortificanti» commenta la giornalista Faïza Zerouala, autrice di Des voix derrière le voile (Ed. Premier Parallèle) «Si è così sviluppata anche una forma di impresa musulmana e femminile». Per questo si sono moltiplicati i siti sul web: Autourduhijab, Inès à Paris, Misstoura e Hijab Glam. E molte ragazze velate e sofisticate hanno dato vita a blog piuttosto seguiti: sono soprannominate “mipsterz” (musulmane hipters)oppure “hijabistas” (fashioniste dell’hijab).

Utopisticamente le donne dovrebbero essere tutte femministe, solidali tra loro, combattenti e unite in una lotta che le porti alla liberazione da un fardello di disuguaglianze che le perseguita, le costringe in ruoli nei quali non si sentono bene, in pantomime nelle quali devono apparire caritatevoli e misericordiose.

Quella pantomima che le vuole mute, sinuose, guidate da voci fuori campo.

Le donne femministe non odiano gli uomini, vogliono percorrere lo stesso cammino ma il loro è irto, acciaccato, sono stanche, sono morte combattendo, si sono trascinate per la fatica, hanno lividi e fratture, sono delle Eleonora, illuminate, lungimiranti ma sono anche persone che in un modo o in un altro intraprendono la via del raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Le donne combattono perché non si sentono libere, non lo sono quanto gli uomini, non lo sono nella loro testa, non lo sono nella vita, muoiono perché sono donne.

Come Virginia Woolf sono dilaniate dalla voglia irrefrenabile di affermare con decisione la propria libertà e di esprimere fortemente il dissenso verso i costrutti sociali, letterari e politici ma avvertono in modo schiacciante le pressioni, le dinamiche restrittive che, inevitabilmente, costituiscono un tormento.

Non è necessario pensare ai paesi oltranzisti, la repressione è molto più vicina, è silenziosa per chi non la vuole ascoltare, è presente nei volti, nelle frasi sussurrate, nella paura serpeggiante, nel dolore e nel terrore che avvolge e sconquassa condizionando vite presenti e future.

È a questo punto che dovrebbe entrare in gioco l’identificazione tra donne, il bisogno di rivendicarsi uno spazio tutto per sé e di lottare per una dimensione soggettiva che ha come unica regola la libertà individuale, scissa dall’immagine maschile.

Le donne non siano delle Medusa, possedute e violentate, condannate dalle altre donne in mostri, metà-donna metà-serpente con zanne di cinghiale, con in testa un groviglio di serpi sibilanti; e uno sguardo, talmente terribile da poter trasformare in pietra chiunque le guardi negli occhi.

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