Le varie forme del capitalismo: pregi e difetti

16 Dicembre 2016
Gianfranco Sabattini

Il capitalismo non ha una forma standard; esso non esprime un’uniforme organizzazione o qualcosa rappresentata da una rigida e universale struttura formale. Al contrario, come spiegano in “Capitalismo buono. Capitalismo cattivo. L’imprenditorialità e i suoi nemici” tre famosi economisti, William J. Baumol, Robert E. Litan e Carl J. Schramm; nel loro libro, gli autori delineano quattro forme di capitalismo e il loro impatto sulla crescita economica, ma evidenziano anche che fra i paesi che tutti non avrebbero difficoltà a definire capitalistici esistono “profonde differenze per quanto concerne l’organizzazione dell’economia, il ruolo economico dello Stato e una serie di altri attributi”.

Alcune economie capitalistiche sono prossime a forme socialistiche, mentre altre sono molto meno regolamentate. Tutte hanno un profondo impatto sul sistema economico ed è questo, secondo gli autori, il motivo per cui non è adeguato ricondurre le varie forme in cui il capitalismo può essere coniugato ad un’unica categoria; occorre, al contrario, tenere distinte le diverse forme di produzione capitalistica che supportano la crescita dei paesi al cui interno si sono storicizzate.

Gli autori classificano le economie dei diversi paesi capitalistici in quattro categorie: la prima include le economie il cui “capitalismo è diretto dallo Stato”, con il governo impegnato a “guidare” il mercato per sostenere particolari attività produttive, nella prospettiva di farne delle attività dominanti; la seconda include le economie il cui “capitalismo è oligarchico”, con la maggior parte del potere decisionale e della ricchezza disponibile detenuta da piccoli gruppi di individui; la terza comprende le economie del “capitalismo delle grandi imprese” (big firm capitalismo), con le attività economiche più importanti svolte da “gigantesche imprese consolidate”; nella quarta categoria, infine, rientrano le economie del “capitalismo imprenditoriale”, caratterizzato dal fatto che in esse le “piccole imprese innovative svolgono un ruolo significativo”.

Tutte le economie delle varie forme di capitalismo, sottolineano gli autori, hanno in comune il solo fatto di riconoscere il diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione; riguardo all’organizzazione ed alle modalità di funzionamento, esse sono invece molto diverse. Non vi è, dunque – affermano Baumol, Litan e Schramm – “un unico tipo di capitalismo dominante, né nell’insieme delle economie, né al loro interno, né nel tempo. Le economie possono dare luogo – come di fatto avviene – a combinazioni dei vari tipi di capitalismo, che variano nelle diverse fasi della loro storia”.

Anche le economie pre-capitalistiche, sottolineano gli autori, possono essere ricondotte ad una delle quattro forme di capitalismo precedentemente indicate, sebbene accada che in esse manchino del tutto le istituzioni che sono proprie del modo di produrre capitalistico. Ciò nondimeno, gli stessi autori ritengono che l’insieme delle osservazioni che essi considerano più conformi a supportare la crescita delle economie capitalistiche valga anche per quelle precapitalistiche.

Nel descrivere i caratteri delle economie classificate nelle quattro categorie considerate, gli autori avvertono di avvalersi degli output, osservabili in quanto già conseguiti, piuttosto che gli input richiesti per ottenerli, in considerazione del fatto che è molto difficile stabilire le misure idonee a condurre a quegli output.

Il capitalismo diretto dallo Stato, esiste nei Paesi nei quali è lo Stato a dirigere l’economia, per cui sono i governi e non gli investitori privati a stabilire quali attività economiche devono essere costituite e potenziate; malgrado ciò, il sistema economico nel suo complesso, con l’eccezione di alcune piccole attività, ha natura capitalistica, perché lo Stato riconosce i diritti di proprietà e quelli che discendono dai contratti, mentre i mercati stabiliscono i prezzi dei beni e dei servizi prodotti e il livello dei salari della forza lavoro occupata.

I governi, nel capitalismo diretto dallo Stato, possiedono diversi mezzi per dirigere la crescita del sistema economico; uno dei più importanti, se non il più importante, è la proprietà pubblica o il controllo pubblico del sistema delle banche, che esprime in tutte le forme di capitalismo, salvo qualche eccezione, il “canale” necessario a trasferire le risorse dai risparmiatori agli investitori. Anche se le banche non sono di proprietà pubblica, nelle economie del capitalismo diretto dallo Stato i governi possono, in ogni caso, imporre agli istituti di credito di rispettare le loro direttive, per mezzo di “energiche forme di ‘persuasione’”.

I paesi nei quali prevale il capitalismo diretto dallo Stato sono nella maggior parte quelli del Sud-Est asiatico, con in testa la Cina, e fuori dall’Asia, almeno in parte, la Russia. Si potrebbe essere tentati, osservano gli autori, di assimilare il capitalismo diretto dallo Stato al sistema di conduzione dell’economia mediante il metodo della pianificazione dal centro; tra le due forme di governo del sistema, però, esiste una sostanziale differenza: nelle economie pianificate dal centro, lo Stato non soltanto sceglie le attività produttive che devono essere privilegiate, ma è anche titolare della proprietà dei mezzi di produzione. Esso inoltre stabilisce i prezzi dei beni e dei servizi prodotti ed i salari della forza lavoro occupata, riservando scarsa considerazione per i bisogni dei consumatori.

Il capitalismo diretto dallo Stato può avere molto successo, come stanno a dimostrare i risultati conseguiti dalle “tigri asiatiche”, soprattutto dalla Cina, ma anche dall’India. Le cause del successo, a parere degli autori, possono essere comprese, se si considera che le economie dirette, prima della loro grande performance in termini di crescita, erano molto distanti dalla “frontiera tecnologica”; è bastato trovare il modo di accedere alla tecnologia estera e combinarla con i bassi costi della loro forza lavoro per riuscire ad inserirsi sulla via di una crescita sostenuta. Il capitalismo diretto dallo Stato non è però esente da rischi, il principale dei quali, oltre alla corruzione, è quello di dipendere dalla tecnologia estera; ciò non è privo di conseguenze. Quando le economie sono prossime alla frontiera tecnologica accusano l’incapacità – affermano gli autori – di “escogitare” innovazioni radicali e soprattutto di “incanalare” le risorse dalle attività a basso rendimento verso quelle più rimunerative.

Il capitalismo oligarchico è quello che ricorre nelle economie nelle quali le politiche pubbliche mirano prevalentemente a promuovere e a tutelare gli interessi di gruppi sociali ristretti; esso prevale in buona parte dell’America Latina, negli Stati nati dalla disgregazione dell’ex URSS e in molti Stati del Medio Oriente arabo e dell’Africa. All’interno delle economie oligarchiche, i governi e i gruppi dominanti possono anche avere interesse a promuovere la crescita, ma solo come “obiettivo marginale”, normalmente perseguito per impedire possibili rivolte popolari, o accrescere l’accumulazione nazionale per incrementare le loro acquisizioni senza merito.

In generale, dal punto di vista dell’interesse generale, le economie capitalistiche oligarchiche sono caratterizzate da aspetti tutti negativi; uno è rappresentato dalla molto squilibrata distribuzione del reddito e della ricchezza. Ggli altri aspetti negativi sono l’affermarsi di un’economia informale e la pervasività della corruzione; le economie del capitalismo oligarchico sono “infestate” da attività che, pur non essendo vietate, sono svolte senza la totale osservanza delle leggi vigenti; per questo motivo le attività informali vanno distinte da quelle illecite, anch’esse extralegali, ma proibite perché dannose per la conservazione della coesione sociale.

Gli autori sono del parere che i gruppi dominanti sono di solito responsabili dei bassi ritmi di crescita delle economie oligarchiche, anche per via del fatto che essi non hanno interesse a vedere aumentata la concorrenza che potrebbe originare dall’emersione delle attività informali nel mondo di quelle formali. Le economie oligarchiche soffrono anche di una persistente corruzione, ancora più diffusa di quella che si verifica nelle economie del capitalismo diretto dallo Stato; benché, osservano gli stessi autori, la corruzione non sia del tutto sconosciuta anche nelle altre forme di capitalismo. Nel complesso le economie oligarchiche non sono guidate dall’interesse alla crescita: nel caso peggiore sono governate da leader corrotti e, nel caso migliore, tendono a preservare la primazia economica dei gruppi dominanti.

Nel capitalismo delle grandi imprese, le attività produttive sono caratterizzare dalla presenza di un azionariato diffuso; i fondatori “sono usciti di scena”, perdendo il controllo effettivo dell’impresa. Tra gli azionisti sono spesso presenti, in qualità di azionisti dominanti, grandi investitori istituzionali (società di assicurazione, fondi pensionistici, fondazioni, ecc.) che demandano a manager professionali la conduzione delle imprese. In questa forma di capitalismo, presente negli Stati uniti, in Giappone e in altre economie avanzate sul piano economico, l’imprenditorialità svolge un ruolo marginale, nel senso che le grandi imprese di solito non si avvalgono dell’attività innovativa delle imprese di più piccola dimensione, controllate e gestite direttamente dai loro proprietari. Inoltre, il capitalismo delle grandi imprese è di natura oligopolistica; fatto, questo, che spiega perché le attività produttive siano assai poco innovative e dinamiche e di solito dispongano in proprio delle risorse delle quali hanno bisogno; ciò le rende autonome rispetto al mercato del credito.

Le grandi imprese oligopolistiche presentano però alcuni vantaggi, in quanto sono essenziali per le “produzioni di massa”; ciò non toglie che il capitalismo oligopolistico, ove manchi un’efficace controllo pubblico sulla posizione dominante delle grandi imprese nei mercati ove queste operano, tenda a risultare “sclerotico, restio a innovare e resistemate al cambiamento”, ai danni dei consumatori.

L’ultima categoria, quella del capitalismo imprenditoriale, include le economie caratterizzate dalla presenza di una pluralità di attività produttive in ogni segmento del mercato; in questa forma di capitalismo, presente in tutte le economie nelle quali il mercato è molto meno condizionato da vincoli pubblici e privati, prevale un alto livello di competitività tra le diverse attività produttive. Per non soccombere gli imprenditori sono propensi ad innovare incessantemente, al fine di aumentare la produttività delle risorse investite nei loro comparti di attività. Tenuto conto dell’importanza della propensione ad innovare, a parere di Baumol, Litan e Schramm, il merito del capitalismo imprenditoriale è quello “di mettere a frutto i talenti di molti individui”.

Sotto questo aspetto, gli stessi autori rilevano come ricerche sul campo abbiano consentito di constatare che l’imprenditore di una piccola-media attività produttiva guadagni meno del suo omologo manager di una grande impresa; ciò nonostante, questo minor guadagno è compensato dalla gratificazione psicologica derivante al piccolo-medio imprenditore dall’orgoglio di sentirsi autorealizzato. Questa considerazione, a parere degli autori, contribuisce a sua volta a spiegare perché gli imprenditori di piccola e media dimensione “sono avvantaggiati rispetto alle grandi imprese […]. E’ perché una porzione non irrilevante del suo ‘reddito’ è di natura psicologica che l’imprenditore fornisce innovazioni radicali a bassi costo. Spesso per la grande impresa è dunque più economico aspettare che siano gli imprenditori a sviluppare innovazioni radicali che poi possono essere rilevate”.

A parere degli autori, il capitalismo imprenditoriale è quello più idoneo a promuovere l’attività innovativa; sennonché, nessuna economia avanzata può avere sicure prospettive di crescita con i soli piccoli e medi imprenditori. Le grandi imprese restano decisive per trasformare in produzioni di massa le innovazioni del capitalismo imprenditoriale. Ogni paese che sia interessato a promuovere e a sostenere la crescita del proprio sistema economico dovrebbe, di conseguenza, fondare ogni politica pubblica sulla ricerca della combinazione ottimale tra le grandi imprese e quelle di piccola-media dimensione. Ciò significa che uno dei modi più efficaci per promuovere la crescita quando l’economia è tendenzialmente stagnante è quello di adottare politiche pubbliche idonee a spostare il tipo di capitalismo esistente verso un capitalismo dotato di una combinazione di imprese di differente dimensione; è, questa, a parere di Baumol, Litan e Schramm, la condizione utile ad attivare un “motore” per il sostegno di una “crescita più potente”.

Sulla base di queste ultime considerazioni, quali chance si offrono attualmente al nostro Paese, perché possa reinserirsi in una prospettiva di crescita più sostenuta di quella che da anni stenta ad abbandonare i ritmi molto bassi che la connotano? Se si considera che l’Italia, a cavallo della fine del secolo scorso e l’inizio di quello attuale, ha distrutto il polo pubblico della propria economia, in grado di assicurare i caratteri indispensabili del capitalismo delle grandi imprese, viene spontaneo chiedersi se i soli caratteri del capitalismo imprenditoriale, quale quello offerto dalla geografia dei distretti industriali, possa essere di per se sufficiente ad attivare il motore di una “crescita più potente” di quella ora possibile; è assai dubbio che i distretti industriali, pur dotati di eccellenze produttive, possano, da soli, rendere più ottimistiche le aspettative degli italiani.

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