Italia, dove fare l’artista non è un lavoro

16 Ottobre 2019

Immagine: Elena Borghi

[Paolo Carta]

Qui paese Italia, una fra le nazioni con il maggior numero di siti artistici e archeologici, musei, gallerie, spazi indipendenti, Accademie di Belle Arti, un patrimonio incredibile tra i più invidiati al mondo. In pratica viviamo sopra un enorme giacimento economico culturale artistico, che da solo basterebbe per attrarre investimenti e colmare quel buco nel PIL, che nessuna industria oggi giorno riesce a riempire. E scrivendo “basterebbe” scrivo bene, perché di fatto tale potenzialità non viene sfruttata come meriterebbe, ecco perché sempre più spesso artisti e creativi di casa nostra sono costretti a fuggire dalle terre italiche, mete ben più note per le conquiste del cemento e del mattone. È bene inoltre ricordare che i “cervelli in fuga” non sono solo i ricercatori del campo scientifico e che i casi di fughe all’estero sono molteplici e riguardano anche gli artisti, che in terra straniera sono riconosciuti come veri lavoratori che contribuiscono alla crescita culturale del luogo in cui operano, favorendo il miglioramento qualitativo dell’offerta artistico-culturale. Tante infatti, sono le nazioni con molteplici possibilità di sostegno che vengono previste per chi opera nell’arte, non come passatempo ma come precisa scelta di vita e lavoro.

E l’Italia, come si posiziona? Malissimo. Nessun piano nazionale di sostegno continuativo, solo pochi bandi sporadici che a malapena coprono le esigenze di qualche mese. Parlare poi di stipendi o di sindacati per artisti, è eresia pura, a differenza di altre nazioni, dove non è fantasia ma una realtà che sostiene e tutela le fatiche e i sacrifici di chi migliora di fatto la qualità culturale del paese, un supporto riconosciuto a molti e che può permettere una vita più serena. Il bel paese è ben lontano da cotanta lungimiranza ed è lecito pensare che un provvedimento simile, se attuato da un ipotetico governo delle meraviglie, con tutta probabilità aizzerebbe i benpensanti dell’opinione pubblica, quella dei laureati sui social per intenderci, che vedrebbero in un disegno di legge simile, non un investimento per la cultura nazionale, ma uno spreco delle loro tasse, quando ovviamente hanno il buonsenso di pagarle, sia chiaro. E giustamente, non è solo di soldi che bisogna parlare, ma anche di diritti e tutele del lavoro, oggi spesso calpestati da un sistema che spreme e approfitta delle passioni, dei sogni e degli anni investiti in alta formazione. Eppure in questa Italia dove chiunque dovrebbe essere educato all’arte e al bello, l’idea di un sistema nazionale di tutela e sostegno, potrebbe non essere ben visto e alimentare una già difficile situazione, in cui gli artisti sono visti spesso alla stregua di nullafacenti e perditempo. Di fatto, perché pagare per qualcosa di cui non avremo un immediato riscontro? Un po’ come dire, “perché studiare se ci vogliono cinque anni per diplomarsi”? Insomma, in questa Italia che risulta ancora tra le mete più ambite per turismo culturale / artistico, non siamo in grado di sostenerla, questa cultura dell’arte. Non dimentichiamo che attualmente, in molte scuole, la Storia dell’Arte è stata eliminata e non si insegna; in pratica, una parte importante quanto la Costituzione stessa, cioè la tutela del proprio patrimonio artistico culturale, è reputata “non necessaria”..

L’attuale situazione è dunque imbarazzante, ogni volta che un singolo artista ha un progetto in mente, o una piccola associazione ha un programma da pianificare, e si decide di trovare i fondi per un avvio sicuro che possa pagare le varie figure professionali, i materiali, gli spostamenti, il vitto e l’alloggio, ecco che inizia una via crucis con tanto di tappe, offerte e fustigazioni. E si, perché questo grande gioco dell’oca misto al Monopoli, dove ad ogni tappa devi iniziare da capo con la presentazione all’ignorante di turno, pagare pegno per uscire di prigione, solitamente stai fermo un giro anziché proseguire con il tuo progetto, che già di per sé ha infinite problematiche e lunghe tempistiche. Quando vai in giro a “mendicare” fondi, sembra che i finanziamenti siano intoccabili e l’assessorato assomigli più ad una banca impenetrabile, con uno strozzino al posto di assessore, che ti chiede il 200% degli interessi. Insomma, trovare sostegno presso gli enti destinati a tale scopo è una crociata infinita, un vero e proprio pellegrinaggio fra persone di “potere” che possono decidere il tuo futuro. Salvo ovviamente, i pochi comuni “santi” finanziatori che sostengo l’arte.

Degni di nota, i casi in cui il finanziamento ti viene concesso, ma dopo due anni, di soldi nemmeno l’ombra; quando, gli enti eroganti, comprenderanno che un progetto deve essere finanziato subito e che una persona non può restare inattiva per tutto questo tempo? A questo punto, meglio fare il Cammino di Santiago, si fa prima. Ma soprattutto, e con tutto il rispetto, quando sarà chiaro che la cultura non è solo folklore e non è solo la sagra della salsiccia, della lumaca e della pecora bollita?

Qui ci troviamo davanti a risorse che spesso vengono utilizzate male (o direttamente inutilizzate), e parliamo di un male compulsivo, ripetitivo e contagioso da una giunta all’altra. Eppure basterebbe così poco per garantire un “sostegno” continuativo, non solo ad artisti e terzo settore, ma alla comunità stessa, perché è bene comprendere, che sostenere l’arte e i progetti che ne conseguono, permetterebbe la continua emissione di nuove opere d’arte, nuovi punti di vista, nuove domande e confronti, per una società in grado di fare autocritica e capace di trovare quelle soluzioni necessarie a migliorare il tenore di vita di ogni comune, quanto meno in termini culturali. Parliamo dunque di contributi dedicati alla ricerca artistica, sia che si tratti di progetti singoli o appartenenti ad associazioni, con una differenziazione netta fra arte e artigianato che NO, non sono la stessa cosa. Volendo fare un ipotesi molto semplice, con uno sguardo alla Sardegna e ai suoi 377 comuni, un singolo artista riuscirebbe a portare a casa uno stipendio dignitoso ogni mese, lavorando con una decina di comuni all’anno, e questa non è fantasia signori miei, è semplice pianificazione. Chiaro come il sole, a proposta fatta, polemica avviata con le immediate fasciature alla testa, “Ma non ci sono soldi”, “Ma non è meglio pensare a quello… o a quell’altro” è facile immaginare le proteste, ma anche qui basterebbe ad esempio munirsi di un gruppo di progettazione interno per la richiesta di fondi ulteriori, magari europei, o per la creazione di campagne crowdfunding, del supercalifragilistichespiralidoso e del vattelapesca.

Insomma, alla fine dei conti, l’Italia resta dunque un mondo a parte, dove salvo gli artisti già inseriti in un contesto commerciale, spesso e volentieri, le credenziali si basano su amicizie e parentele, di certo non sull’ingegno e la competenza. Siamo disposti a lasciare le cose invariate? Vogliamo davvero restare immobili e guardare dalla finestra?

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