Joseph Stiglitz e il futuro del capitalismo

1 Luglio 2020

Joseph Stiglitz è un economista e saggista statunitense. Premio Nobel per l’economia nel 2001.

[Gianfranco Sabattini]

Nell’ultimo suo libro, “Popolo, poteri e profitti”, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz torna sul tema dell’imperfezione del mercato, per evidenziarne l’impatto sulle modalità di funzionamento del sistema economico, ma anche per presentare un’”agenda” di governo dell’economia, alternativa a quella affermatasi con l’avvento dell’ideologia neoliberista. L’intento di Stiglitz è quello di approfondire la conoscenza del modo in cui, regolando il mercato, può conciliarsi la crescita economica con una distribuzione equa dei suoi frutti. L’”agenda” è fondata “sulle visioni della teoria economica moderna”, attraverso le quali Stiglitz chiarisce il motivo per cui è fallita la tesi che vuole i mercati sregolati e l’azzeramento dell’intervento pubblico in economia.

La teoria economica moderna, secondo il premio Nobel, assume che il mercato da solo non sia in grado di garantire una prospettiva di funzionamento del sistema economico che risulti socialmente condivisa e sostenibile, poiché, pur svolgendo un ruolo insostituibile in un’economia a decisioni decentrate, spesso però esso non consente al sistema economico di “raggiungere risultati equi ed efficienti”; ciò conferma quanto, oltre ottant’anni fa, John Maynard Keynes già aveva evidenziato, ovvero che, a causa della imperfezioni del mercato, le economie a decisioni decentrate “sono spesso caratterizzate da una persistente disoccupazione”, contrastabile solo attraverso politiche specifiche, idonee a conservare il sistema economico a un livello di funzionamento compatibile con la piena occupazione.

I mercati non funzionano bene anche quando l’informazione è imperfetta o quando la concorrenza è limitata. In ogni caso, perché un’economia funzioni in una prospettiva di crescita stabile e in modo socialmente condiviso, occorre un intervento pubblico finalizzato a garantire che i risultati della crescita siano distribuiti equamente. Al riguardo, Stiglitz ricorda che la crescita del sistema economico trova la spinta necessaria nell’aumento della conoscenza e nella sua massima diffusione all’interno del sistema sociale, che costituiscono la base per la promozione degli incrementi di produttività e della crescita economica. Tutto ciò presuppone una razionale organizzazione del sistema sociale, idonea a consentire a tutti gli attori economici di interagire, scambiarsi beni e servizi e investire con sicurezza; un risultato frutto di ragionamenti e di riflessioni all’interno di un quadro istituzionale democratico ed a supporto del dibattito pubblico finalizzato a rendere possibile la definizione delle politiche d’intervento.

Nella predisposizione del quadro istituzionale del sistema sociale in funzione della crescita economica, la teoria economica moderna distingue, ricorda Stiglitz, la crescita dell’intero sistema sociale da quella riguardante solo alcuni attori o gruppi di attori: in un’economia di mercato, un conto è arricchirsi attraverso la produzione di beni e servizi che i consumatori acquistano liberamente perché rispondenti ai loro stati di bisogno; altro conto è l’arricchimento realizzato attraverso il potere di mercato utilizzato per sfruttare i consumatori. In questo secondo caso, il sistema sociale non cresce, in quanto l’economia alimenta solo un processo di ridistribuzione di risorse, a danno dei consumatori sfruttati e a vantaggio di operatori economici sfruttatori. Ciò avviene grazie al “potere di rendita” del quale questi ultimi dispongono e che consente loro di appropriarsi di un’ampia “fetta della torta economica del Paese”, senza incrementarne la dimensione con la creazione di nuova ricchezza. Quando esistono “posizioni di rendita”, è compito dello Stato intervenire per rimuovere tutte le possibili situazioni parassitarie, che costituiscono il segno di un indebolimento generale della capacità del sistema economico di crescere: “Condurre con successo una lotta contro la ricerca della rendita permette – afferma Stiglitz – di dirottare risorse verso la creazione di ricchezza”.

Inoltre, la teoria economica moderna considera le disuguaglianze distributive come un ostacolo alla crescita economica. Questa idea si discosta notevolmente da quella un tempo accettata dalla teoria economica tradizionale; i vantaggi derivanti dal contrasto delle disuguaglianze sono particolarmente avvertibili quando queste raggiungono gli estremi cui sono arrivati i sistemi economici aperti alle politiche pubbliche di ispirazione neoliberista. A differenza della teoria economica tradizionale, quella moderna rifiuta “la mal riposta fiducia nella teoria del trickle down”, ovvero l’idea secondo la quale, se un’economia cresce, tutti ne beneficiano. I fatti, sottolinea Stiglitz, sono valsi a smentire questa fiducia, in quanto l’esperienza ha evidenziato che raramente i benefici della crescita “filtrano verso il basso”.

Ancora, secondo la teoria economica moderna, i programmi d’intervento pubblico finalizzati a realizzare una più equa distribuzione del prodotto sociale devono essere “focalizzati”, sia sulla cosiddetta distribuzione del “reddito di mercato” (o distribuzione primaria), sia sulla ridistribuzione dei redditi dei quali gli attori dispongono dopo la deduzione delle tasse e dei trasferimenti; ciò al fine di “strutturare” il funzionamento del mercato, in modo da renderlo compatibile con l’equità distributiva. La “strutturazione” deve essere orientata ad abolire l’esistenza di eventuali leggi che consentano “abusi monopolistici” o la propensione di molti attori dal lato della produzione a privilegiare la ricerca della rendita; ciò perché la conservazione delle posizioni di privilegio è causa di una maggiore disuguaglianza e di una minor crescita del sistema sociale.

Dal momento che moltissimi aspetti della vita economica dipendono dall’intervento pubblico per la regolazione del funzionamento del mercato, l’operato dello Stato diventa vitale che la politica e l’economia siamo strettamente connesse; ciò perché le disuguaglianze economiche sono destinate a tradursi in potere politico che può essere usato per vantaggi personali. Di conseguenza, se le economie di mercato rette da regimi democratici vogliono rimuovere la permanenza di particolari abusi di chi è dotato di potere economico-politico, allora esse devono perseguire una maggiore uguaglianza distributivo; ciò si renede necessario, in quanto il capitalismo neoliberista, affermatosi nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, ha plasmato le identità e le propensioni comportamentali personali, facendo emergere valori egoistici ed individualisti.

Per contrastare le disfunzioni del mercato sin qui elencate, secondo Stiglitz, occorre mettere a punto un’agenda economica generale le cui finalità siano – come egli afferma – quelle di ricondurre a una crescita del sistema economico e a una distribuzione del prodotto sociale largamente condivise dai componenti la società. Pertanto, l’attuazione di tale agenda deve mirare alla rimozione degli ostacoli (nati con l’avvento dell’ideologia neoliberista cui si deve il rallentamento della crescita) alla realizzazione di un’equità distributiva ed a un superiore sostegno della ricerca, congiuntamente a una più funzionale diffusione di suoi risultati.

Infine, considerati i ritmi e la dimensione dei cambiamenti che avvengono all’interno dei moderni sistemi economici, la nuova agenda cui devono attenersi le politiche pubbliche impone l’abbandono della pratica dei piccoli aggiustamenti; ciò perché gli aggiustamenti dei quali il governo dell’economia moderna ha realmente bisogno riguardano mutamenti che devono investire l’intera struttura del sistema economico e di quello politico, nella consapevolezza che nessuno di essi “sarà praticabile – afferma Stiglitz – senza una democrazia forte” e senza che la riforma del sistema politico preceda quella del sistema economico.

La riforma del sistema politico deve essere orientata, in modo particolare, al potenziamento della ricerca scientifica e tecnologica, favorendo l’introduzione di innovazioni nel sistema produttivo. Ampliare le basi della conoscenza scientifica e tecnologica e le modalità d’impiego dei loro risultati significa anche – sottolinea Stiglitz – realizzare una società “aperta alle idee e alle persone di altri luoghi” e far sì che il fluire della conoscenza attraverso i confini degli Stati diventi l’aspetto più importante della globalizzazione. Altro obiettivo prioritario della nuova agenda deve essere quello di generare un diffuso senso di sicurezza dei componenti il sistema sociale, attraverso il potenziamento del sistema di protezione sociale, avendo cura di inaugurare programmi innovativi finalizzati a contrastare la disoccupazione.

Le politiche attive contro la disoccupazione devono essere oggetto di particolare considerazione, per via del fatto che esse hanno un effetto macroeconomico positivo; ciò perché tali politiche agiscono come stabilizzatori automatici, nel senso che, quando l’economia attraversa una fase negativa del ciclo economico, non potendosi creare nuovi posti di lavoro, assicurano una continuità di reddito ai cittadini, le cui capacità di consumo concorrono a conservare la stabilità di funzionamento dell’economia.

Al riguardo, oltre che al potenziamento delle reti di protezione sociale, Stiglitz non si mostra contrario all’erogazione di un “reddito minimo universale”, per quanto egli ritenga che fornire un reddito senza corresponsione di una prestazione lavorativa non sia “l’approccio giusto” alla disoccupazione; ciò perché, a suo parere, “per la maggior parte delle persone, il lavoro rappresenta una parte importante della vita”. In luogo del reddito minimo universale, egli mostra di propendere per la creazione di opportunità lavorative attraverso la diminuzione del tempo di lavoro, perché orari di lavoro più brevi possono accrescere “la produttività e molti, anche se non tutti, hanno scoperto modi interessanti di usare il tempo libero”. A parere di Stglitz, l’idea delle riduzione del tempo di lavoro è da preferirsi alla corresponsione di un reddito minimo universale, in quanto il lavoro continua a rimanere “la spina dorsale di un’economia sana”.

La storia del processo che ha causato la situazione economica e politica propria di molti sistemi ad economia di mercato (caratterizzata da ineguaglianze distributive, bassa produttività e aumento della disoccupazione) è ormai nota; essa è riconducibile al fatto che la globalizzazione delle economie nazionali, grazie alla la loro finanziarizzazione e ai progressi realizzati nel campo delle tecnologie informatiche e dell’intelligenza artificiale, sia avvenuta senza un una sua aduguata regolazione e, sebbene supportata da specifiche politiche pubbliche, non ne sia stato adeguatamente valutato l’impatto sui livelli occupazionali. Il fenomeno della disoccupazione strutturale non è sopraggiunto all’improvviso; fin dalla sua comparsa è apparso chiaro che gli effetti negativi provocati su ampie fasce di forza lavoro andavano in qualche modo ostacolati, governando i ritmi sostenuti con cui si stavano diffondendo..

L’agenda economica generale proposta da Stiglitz, che egli stesso definisce progressista, è suggerita dalla necessità che, per poter crescere nella stabilità, i sistemi economici dispongano, al loro interno, di mercati regolati e strutturati in modo conforme all’obiettivo del pieno impiego. Se ciò mancasse di accadere, i fallimenti del passato si ridurrebbero a rappresentare il prologo di un capitalismo futuro, caratterizzato da livelli di disuguaglianza ancora più elevati, da politiche pubbliche divisive e da livelli di disoccupazione difficili da contrastare.

In conclusione, l’agenda economica proposta da Stiglitz è in linea di principio condivisibile; non può non stupire, però, che al premio Nobel sfugga la natura irreversibile della disoccupazione strutturale (cui è associata la crescita della disuguaglianza distributiva), che rende difficile l’attuazione di politiche pubbliche attive per la creazione di nuovi posti di lavoro; né questi possono essere ottenuti attraverso una generalizzata diminuzione del tempo di lavoro. E’ probabile che l’agenda economica da seguire, per salvare il capitalismo, debba aprirsi alla necessità di cambiare le regole distributive del prodotto sociale, in termini molto più radicali di quanto egli ipotizza.

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