La foresta il bosco narrativo e la selva

1 Giugno 2012

Natalino Piras

Avrei dovuto scrivere per questo numero 123 dell’Asinara che fu colonia penale e supercarcere, ora  oasi naturalistica e  luogo della protesta di cassintegrati. Potrebbe, secondo disegno ministeriale, ridiventare carcere. Non si sa e c’è tempo per parlarne. Se resterà tempo. Ce lo rubano la crisi, il terremoto e persino il sistema-calcio come sostanza e metafora del sistema-Italia. Insomma un intrico. Rinviando il discorso sul sistema-carcere-Italia focalizziamo, letterariamente, sull’intrico.
Quando si parla di foresta, chi sa perché viene da pensare a quelle delle terre fredde del nord Europa. Sono il luogo ideale per saghe di guerrieri e di dei. Al loro interno, tra alberi che stanno fissi e fitti e altri che si muovono, ci sono sentieri come quelli di Pollicino, di Hänsel e Gretel e  altri su cui studiò anche il giovane Gramsci. Sentieri che tutti portano a case dentro il bosco. Tutte incantate e  fatate. Da queste case, se si riesce ad uscirne, si dipartono poi tanti altri sentieri, quasi mai dritti, quasi sempre tortuosi e intricati alla stessa maniera di quello per il quale si è arrivati alla casa al centro. Insidioso è il cammino. Molti gli agguati. Sembra di camminare come le legioni romane dentro la foresta di Teutoburgo, nel 9 d.C., in Germania. Ci sono masse di occhi che ti vedono e tu non li vedi. Gente armata di tutto punto pronta a scagliarti addosso la sua furia, ombre di uomini lunghi abituati a vivere nella foresta insieme a streghe e varia altra genia con cui il camminante o i camminanti non vorrebbero avere niente a che fare.
E poi lupi anche questi di varia categoria, da quelli che ululano ai lupi mannari veri e propri che, lo sapete, sono metà uomini e metà bestie. Per non parlare degli elementi della natura che si trasformano a rendere il camminare ancora più complicato, unendosi insieme a briganti e assassini. Si ispessiscono come ombre. Ti tagliano la strada come tagliagole. Piovono dagli alberi come nugoli di frecce. Per non parlare dei vampiri succhiasangue che assediano le case disseminate nel bosco.
Qui il cammino fa una brusca virata verso l’est Europa, alle gole tra le montagne dei Carpazi, le stesse che incanalavano e ancora incanalano il vento gelido verso i luoghi che furono di genocidio e sterminio: Auschwitz e altri lager.
Chiaro che in questi boschi insieme alla forze del male un po’ di forze del bene ci sono. Ma sono tutte da verificare e da scoprire.

Tutti pensano che foreste come quelle sopra descritte non ce ne siano in Sardegna. Convinzione che più errata non si può. Dal nord al sud dell’isola ne siamo pieni, da foreste di pini ed eucalipti dalle parti di Alghero, nel nord,  sino a quelle della Montagna dei sette fratelli, nel sud.
Tracciati e linee di percorso, tortuose e poco dritte, in verticale e in orizzontale, rifrazioni che vanno da Foresta Burgos, tra Marghine e Barbagia, sino a Crastazza e Tepilora, a confine tra Bitti e Alà dei Sardi, con le montagne della Pietra Bianca che sembrano uscire pari pari dagli incanti del Signore degli anelli. Foreste vive e foreste fossili, quella del lago Baratz e quella inghiottita dalle acque del Tirso che si fa lago – lo hanno fatto diventare Omodeo – nei pressi di Zuri, alto oristanese, luoghi del dominio di Eleonora d’Arborea.
Tutte queste foreste sono popolate da tipi come quelli di cui sopra, nelle foreste nordiche, da cui sono state generate molte delle favole e leggende che sono universali e come tali patrimonio dell’umanità. Tutti quei tipi c’erano e ci sono anche nelle nostre foreste, con delle aggiunte e trasformazioni del tutto particolari che a saperle usare e reinterpretare aiutano a superare certe marchiature folkloriche.
La narrazione noi qui la concentriamo in un’unica foresta che chiamiamo di Chentomines, che vuol dire cento uomini ma anche cento anime.
È una foresta inventata ma esiste per davvero. È in Barbagia, in Alta Baronia, a confine col Marghine e con l’Ogliastra verso oriente, col Goceano e metà oriente metà occidente con il  Logudoro, insomma a confine con tante altre foreste del mondo sconosciuto e ancora da scoprire. Ci troveremo, inerpicando, abbassando  e pianeggiando, Mascaras,  Erkitos,  Demonios,   Mamas de sole, de abba e de preta,  Janas vonas e janas malas,  Accabatoras.
E tanto altro popolo, della notte e del giorno, più della notte che del giorno: come dire di un abbagliante buio. Per non farci accecare, per sapere come districarci negli intrichi,  insomma per salvarci dalle forze del male, ricorreremo a diversi Virgilio, a volte più di uno tutti insieme, che ci faranno da accompagnatori e da guida.
Sempre supposto che noi siamo Dante: capaci cioè di vincere la paura di tutte queste anime che furono corpi, che ancora sono metà spirito metà sostanza, a volte pietra, mamas de preta1,  per vedere di parlarci, di farci raccontare da loro un’esperienza che vale per sé e per l’intera Isola, a sua volta parte rappresentativa del mondo della foresta. I filologi del bosco narrativo non a caso usano una parola della Commedia dantesca e la chiamano selva. La nostra foresta di Chentomines è una selva a tutti gli effetti.

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