La paura del diverso

1 Ottobre 2015
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Giulio Angioni

Mi hanno dato un compito ingrato i compagni  di manifesto sardo: un commento a un testo, a una frase imbarazzante di Salvatore Cubeddu, ex sindaco di Seneghe, che ri-chiedendo la tessera del Psd’az motiva i suoi propositi di militanza, tra l’altro, col fatto che “a completare il finis Sardiniae, dei folli vogliono riempire i nostri paesi di cittadini africani educati nelle loro città”.

Paura del diverso, intolleranza, razzismo sono da tempo immaginati come un fenomeno non italiano, tanto meno sardo, tanto che il credere che non siamo razzisti è ancora la forma più tradizionale di razzismo facile o di maniera, quando non proprio di tipico razzismo razzismo nostrano, oggi che anche la Sardegna ha e sempre più avrà a che fare con problemi di convivenza plurietnica, e “quindi” anche di intolleranza perché stiamo diventando anche noi una società plurietnica.  Si sa che il diverso da sè ha suscitato spesso reazioni che oscillano tra il difensivo e l’aggressivo, e sentimenti di superiorità. Lo si chiami razzismo, intolleranza, etnocentrismo, si tratta di un guaio tanto antico quanto il sentimento di appartenenza, di identità. L’equilibrio tra sentimento di sè e modo di rapportarsi all’altro da sè risulta arduo e variegato, ma è ricorrente la tendenza a ridurre la diversità a inferiorità, per cui il diverso diventa qualcosa di peggiore e di pericoloso, a volte capro espiatorio, oppure si tende ad assimilare l’altro a se stessi negandogli ogni diversità, per cui l’uguaglianza pretende ridursi a identità. Ambedue gli atteggiamenti, l’uno aggressivo e l’altro a volte implacabilmente caritativo, sono presenti  nella nostra civiltà almeno fin dalle origini di ciò che chiamiamo epoca moderna, simbolicamente incominciata  con la scoperta di Colombo e l’inizio dei grandi colonialismi extraeuropei.

Molti sono responsabili della divulgazione dell’idea che l’atteggiamento razzista, inferiorizzante e pauroso verso l’altro, l’etnocentrismo più in generale, sia qualcosa di universale, qualcosa di biologico geneticamente ereditario, che avremmo tra l’altro in comune con altri animali. Per cui sarebbe un obbligo per tutti, educatori ed educati, mettere la sordina e cercare di eliminare questa propensione della specie umana a inferiorizzare il diverso. Per cui il razzismo si supererebbe come si fa imparando a controllare gli sfinteri da bambini. E anche l’aver compreso questo, e l’aver sviluppato atteggiamenti di tolleranza, è attribuito da certuni alla superiorità della cultura o civiltà occidentale, presentata sbrigativamente come la sola capace di “rieducarsi” in senso non etnocentrico o razzistico.

Almeno una fallacia è spesso evidente: l’etnocentrismo non è ineluttabile e non è universale. Tanto meno i suoi estremismi razzisti. La storia e l’etnografia ci mostrano casi di non inferiorizzazione del diverso non molto meno numerosi dei casi di sua inferiorizzazione. Anzi, non è per nulla raro l’atteggiamento di superiorizzazione del diverso, dell’estraneo, dello straniero, dell’altro da sé. Un tale fenomeno di superiorizzazione dell’altro è posto da certuni all’origine della disfatta repentina dell’impero azteco al primo contatto con la masnada di Cortez. Ma senza fare esempi esotici, questo è il caso del senso comune della mia isola natia, la Sardegna, dove la storia ha fatto sì che, come è successo per tante altre genti sottomesse a potenze esterne, chi viene da fuori è “istintivamente” sentito e considerato migliore, superiore, più capace in questo o in quest’altro, mentre i locali sono definiti “piccoli neri e tonti”, o comunque dal sopraggiunto si attende salvezza o si teme perdizione.

In Sardegna il forestiero troppe volte è arrivato in armi, dominatore, padrone, signore. Gallo, non gallina, finché non è arrivato il successivo a renderlo cappone, magari anche sardizzandolo. Ora però il forestiero sbarca nell’isola anche da disperato, e non ci arriva più solo con la sua aura esotica, negretto di gesso da usare come soprammobile. Ma il sentimento di superiorità occidentale è a disposizione da tempo anche qui, sebbene l’essere a pieno titolo occidentali, europei, da noi si faccia ogni tanto problematico. Con crisi di identità. Perché una delle preoccupazioni più forti di luoghi occidentali marginali come la Sardegna è appunto quella di “mantenersi” in Occidente, davanti al pericolo di scivolare verso l’Africa vicina, verso il Terzo Mondo.

Chi finora si è abituato a ritenere che il razzismo oggi sia costituito principalmente dalle imprese di giovinastri come i naziskins, ha troppo buon gioco nel ritenersi non razzista, ma si rende incapace di capire che, da occidentale, egli è compartecipe di una nuova forma di razzismo che lo fa quanto prima sentire al mondo in una posizione di superiorità, ovvia e indiscussa nei più, e, se discussa, quasi solo in funzione di critica ai costumi contemporanei alla maniera della critica borghese illuministica del tipo delle Lettere persiane di Montesquieu o dell’Ingenuo di Voltaire. Che è già qualcosa, anzi è già molto ripetto a un passato anche recente. Ma non basta più.

Questa forma odierna di senso di superiorità e di autodifesa occidentale può essere dunque mite e condiscendente, aliena da violenze e intolleranze, anzi è spesso collaborativa, caritatevole, cristianamente ecumenica, terzomondista, relativista, pietosa, filantropica, anche esoticheggiante, “etnica”, magari anche new age e world music dopo essere stata simpatizzante o fan della cultura musicale afroamericana, oltre che ovviamente anticoloniale, e poi mani tese ai disagi del Sud povero, ma, in fondo non in modi sostanzialmente diversi e del tutto nuovi da quando il fardello dell’uomo bianco era l’incivilimento dei barbari e dei selvaggi, per mezzo delle varie forme di colonialismo. Per noi tutti l’Occidentale ha ancor sempre principalmente da guidare e da insegnare, e questa è, fortemente sentita, la sua missione al mondo, anche se oggi si sorride delle tre C sette-ottocentesche che l’europeo aveva la missione di portare dappertutto nel mondo: Cristianesimo, Civiltà, Commercio. O, in una parola, il progresso. E questo allora era il meglio, perché aveva forse maggior forza anche l’idea che il non-europeo, il selvaggio, il primitivo, il colonizzato fosse incapace di raggiungere l’europeo in cima alla scala evolutiva, idea proclamata a chiare lettere e praticata ultimamente con la violenza dai fascismi di ogni latitudine.

I tipi nuovi di razzismo storico-culturale, antico nel suo germe originario, stanno nei “geni” costitutivi della cultura occidentale, del modo euroccidentale di essere e di sentirsi al mondo, “quindi” anche di noi sardi, sebbene con problemi nostri, sardi, di identificazione in Occidente. Però anche noi sardi lo assorbiamo per impregnazione fin dalla più tenera età. Perciò diventa un’ovvietà incontestata, la cui messa in causa provoca disagio e quindi anche rifiuto a considerarlo adeguatamente.

Infatti se ne intuisce la portata e la funzione fondante soprattutto e forse solo quando succede che in certe circostanze ci si senta casualmente messi ai margini o addiritura fuori dell’Occidente, con un senso di squilibrio vertiginoso, agorafobico. E non ci accorgiamo che invece stiamo incominciando a intendere qualcosa di fondamentale, anche come sardi, abitanti di un’isola periferica in Occidente, dove il continente più vicino è l’Africa, luogo del negativo proverbiale in fatto di arretratezza: l’Africa tutta intera qui a due bracciate dalle nostre coste, simbolo di quell’80% e più della popolazione mondiale a cui rimane solo il 16% circa del reddito mondiale, di cui l’84% circa è in mano a meno del 20% dei ricchi e potenti del mondo.

Ma noi sardi, siamo o no tra i ricchi del mondo, a parte i nostri doveri di accoglienza di chi si rifugia da noi? Ci dividiamo anche su questo, e il patriottismo sardo non salva dal cieco egoismo. C’è ancora in Sardegna chi gioca al terzomondismo come ai tempi sessantotteschi delle invettive (e anche di certi studi seri) intorno alla Sardegna-colonia e così via, ma si può supporre che la stragrande maggioranza di noi sardi si senta, costretto a pensarsi nel mondo globale,  tra i ricchi del mondo, con tutto quello che ne consegue di implicito e di esplicito, compreso il senso di superiorità fino al razzismo, o mite o preoccupato, o franco e aggressivo.

Ma come non vedere in queste cifre i conti di un possibile e temibile futuro che ci aspetta, che potrebbe riguardare anche noi sardi appena usciti di miseria e qui a pensarci a pane e formaggio e coca-cola tra le due sponde dell’antico mare che oggi separa ricchi e poveri, Nord e Sud, sviluppati e sottosviluppati, se non prevalgono i costruttori di ponti e di convivenze? Come non vedere, cioè, che potrebbe perfino esserci, con chissà quali conseguenze in quest’isola nel mezzo tra gli uni e gli altri, un futuro rendiconto fra ricchi e poveri, che non hanno mai condiviso, i poveri, l’idea tenace del ricco che le sue ricchezze siano meritate, che i beni del mondo siano nelle mani giuste, nemmeno quando si tratta degli ultimi arrivati o nuovi ricchi come noi isolani di quest’isola, oggi inaspettatamente ricchi, relativamente, e, a quanto pare, capaci anche noi di progettare muri e barriere e non ponti e coesistenze.

Io spero molto che il segretario del Psd’az Giovanni Columbu inviti Salvatore Cubeddu ad assumere un atteggiamento più meditato verso il fenomeno migratorio, anche ai sensi delle tradizioni del Psd’az.

 

[Immagine: Norman Rockwell, Il problema con cui noi tutti conviviamo]

 

3 Commenti a “La paura del diverso”

  1. Salvatore Cubeddu scrive:

    Caro ‘il manifesto’, caro ‘Angioni’,

    avete preso una cappellata, o forse non sono stato chiaro. Cosa c’è di razzistico ad affermare che gli Africani che vengono dalle città non sono interessati a vivere e lavorare nei nostri paesi? Cosa c’entra questa affermazione con il razzismo?

    Non so se voi avete frequentazione con qualcuno tra i ‘diversi’, io più di qualcuno lo conosco e pratico e mi sono fatto un’idea da dove vengono e cosa vuole buona parte di coloro che arrivano in Italia dall’Africa sub-sahariana i quali, solo se costretti da forza maggiore, accettano di fermarsi temporaneamente in Sardegna. Essi arrivano da città africane, non raramente hanno un titolo universitario o un diploma, non conoscono di agricoltura e non nutrono interesse per quel campo di attività, per di più specifico e particolare, com’è quello dell’agricoltura e della pastorizia sarda. Ma pure i ‘poco alfabetizzati’ affrontano i sacrifici che vediamo per ben altro che isolarsi in paesi a cui niente li lega. Parlo di coloro che vengono dall’Africa, per altri (ad esempio gli Albanesi e i Rumeni) è diverso.

    Ripeto che è ‘folle’ proporlo. E non ritengo affatto casuale che l’idea arrivi dagli ambienti del ‘finis Sardiniae”. Ma è un’altra questione, che affronterei in altri termini e modi. In ogni caso, anche se sbagliando occasione, ritengo utile il saggio del professor Angioni, sulle sottili nuove forme del razzismo. Una battaglia che dovremo combattere ancora per molti decenni.

    saluti, S. CUBEDDU

  2. Giulio Angioni scrive:

    Caro Salvatore Cubeddu, dopodomani devo partecipare alla presentazione di un libro che si intitola “Huwiyya: figli di profughi palestinesi e migranti dal Mashreq in Sardegna”, che mostra soprattutto i disagi di chi si trova in una situazione personale di multiculturalità. Qualche tempo fa ero in un paesino della Marmilla e ho chiesto se c’erano immigrati e la risposta è stata un definitivo e meravigliato no. Cinque minuti dopo scoprivo che il parroco di quel paese è un congolese e che ci sono badanti ucraine, un pastore romeno, qualche nordafricano e un paio di neri, mentre si possono contare anche alcuni paesani che fanno i missionari o i cooperanti in Africa nera.
    Tra le mie ignoranze c’è anche quella che ignoro cosa siano gli ambienti del Finis Sardiniae. Ma non mi paiono così folli se immaginano un’immigrazione nei nostri paesi sempre più disabitati. Accade già, in tutta Europa.
    Il problema che lei pone in questo suo commento è soprattutto, mi pare, che su questo fenomeno, da decenni in crescita anche in Sardegna, si rifletta e si propongano possibili futuri. Mi pare che tutte le declinazioni del razzismo e della paura del diverso siano una parte importante del problema. Sappiamo bene che ci sono anche da noi problemi di paura e di intolleranza a complicare e a offuscare menti e cuori sardi e sardisti. Ragionarci è indispensabile, anche a rischio di prendere cantonate su ragionamenti altrui.

  3. Tonino Dessì scrive:

    Non credo che le riflessioni su integrazione, multiculturalismo, meticciato, in Sardegna o altrove, possano prescindere dal fatto che i migranti sono un fiume in piena, non contenibile. Anzitutto debbono essere soccorsi, trovar posto, essere assistiti degnamente, messi nelle condizioni di circolare e di raggiungere le mete verso cui pensavano di essere diretti. Nè la Sardegna ne’ l’Italia sono le destinazioni finali cui in stragrande maggioranza aspirerebbero di arrivare stabilmente. Ma molti rimarranno, saranno comunque una presenza rilevante, loro e le loro successive generazioni e dovremo acconciarci a pensare a una feconda convivenza tra diversi. Del resto, al pari dei migranti, tanti “extracomunitari” sono già qui, anche come cittadini adottati da coppie italiane. Etica, scienze educative, norme giuridiche consigliano e impongono il riconoscimento e il rispetto della loro origine. Chi adotta un bambino africano, nero, non deve guarirlo dalla malattia di essere un bianco europeo mancato. Insomma, cittadini di colore già popolano i nostri paesi e le nostre città, anche in Sardegna. Quel che resta della nostra ragione ci guardi dai rischi di un’anche implicita chiusura etnocentrica. Anche noi siamo usuari, non proprietari originari del luogo nel quale antiche migrazioni ci hanno depositato. Perciò, Salvatore, bisogna ben calibrare i concetti, quando scriviamo, altrimenti l’esigenza del chiarimento si pone, come stavolta, immediata e doverosissima.

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