Politica da paura

16 Ottobre 2007

IT DI STEFHEN KING La lucida e condivisibile analisi di Rossana Rossanda sul manifesto del 12 ottobre (Note antipatiche: titolo lucido anch’esso) ritiene centrale l’insufficienza delle sinistre “che si dicono radicali”, Manifesto compreso, a unire alla denuncia una proposta. Con la prospettiva (la constatazione) di diventare “un luogo puramente simbolico e contenti di esserlo”. Utile paradigma la recente consultazione sul welfare indetta dai sindacati; per Rossanda le percentuali bulgare per il sì dimostrano “che sia i pensionati sia i lavoratori dipendenti sono ormai determinati dalla paura di perdere anche il poco che hanno”.

La paura. Inutile scomodare chi – Machiavelli e Spinoza in testa – di paura, politica e miserie umane ha meditato: basterebbe riflettere sulla parola stessa precario e all’invasività della parola sicurezza per rendersi conto che ciò per cui la politica oggi fa notizia è solo e unicamente l’angoscia per ciò- che-può-succedere-se. Limitandoci a questi anni, non altrimenti è leggibile la vittoria di Prodi alle politiche del 2006 (solo la sconfitta di Berlusconi poteva far digerire uno come Mastella alle sinistre, anche se magari non c’era bisogno di farne un impresentabile ministro della giustizia). Così George Bush rimarrà probabilmente inarrivabile nel fare della paura una politica, ma anche il caso dell’assegnazione del Nobel per la pace ad Al Gore non è estraneo al meccanismo, essendo la notizia non tanto il dato positivo di collegare la pace ai temi ambientali, quanto il connotarsi dell’azione del premiato sotto il segno dell’allarme (a parere di molti dell’allarmismo).

Si parva licet, è anche il caso dei due appuntamenti ravvicinati della politica regionale, primarie e referendum sulla statutaria, drammatizzati (per primo dal presidente Soru e dai suoi sostenitori) come giudizio finale: dunque non da giudicare nel merito ma da affrontare come trincea al peggio, incarnato ovviamente dagli avversari, dentro o fuori del Pd. Il veltronismo che ci accompagnerà nei prossimi anni sarà il consolidarsi retorico di tutto ciò: “sostituire alla paura la speranza”, “la bellezza della politica” sono fra gli slogan più amati dal nuovo (nuovo?) leader. Probabilmente se dal 1992 a oggi non si fosse verificata questa tendenza all’iperbole, alla demonizzazione dell’avversario (spesso largamente giustificata), le percentuali di votanti nel nostro paese sarebbero serenamente scese su medie occidentali. Si continua così ad alimentare un clima da campagna elettorale infinita, dato particolarmente evidente in Sardegna, dove i problemi veri del governo di una situazione sociale ed economica allo stremo sono ormai in secondo piano, e lo saranno sempre più in questo ultimo anno e mezzo di legislatura.

Ragionando su Repubblica del film di Fellini E la nave va, Italo Calvino così descriveva nel 1983 questa struttura profonda della contemporaneità: “È tutto il nostro secolo che ha vissuto se stesso come la fine di se stesso, prima e durante e dopo tutti i naufragi e i Serajevo. Non è un momento ma un mondo, un’idea del mondo come fine del mondo, un’esplosione che a forza di viverci dentro finiamo per considerare come immobile e permanente”.

La politica di cui avremmo bisogno è esattamente l’opporsi, magari disperato ma obbligato, a questa immobilità, al permanere di un’idea del mondo come immodificabile. Ma ciò che accade a sinistra del Pd non è incoraggiante, non tanto per il ritardo nei processi unitari (sempre meno visibile il senso delle diverse sigle, se non nel riuscire a fare notizia nei raffinati distinguo al tavolo del consiglio dei ministri), quanto nel mostrare di esistere solo in quanto nomenklatura, piccola casta molto attenta al giro di boa delle prossime consultazioni elettorali. Ciò che è in ballo non è il ritorno di Berlusconi o la presa del potere ‘del vecchio dei vecchi partiti’ (cos’altro poteva essere un compromesso storico in minore, trent’anni dopo?), ma la fine della sinistra in questo paese: “un luogo puramente simbolico e contenti di esserlo”. Appunto.

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