L’insegnamento di Marco Ligas

2 Aprile 2024

[Roberto Loddo]

Il primo aprile 2021 ci lasciava Marco Ligas, giornalista, attivista politico e fondatore del manifesto sardo. Per le firme della nostra comunità politica è stato un punto di riferimento importante che oggi vogliamo ricordare stando vicini alla moglie Maria Grazia Del Bene e alle figlie Laura e Valeria Ligas.

Qualche anno prima della sua morte, durante uno dei nostri momenti che precedevano la riunione di redazione, mi accolse con il sorriso e mi fece leggere una serie di fogli scritti a mano quando aveva vent’anni e coordinava i giovani comunisti della Fgci della Sardegna. Era un suo intervento a sostegno della rivoluzione di Che Guevara. Scherzando gli dissi che potevamo pubblicarlo nel prossimo numero del manifesto sardo.

È un ricordo prezioso, una boccata di ossigeno che mi fa capire da che parte posso stare. Sono le relazioni umane che coltiviamo che ci fanno sentire parte di una comunità politica. E il rapporto con Marco mi ha accolto nelle lotte di chi cura il mondo fallito delle persone smarrite. Un mondo fallito delle persone che vivono la sofferenza delle disuguaglianze ognuna per conto suo, all’interno di una dimensione biopolitica egoista e individualista.

Marco scherzava spesso sul fatto che il manifesto sardo è nato prima di me. È stato fondato nel biennio del 1972 e del 1973, quando il direttore era Salvatore Chessa e alla prima redazione del manifesto sardo l’assalto al cielo sembrava più vicino. L’idea era quella di creare un giornale che provasse a ripartire dal superamento di ciò che siamo, dalla sostanza, dal linguaggio. Un giornale che guardasse la realtà che ci circonda con gli occhi delle vittime sacrificali di un sistema sbagliato.

Gli anni della fondazione del manifesto coincidono con anni di forte contestazione e vivacità culturale. La portata dirompente del movimento del 1968 era ancora viva, come era forte l’eco della guerra in Vietnam, l’assassinio di Martin Luther King e quello di Bob Kennedy, nello stesso anno in cui si giocavano le Olimpiadi in Messico e si festeggiava la vittoria della Nazionale italiana agli Europei di calcio. Nello stesso anno le astronavi andavano alla conquista dello spazio e si faceva strada la Rivoluzione Culturale del Presidente della Repubblica Popolare cinese Mao.

Il manifesto sardo di Marco è il figlio del 1968 e del primo manifesto diretto da Lucio Magri e Rossana Rossanda e a cui parteciparono Luigi Pintor che era il riferimento politico, e poi Lidia Menapace, Aldo Natoli, Valentino Parlato e Luciana Castellina. La rivista assunse posizioni in contrasto con la linea maggioritaria del PCI, che ne chiese la sospensione delle pubblicazioni. Il Comitato centrale del 25 novembre 1969 delibererà la radiazione delle giornaliste e dei giornalisti con l’accusa di frazionismo.

Marco mi raccontava spesso di un suo ex amico e compagno del Pci che, senza mai aver provato vergogna, giustificava l’esclusione dei militanti e delle militanti de Il manifesto dalla vita politica del partito con du seus binnennaus (Gli abbiamo vendemmiati).

Mi rifiuto di considerare Marco Ligas e le persone che hanno subito quella sconfitta, degli eretici. L’eresia si trovava a Mosca. L’eresia è quella di chi toglie opportunità di libertà e progresso ai popoli. Il manifesto, ancora oggi, è uno spazio di opportunità per tutti i soggetti che sono portatori di domande di conflitto, trasformazione, liberazione e cambiamento sociale.

Marco Ligas ci ha insegnato proteggere la memoria collettiva della nostra gente e a ricordarci ogni giorno perché non vogliamo più la guerra, le basi militari e le bombe. Marco è ancora vivo nelle nostre idee perché ci ricorda con i suoi articoli, con le sue parole, perché non vogliamo più un sistema basato sullo sfruttamento e sul patriarcato. Perché vogliamo gli ospedali che funzionano, e perché vogliamo che sia rispettato il diritto alla casa e al reddito.

L’insegnamento di Marco Ligas è comprendere che non ci può essere nessuna forma possibile di liberazione umana se nelle nostre lotte non consideriamo l’opportunità di connettere le classi, le identità di genere, le etnie, la disabilità, la cultura, la cittadinanza e ogni categoria umana che produce disuguaglianza.

Perché se vogliamo praticare l’uguaglianza e non considerarci profeti sconfitti del ‘900, sarà necessario fare una rivoluzione, a partire dai rapporti tra le persone, nelle relazioni umane e nella società. Dentro noi stessi.

Grazie Marco.

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