«Fra tanti cambiamenti, non posso che essere sempre quello». Un Bildungsroman

3 Marzo 2020

Aldo e Glauco sul balcone di casa Braunschweigh a Strasburgo 1939

[Annamaria Loche]

Non è certo un romanzo quello che viene raccontato e documentato in Aldo Natoli, Lettere dal carcere (1939-1942). Storia corale di una famiglia antifascista (a cura di Claudio Natoli, con la collaborazione di Enzo Collotti, Viella, Roma 2020, € 39), ma è certamente la narrazione di un processo di formazione, che si snoda attraverso le 170 lettere inviate da Aldo Natoli ai familiari nei tre anni della sua carcerazione, ma  che si precisa meglio nell’Introduzione al volume, dalla cui lettura non si può prescindere, scritta dal figlio Claudio, e nella Testimonianza del nipote Enzo Collotti, che con efficaci parole ci offre i suoi ricordi degli anni di prigionia dello zio. Dalle pagine di Enzo Collotti traspare quella che egli stesso definisce «la quotidianità della famiglia di un detenuto politico» (p. XLIX); sono pagine che, con gli occhi di un bambino e poi di un pre-adoloscente, ci illuminano su alcuni aspetti che altrimenti potrebbero sfuggire, quali il valore delle “lettere settimanali” che divennero – osserva Collotti – «il filo conduttore intorno al quale ruotava la vita della famiglia», venendo a costituire, insieme ad altri momenti (la preparazione dei pacchi, ad esempio), «un vero e proprio sodalizio familiare» (p. L). Il volume contiene anche una biografia particolareggiata di Aldo Natoli e più brevi bibliografie dei membri delle famiglie Natoli e Collotti (i destinatari delle lettere; biografie molto utili per inquadrare quanto si legge nel libro) e riporta numerose fotografie della famiglia e degli amici.

Aldo Natoli a Castelgandolfo, agosto 1938 © foto di Lore Popper

Il processo di formazione, come suona il titolo dell’Introduzione, descrive “un percorso di vita nella storia di un’intera generazione”. E di tale percorso questo libro è senz’altro importante ed efficace testimonianza; tuttavia, significativamente, è, in particolare, la storia della formazione di Aldo Natoli, nel rapporto con sua famiglia, negli scambi epistolari con la fidanzata Mirella de Carolis (poi sua moglie), nelle amicizie, negli squarci della vita in carcere. Il valore di tutto questo, se ben lo si coglie dalle lettere, è reso più chiaro – come preciserò meglio in seguito – dall’Introduzione, senza la quale il senso effettivo della raccolta non si potrebbe comprendere a fondo. Infatti la formazione di Aldo Natoli si conclude in quella che i curatori hanno definito “L’Università del carcere”, ma ciò che avviene prima, i gradi precedenti di “scuola” (per riprendere la metafora) sono essenziali per capire come Natoli – certamente insieme a  tutta una generazione – abbia maturato il suo antifascismo.

Aldo Natoli fa parte di una famiglia composta da persone colte e sensibili, dai genitori ai figli, fino, in seguito, ai parenti acquisti e ai “bambini”, i figli di Elsa. Egli stesso è persona di alta cultura, non solo nel campo a lui specifico (era allora un giovane medico), ma per le vaste e variegate letture di cui ci dà conto nelle lettere, riferendo e discutendo con i suoi e in particolare con il fratello Ugo. Se dovessi riportare i titoli delle opere e gli autori che cita (da Hobbes a Vico, da Kant a Hegel, da Croce a Gentile, da Shakespeare a Höderlin, da Dante a Goethe, da Omero a Virgilio, tanto per indicare solo alcuni nomi) occuperei moltissime righe di questa recensione; ma la sua cultura va anche oltre e colpisce la forte nostalgia per la musica che in carcere non può certo ascoltare: «ho un immenso desiderio di sentire della musica; se potessi scegliere: una Partita per violino solo di J.S. Bach, forse perché la sento vagamente dentro di me, ma non riesco mai a ricordarne neanche una nota» (p.289), scrive in una lettera dell’aprile del ’42. Questa cultura traspare anche nelle brevi, ma efficaci, persino poetiche descrizioni di ciò che “del mondo di fuori” può percepire nell’ora d’aria e osservando il cielo, per quel poco che lo si può vedere dalle grate della cella: descrive spesso le nuvole, il volo degli uccelli, ma anche, con una punta di paradossale nostalgico struggimento, «il rosaio che non vedrò più rifiorire», il muschio che «copre la carie dei muri corrosi» (p. 340), come si legge in una delle ultimissime lettere (19 novembre 1942), di pochi giorni precedente la sua liberazione.

Aldo Natoli e Enzo Collotti a Grammichele, 1935

La cultura di base si arricchisce in carcere anche per i contatti con i compagni di prigionia, di cui ci dà conto l’Introduzione, che ci dà anche conto di quella cooperazione e reciproca assistenza che era stata organizzata nel “collettivo” dei compagni comunisti, dove la distribuzione e il godimento dei beni materiali (il contenuto dei pacchi) e intellettuali (le conoscenze e competenze) erano rigidamente organizzate, parimenti ai compiti di pulizia del camerone. Ma di questo Natoli nelle lettere ovviamente non parla, e non parla neppure dei sacrifici e della fame sempre maggiore, se non negli ultimi mesi di detenzione, quando peraltro anche la situazione di tutto il Paese si era fatta, sotto questo punto di vista, più dura. La sua preoccupazione costante è quella di tranquillizzare i genitori, Mirella, i fratelli delle sue buone condizioni fisiche e della forza del suo animo, di sottolineare il suo buono stato di salute, di ribadire la sua voglia di leggere e studiare.

Ciò che negli scritti viene invece costantemente richiesto e atteso con vera bramosia è l’arrivo delle lettere dei suoi e delle scadenze per le visite quindicinali, che, fino al momento in cui la famiglia non si trasferì a Roma, erano soprattutto quelle del fratello Ugo e della fidanzata. La sofferenza di Aldo è evidente quando non riceve posta e quasi ogni lettera inizia con l’elenco di che cosa, lettere o cartoline, ha ricevuto nella settimana; è evidente nella sua richiesta di lettere ai nipoti Collotti (Giuliana, Clelia ed Enzo) e nella soddisfazione che palesemente prova ogni volta che Enzo gli manda i suoi disegni. Soddisfazione che non gli impedisce di fare delle osservazioni critiche ai bambini, dei pacati rimproveri quando non gli scrivono, né gli impedisce di esprimere il suo dissenso su alcune scelte compiute dagli adulti.

Tuttavia, il tema più interessante è proprio quello della Bildung.

In proposito, tra le tante, vorrei ricordare due frasi, tra loro in contraddizione solo apparente. Sono entrambe presenti in lettere indirizzate a Mirella. Non sono molte le lettere inviate alla fidanzata, anche perché è colei che più di tutti gli altri, insieme a Ugo, poteva andare a trovarlo durante i colloqui, come già ho accennato. Ma le lettere a Mirella sono quelle in cui il giovane Natoli si mette maggiormente in discussione e riflette su se stesso, esaminando il rapporto con la fidanzata, prima e durate la sua detenzione.

Il 23 febbraio del 1942, Aldo si chiede se e in che senso egli sia mutato durante il periodo della prigionia e conclude che il mutamento maggiore che gli sembra di aver subito consiste, scrive, «in un certo placamento della mia capacità di entusiasmo, di “Schwärmerei”, di generica esaltazione e di intimi rapimenti». Registra, quindi, una variazione non di poco peso nel suo modo di rapportarsi con il mondo: «Insomma – continua – forse mi ritroverai più sulla terra e meno nel cielo»; e cita il Faust: «A chi sa guardare questo mondo non è muto» (p. 273). In questi brani della lettera del febbraio del ‘42, dunque, Aldo Natoli vede in sé un cambiamento, una maturazione che lo allontana, almeno in parte, dagli ideali e dai principi troppo astratti degli anni precedenti il 1939.

In una lettera successiva (2 aprile 1942), nel discutere del loro futuro insieme, da un lato, preoccupandosi degli umori di Mirella e, dall’altro, invidiando, sebbene non esplicitamente, il suo chiaro venire «da fuori, dal vento», come un uccello reduce da «un volo lungo», conclude così: «Vecchi motivi, dirai, quest’uomo è sempre lo stesso. È vero, fra tanti cambiamenti, non posso che essere sempre quello» (p. 284).  Se dunque il mutamento, il cambiamento c’è, c’è stato, lo “zoccolo duro” della sua personalità ha resistito e semmai, si potrebbe concludere dalla lettura complessiva delle lettere, si è rafforzato, ha trovato nuove basi.

Tuttavia per capire bene questo processo di formazione, è necessario soffermarsi sulla ricostruzione che della vita del padre fa Claudio Natoli nell’Introduzione, che va dalla nascita a Messina il 20 settembre del 1913, all’uscita dal carcere alla fine del 1942.

Nel percorso lungo gli anni di “istruzione” precedenti all’Università del carcere, vengono delineati in primo luogo i tratti dei genitori di Aldo Natoli, il padre Adolfo e la madre Amelia Oriolo: ne emerge il ritratto di una coppia borghese di alta cultura. Adolfo Natoli, professore di lettere e cultore di filologia classica, interpretò la sua professione come strumento «per l’elevazione culturale degli alunni, soprattutto se di famiglia disagiata» (p. VIII); l’aria che si respira in famiglia è serena e aperta, anche quando i piccoli Natoli (Aldo nasce nel 1913 e Ugo nel 1915) e i due maggiori, (Elsa, 1906, e Gluaco, 1908) cominciano a crescere nel clima del fascismo. Per converso, l’influenza culturale di Adolfo, vociano e gobettiano, si fa più forte. La cultura letteraria, lo studio del tedesco sono strumenti che derivano direttamente dal padre e di cui i figli seppero far ottimo uso.

Durante il liceo, Aldo si appassionò al greco e al latino, e, negli anni successivi, alla storia e alla filosofia, insegnatagli da Francesco Collotti, che in seguito sposò Elsa. L’insegnamento di Francesco Collotti fu fondamentale perché «conteneva un implicito messaggio, e cioè il richiamo alla libertà e all’autonomia della cultura e alla serietà degli studi», cosa che Aldo nelle lettere raccomanda anche ai nipoti Collotti, sebbene a un certo punto li inviti a non esagerare nel ricercare successi scolastici e a dedicarsi anche ad altri interessi. Ma il messaggio del giovane professore trasmetteva anche l’esigenza di una «presa di distanza dai miti, dai riti, e dalla retorica bellicistica e autocelebrativa del regime» (p. IX). Sono qui rinvenibili i segni del primo a-fascismo di Natoli, a-fascismo destinato ad andare molto oltre nella critica al e nel rifiuto del regime.

Negli anni del liceo, Aldo maturò anche quegli interessi scientifici che lo portarono a iscriversi e a laurearsi in medicina; completò i suoi studi a Roma, dove cominciò a esercitare la professione ospedaliera, professione che lo coinvolge fortemente, come è dimostrato anche dal fatto che nelle lettere si trovano spesso indicazioni e consigli medici, rivolti soprattutto, ma non solo, ai genitori e molti sono i libri di medicina che chiede di avere a fianco degli altri, cui si è fatto più sopra un breve accenno.

Il trasferimento a Roma per frequentare l’università segna una svolta decisiva nel percorso di Natoli, a partire dalla frequentazione della famiglia Lombardo Radice, nella cui casa, «quasi naturalmente una libera isola di incontro e di confronto intellettuale» (p. XI), si ritrovavano antifascisti e “non allineati”. Avviene in tal modo il primo contatto di Aldo e del fratello Ugo con un antifascismo più marcato;  e queste nuove relazioni costituiscono l’occasione, per un verso, perché maturi il passaggio dall’a-fascismo a un sempre più convinto antifascismo; per un altro, perché, un po’ più tardi, si apra la porta di ingresso al marxismo e al comunismo.

L’amicizia con Lucio e Laura Lombardo Radice, con Giaime Pintor e molti altri è un altro tassello fondamentale nella formazione di Natoli, in un percorso che nell’Introduzione è definito come originato «non già da una scelta di tipo ideologico, bensì da un’inquietudine e da una ripulsa […] di tipo esistenziale» (p. XIII), da un’esigenza di riscattare quella dignità personale che il fascismo opprimeva. Per questo, oltre le letture (sia politiche sia letterarie) e le discussioni, avevano un gran ruolo presso il gruppo di amici attività come le gite in gruppo (che anni dopo dettero ad Aldo l’occasione di conoscere Mirella De Carolis) e la frequentazione dei concerti di musica classica.

Tuttavia, la ribellione morale al fascismo e il rifiuto della sua rozzezza va assumendo caratteri diversi, sempre più ideologici e politicamente partecipati, a partire dal 1935, con la conoscenza e il rafforzarsi del rapporto con Bruno Sanguinetti, rapporto complesso, ma molto fruttuoso per Aldo che sotto l’impulso dell’amico, più grande di lui di alcuni anni, fu instradato alla lettura di Malraux, di Gide, e, poco dopo, del Manifesto del partito comunista e di Labriola. Alla formazione di Natoli contribuì, poi, in maniera decisiva, la guerra civile spagnola, che indicò a lui e al suo gruppo di amici «una via d’uscita dalla cappa soffocante del regime fascista» (p. XVIII) e da lì si originò la forte esigenza di iniziare a impegnarsi direttamente e seriamente nella politica attiva, cui contribuì la conoscenza e frequentazione della famiglia Amendola. In questa sede non è possibile ripercorrere tutto il panorama che l’Introduzione offre della formazione di Natoli fino all’arresto, ma mi sembra importante sottolineare, come vi si legge, che quello di Aldo e di molti dei suoi amici fu un antifascismo «inteso in senso umanistico e universalistico» che li avvicinò al comunismo; il processo non fu, cioè, da comunismo all’antifascismo, cosa che – scrive Claudio Natoli – «costituisce il tratto più originale di questa generazione»  (p. XXI).

A partire dal 1938, nascono i primi contatti con il PCdI; la relazione con il partito comunista non fu, per tutti gli appartenenti del gruppo, senza riserve, ma per Aldo costituì un momento di grande rilievo nel rafforzarsi e definirsi del suo impegno antifascista e gli diede l’occasione per ampliare i suoi orizzonti e per intraprendere alcuni viaggi e soggiorni all’estero. E proprio da Parigi dovette tornare nel luglio del 1939 per prendere servizio a Roma come assistente ospedaliero. L’impegno lavorativo fu, però, di breve durata: infatti, alla fine di quell’anno Aldo Natoli e Lucio Lombardo Radice vennero arrestati.

Inizia così il periodo di prigionia, prima a Regina Coeli in attesa del processo presso il Tribunale speciale e poi a Civitavecchia, dopo la condanna a cinque anni, ridotti a tre per un’amnistia. Iniziano anche i periodi di isolamento, poi la vita in cella, inizialmente con Lombardo Radice e Pietro Amendola e in seguito nelle camerate di Civitavecchia. Scrive Claudio Natoli che «la sentenza fu accolta dai condannati come una liberazione»: potevano infine smettere di nascondere le loro idee, venivano, in un certo qual modo, restituiti a se stessi (p. XLIII).

Ed è proprio a Civitavecchia che comincia la vera e propria “Università del carcere”, come è ben testimoniato dalle lettere e descritto nell’Introduzione: il centro ne fu, a parte le ampie letture cui si è già accennato, «la partecipazione al collettivo comunista, la condivisione del costume e delle regole di comportamento», la disciplina che queste imponevano, l’abituarsi, l’educarsi all’uguaglianza, alla solidarietà, alla condivisione del proprio patrimonio culturale, la conoscenza diretta degli operai. E tutto questo «avrebbe portato a una più matura consapevolezza e a un senso di appartenenza a una comunità più vasta che […] potesse aprire la strada a un mondo completamente rinnovato e a nuovi e più liberi rapporti tra gli uomini» (p. XLV). Tutte cose, queste, che solo molto parzialmente traspaiono dalle lettere, come poco traspaiono, si diceva, i momenti più duri. Ma le lettere, commenta il curatore, hanno un ulteriore significato e non si limitano a testimoniare la crescita personale di Natoli. Pongono invece in luce «la storia di un’intera famiglia antifascista», coinvolta completamente nella storia di Aldo; tuttavia, ciascuno dei familiari vive questa storia diversamente, ciascuno con la sua individuale personalità, le sue ansie, il suo bisogno di portare al prigioniero, in qualsiasi modo, aiuto e conforto. Ed è per questo che si può rilevare come «il carteggio, considerato nel suo insieme, si allarga, passo dopo passo, alla storia corale di una famiglia antifascista nella crisi del regime» (p. XLVII).

Le ultime pagine dell’Introduzione sono dedicate a una sottile analisi dei rapporti dei familiari con Aldo, analisi che è una guida indispensabile per cogliere fino in ondo le sfumature di tali rapporti quali possono trasparire dalle lettere. Molta attenzione dedica il curatore a quelli con Mirella, che in effetti appaiono i più profondi e tormentati e anche quelli in cui Aldo Natoli mette più a nudo se stesso; dallo scambio emerge un’altra nuova maturità che egli raggiunge negli anni della prigionia. Per i due fidanzati, conclude il curatore, il duro periodo che attraversano e le riflessioni a cui lo scrivere, confrontandosi, li porta, costituiranno un arricchimento, una condivisione, un’approfondita coscienza delle loro identità e differenze, ma anche il raggiungimento della consapevolezza che «quella vicenda segnava per loro la “fine della giovinezza”», insieme all’«orgogliosa rivendicazione della propria rafforzata identità», segnando il punto in cui la storia di Aldo Natoli e dei suoi trova «il punto di congiunzione tra la “grande storia”» (p. XLVIII) e la storia privata sia di ciascuno di loro sia dell’essere, congiuntamente, una “famiglia antifascista”.

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