I giorni e le nuvole

16 Novembre 2007

Manuela Scroccu

Cosa succederebbe se la tua esistenza andasse in pezzi? Cosa succederebbe se perdessi tutto quello per cui hai lavorato, tutto quello che ami? Elsa e Michele, i due protagonisti dell’ultimo film di Silvio Soldini, Giorni e Nuvole, sono una coppia alto borghese con una vita praticamente perfetta. Lui, dirigente di un’azienda nautica, lei che, grazie alla serenità economica, ha lasciato il lavoro per coronare il suo sogno di laurearsi in storia dell’arte. Vivono in una Genova bella e apparentemente accogliente, come solo le città di mare sanno essere. Sono colti, intelligenti, hanno vent’anni di matrimonio alle spalle, una figlia, una casa meravigliosa piena di belle cose e ricordi di viaggi esotici, una barca. Proprio dopo la festa di laurea di Elsa, Michele confessa alla moglie di aver perso il lavoro da ormai due mesi. Sopraffatti dagli eventi e incapaci di dare un senso a quanto sta loro accadendo, sono costretti a vendere la loro bella casa e a traslocare in uno di quei brutti condomini di periferia. Poco alla volta vedono svanire le cose che li facevano sentire sicuri, felici, appagati, i simboli del benessere e della sicurezza: niente più barca, niente più domestica, niente più viaggio in Thailandia, niente più pezzi pregiati d’arredamento, venduti per pagare la casa di riposo del vecchio padre di Michele. Svanisce il futuro, la certezza di poter contare su stabilità e serenità. Gli equilibri consolidati crollano e travolgono ogni cosa, affetti, amicizie, il rapporto di coppia. In una società in cui, nel bene e nel male, il lavoro ci definiva, scandiva il nostro tempo e identificava la nostra posizione sociale, cosa succede quando cambiano le regole? Cosa succede quando passare dalla poltrona di dirigente d’azienda alla postazione di operatore di call center e, poi, alla sella di un pony express, diventa regola di vita e possibilità concreta nella vita di ognuno di noi? Cosa rimane dell’uomo? Soldini ci racconta questa dissoluzione e, con essa, la perdita della dignità, il precipitare dell’esistenza. Michele perde il lavoro nell’azienda che ha contribuito a creare perché non si piega alla logica del mercato selvaggio e della ristrutturazione aziendale fatta sulle spalle dei lavoratori. E’ una brava persona, Michele. Non vuole licenziare gli operai perché così gli impone il nuovo verbo del liberismo selvaggio. Appartiene ad una borghesia colta e di sinistra che ha fatto del lavoro la misura di ogni cosa e la fonte della propria identità. Una sorta di moderno Giobbe che, nonostante abbia sempre ben interpretato, con coscienza e serietà, la sua parte nella società, ora ne viene bruscamente allontanato, spinto ai margini da una realtà sempre più egoista e chiusa in se stessa. Respinto e inutile, così si sente Michele che, a differenza del personaggio biblico, non si affida alla volontà di Dio ma entra in crisi, vive una progressiva perdita di definizione di sé, incapace di riorganizzarsi la vita al di fuori dei suoi vecchi ritmi di lavoro. Elsa, invece, abituata a godere del prestigio sociale ed economico che gli derivava dal vecchio tenore di vita, non si rassegna e trova uno, poi due impieghi coltivando l’illusione di tornare alla normalità di un tempo. Ma le nuvole, evocate nel titolo “vanno vengono ritornano e magari si fermano tanti giorni che non vedi più il sole e le stelle e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai” (così scriveva Fabrizio De Andrè, cantautore genovese, e c’è da chiedersi quanto la citazione sia involontaria).
Michele e Elsa sono costretti dagli eventi a guardare le cose con altri occhi. Privati di tutto ciò che li identificava e li faceva sentire parte integrante di una società tutto sommato accettabile, attraversano un mondo in cui le regole che conoscevano e accettavano sono completamente sovvertite: Michele passa da un colloquio di lavoro all’altro, sempre più annichilito da improbabili responsabili risorse umane con il loro linguaggio fotocopia, il sorriso smaltato e i capelli in perfetto ordine; Elsa fa due turni in un orrendo e grigio call-center prima di tornare, distrutta, nella sua nuova grigia casa, al suo ormai spento e grigio matrimonio. Privati delle loro certezze borghesi, si trovano improvvisamente dalla parte dei perdenti, di quelli che, modestamente, “tirano a campare”. Cosa rimarrà di loro, se riusciranno a sopravvivere a quello in cui si sono trasformati, si scoprirà, forse, solo alla fine del film. Dove la bellezza del viso dipinto nell’affresco del cinquecento, al cui restauro Elsa aveva tenacemente lavorato (gratis) per la sua tesi di laurea, sembra dirci che, in fondo, lo squallore dei call center, le domande ripetitive fatte per vendere riviste femminili, le sale d’attesa delle agenzie di lavoro interinale sono solo nuvole che “per una vera, mille sono finte e si mettono lì tra noi e il cielo”. Ma il cielo continua ad esistere.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI