Le equazioni oscure

1 Febbraio 2009

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Gian Luigi Deiana *

A un mese esatto dall’inizio della guerra di Gaza il mondo celebra “il giorno della memoria”. I popoli del mondo si chinano a ricordare, ma non possono farlo al di fuori del cono d’ombra dei bombardieri. Quella memoria e questo presente, che lo si voglia o no, stanno camminando insieme. Nessuna autorità morale potrà intimamente impedirne la consapevolezza. Nessuna acqua potè lavare le mani della signora di Macbeth, quando divenne incapace di trovare misura al proprio delitto. Il semplice sfiorarsi di queste pagine di distruzione, Auschwitz e Gaza, l’annientamento e la disperazione, costringe il pensiero ad ammutolire: ciò che le molte lingue bisbigliano,  sionismo =  nazismo, viene immediatamente interdetto, invertito e urlato dalla lingua ‘unica’ che pretende di governarle:  antisionismo = antisemitismo. Quello che era insorto come uno sgomento tacito e indicibile scatena per questa via, come sua eco immediata ed esclusiva, una automatica e furiosa censura. L’umanità accede alla verità delle proprie tragedie in modo tortuoso, ma non vi accede mai senza essersi prima irrigidita in una ostinata e stupida negazione. “Se” vi accede: gli esempi negativi sono innumerevoli, come insegna il paradosso del genocidio armeno. Non vi è memoria per lo sterminio degli indigeni americani, né per l’atomica di Hiroshima: quei popoli è come se non ci fossero mai stati, e quella bomba oggi più che mai si può riprodurre e riminacciare. Ma quando viene il tempo del riconoscimento (se questo viene) si apre un territorio nuovo, si comincia a condividere una conciliazione e la si innalza come memoria sacra: che quanto è stato non avvenga più, e che questa speranza sia per tutti. La coscienza universale della Shoah ha potuto compiere questo percorso. Non è stato e non è semplice: il carattere subdolo dei negazionismi, la pressione alla conformità intellettuale e l’appropriazione della storia da parte del potere politico negano, svendono e prostituiscono incessantemente qualunque verità, quanto più essa è innalzata come propriamente sacra (si intende, ritornando a Robespierre e a san Paolo, come memoria fondativa della fraternità e come condizione di senso della edificazione vicendevole tra gli esseri umani). Di questo percorso e di questa lotta l’umanità è debitrice nei confronti della Shoah e ne porterà per sempre il ricordo;  per questo la “soluzione finale “ che l’ha determinata è  “il male assoluto”.  In termini morali non vi è ragione di dimensionare o di relativizzare su questo, fatta salva la libertà della ricerca storica. La Shoah ci ha dato definitivamente la misura del delitto, e questo è tutto. Ma è per questo che dopo di essa non possiamo più sottrarci al “rispetto” di tutti i popoli, tutti i popoli, quando essi necessitano di vedere riconosciuto in tempo il carattere “sacro” delle sofferenze da essi vissute nella resistenza alla cancellazione. Non è facile seguire l’intreccio del vero e del falso, dell’effimero e del sacro, del cinismo e della pietà. Con tutto quello che è stato ora noi abbiamo una giusta memoria per le foibe; non ne abbiamo per Caporetto, o per l’Armir, o per i gas che abbiamo usato per fare l’Impero…  Negli anni più recenti, dopo la classica equazione Stalin-Hitler  abbiamo prodotto numerosi fac-simili usa e getta: Tito-Hitler, Milosevic-Hitler, Saddam-Hitler;  ogni volta servivavano essenzialmente per fare a pezzi delle nazioni, e infatti una volta concluso il lavoro li si gettava via, quando l’intreccio del vero e del falso si era ormai consumato sulla gente reale, ben diversa da quelle figurine. Non c’è giorno possibile per “ricordare” la Palestina; non c’è mai stato e forse non verrà. Nell’urgenza della tregua per Gaza, il cibo, l’acqua e la cura dei mutilati, non c’è tempo per “quella” memoria; non c’è mai, è così da sessant’anni e cioè da tre generazioni. La Nabka è passata da Deir Yassin, Gerusalemme, Tell al Zaatar, Hebron, Sabra, Jenin, Gaza e innumerevoli altri luoghi, ma non si è mai fermata. Alla Palestina non è concesso un passato proprio perché è costantemente crocifissa al presente: bombe, tregua, embargo, prigione, resistenza, occupazione, muri, check point, resistenza, guerra, tregua e così via senza domani, e quindi senza ieri. L’unica equazione concessa, antisionismo = antisemitismo, include le bombe al fosforo ed esclude il Tribunale Penale Internazionale. E l’unico fac-simile oggi ammesso, per quando si dovranno spostare i riflettori, è  Hitler – Amaddinejahd. E’ così che questo 27 gennaio 2009 è precipitato nella morsa delle “equazioni oscure”. E poiché non vi è modo di sfuggirvi è necessario porsi risolutamente, senza fingere sconcerto per il suono delle parole, di fronte alla seguente domanda: il popolo palestinese sta o no subendo i colpi devastanti di una dottrina di “soluzione finale”?  Certamente questa dottrina, il sionismo, è più di ogni altra la vera madre dello stato di Israele, e conserva perciò la titolarità primaria del destino e della sicurezza della nazione che vi si è riconosciuta.  E certamente la “questione palestinese” non è alimentata, nel comune sentimento degli israeliani, da una ostilità primaria quale quella che per secoli ha alimentato la “questione ebraica” nei termini dell’antisemitismo. Tuttavia la presenza palestinese “è diventata” una presenza da cancellare: ma poiché la cancellazione territoriale ( = soluzione finale) non si è compiuta, e d’altro canto la dottrina sionista non è stata modificata, il processo continua caricandosi di sempre maggiore odio e di sempre più accurata pianificazione. La vera differenza tra le due nazioni non consiste nella dotazione di armi e di capacità distruttiva (benché ciò sia di assoluta rilevanza nella possibile opzione sulla fine del conflitto), né nella potenza profonda della religione ad esse rivelata dai profeti, ma nel fatto che una di esse è mossa da una “dottrina”, il sionismo, che implica il sacrificio dell’altra: una dottrina fino ad oggi immodificata che comporta la conquista della terra, l’espulsione di chi vi abita e l’inibizione dell’uguaglianza giuridica. Questa dottrina sfida da sessant’anni le Nazioni Unite così come i carri armati spianano gli oliveti, ma gode di negazionismi, complicità e coperture innumerevoli. E questa si chiama, a parte le sensibilità nominalistiche e le finzioni alla Shimon Perez, “soluzione finale”. La speranza può essere affidata esclusivamente a una radicale revisione della dottrina, e non certo alla  cantonizzazione più o meno brutale dei territori, ma in mancanza di leader coraggiosi e di una pressione mondiale severa questo futuro resterà a lungo di là da venire. Il recente passato, a sua volta, ci ricorda che il sionismo vanta caratteri dichiarati di esclusivismo etnico e di apartheid razziale; che ha allevato in modo ricorrente e per via “democratica” la leadership di aggregazioni terroristiche sia nei partiti politici che nelle istituzioni e persino nel governo del paese (Begin); che ha invertito di 180 gradi una fragile linea di pace, disconoscendola in toto davanti al cadavere ancora caldo dell’unico suo premier che aveva avuto il coraggio di intraprenderla, e che fu per tale ragione assassinato da un attentato terroristico interno di somma gravità storica (Rabin); che ha permanentemente organizzato la propria forza militare in funzione di espliciti piani volti alla dissoluzione della presenza palestinese in Palestina (da Ben Gurion a Sharon a Olmert);  che si è opposto sistematicamente alle Nazioni Unite, fino a ridicolizzarne le risoluzioni, bombardarne le strutture e colpirne gli uomini in ogni momento storicamente decisivo. Le madri di Gaza, nel parlare dei propri figli uccisi, non dicono che sono morti: dicono che li ha presi il martirio;   militanti di Hamas, studenti, bambini, senza differenza alcuna in un trapasso che  non  si nomina come morte. Questo linguaggio esige un rispetto “assoluto”. I sessant’anni di persecuzione cui è stata assoggettata questa gente hanno consegnato alla storia una tragedia umana di tali proporzioni da non poter più tollerare negazionismi; le centinaia di migliaia di vittime di questa persecuzione (morti, feriti, mutilati, impazziti, orfani, espulsi, deportati, profughi) rappresentano nel mondo contemporaneo una ferita universale, cui ogni individuo deve poter dare il senso che matura nel suo cuore, senza censura alcuna: poiché questa ferita lacera il sentimento universale di una fraternità di natura, senza cui non c’è uomo. Questa gente, oggi, è la prima legittima testimone di quello che ci siamo dati come “giorno della memoria”.

* Associazione Sinistra Critica

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