Mascheramenti rituali

16 Febbraio 2008

Mamuthone e fatina
Giulio Angioni

Carnevali barbaricini, austeri e cupi. Come a Mamoiada. Uomini a viso aperto imbrancano uomini in scure maschere, appesantiti da un grappolo di sonagli sulla schiena, a passo cadenzato, che i sonagli risuonino all’unisono. E’ la sfilata del prigioniero, del nemico legato e sottomesso, senza volto? Maschere mute e misteriose di ricordi senza tempo, visi sfigurati, visi paurosi, visi impauriti, vesti di pelli crude. Carnevale dell’uomo fatto bestia, soggiogato, punito suo malgrado o forse per sua colpa. Si parla di uomini che la notte diventano animali, buoi demoniaci. Un uomo è posseduto da un demone belluino che dell’uomo imbestiato fa strumento di terrore. In una mezzanotte qualsiasi, come una malaria, un uomo tra i tanti diventa animale, bue muggente nella campagna, in cerca di uomini da tentare alla paura, o forse alla ricerca, tra i suoi simili, dell’umanità perduta, fino all’estenuazione dell’alba, quando si ritroverà nel suo letto, perché è lo spirito che va, il corpo resta a letto. C’è chi l’ha visto, c’è chi l’ha udito, e parla di una forma belluina che trascina catene, o sonagli, occhi rossi di fuoco, il viso informe, e suono di ferro nei passi pesanti. Chi è mamuthone? E’ un uomo vinto e schernito perché nemico vinto? Il nemico millenario venuto dal mare, il moro, finalmente vinto, o che si vuole vincere in un rito propiziatorio? O non è un male più antico che si vince a carnevale a Mamoiada? Non vittorie sui mori, ma sul male che ci fa animali, più antico del moro. I pastori parlano del Boe Muliache che arriva mugghiando e s’infiltra nel gregge a disperdere le pecore nel buio, i cani impietriti dal terrore. Il suo muggito annuncia morte, dicono altrove: messaggero di morte per la casa dove si ferma, si strofina per terra come le bestie imbizzarrite, e mugghia per tre volte il suo messaggio di perdizione: suoni che fanno tremare le case e i cuori di chi sente, e capisce che il male ha da succedere. Chi c’è passato non può raccontarlo dopo che n’è uscito, dopo cure adatte alla sua liberazione. C’è sempre qualcuno che le conosce e può insegnarle, queste medicine da farsi mentre l’uomo è ancora imbestiato, imbovato, schiavizzato nella notte della sua disperazione. Si dice che l’imbovato deve strofinarsi voltolandosi per terra tre volte in luogo sacro, chiesa o cimitero, finché arriva la notte che guarisce. Perché anche l’imbovato, come tutti i malati, vuole la guarigione dal suo male. Come lo schiavo cristiano reso animale dal moro. Anche se non è solo male del corpo: è male dell’anima, anima punita e destinata a portare il male anche se non vuole, anche a chi non vuole. Cercherà mandriani validi per fermarlo, legarlo come un toro da marchiare e costringerlo al rito della liberazione. Dopo non ricorderà, e non vorrà ricordare, mai più sentirà desiderio di mascherarsi per partecipare a questo carnevale funesto senza riso. Tale è il carnevale dei Mamuthones, voce di ferro, vesti belluine, maschera dura e nera del dolore. Uomini che conducono uomini fatti bestie, presi perché nemici da tenere. Ciò che nella notte dell’imbestiato accade senza l’umana maestria, nel carnevale il nemico è tenuto a bada dall’uomo valente, nella regola antica di chi tiene e di chi è tenuto. L’antica universale aspirazione a dominare il male, in Barbagia diventa carnevale. Eppure però, per cercare di capire qualcosa dei carnevali sardi, sempre così misteriosi, più precisamente dei mascheramenti che pensiamo così tipici dei nostri carnevali, bisogna per lo meno considerare che tutta l’umanità porta e ha portato la maschera. Sbaglia chi chiama “primitive” o “selvagge” o “tradizionali” le culture dove ci si maschera. Alcuni vedono nell’abbandono della maschera, o nel suo relegarla a funzioni secondarie, l’indizio di un passaggio da un tipo di cultura a un altro, per cui, se la maschera è vista come indizio di cultura, il suo venire meno sarebbe indizio di un passaggio a un grado elevato di sviluppo, come la condizione della nascita della “civiltà”, dalla selvatichezza e dalla barbarie caratterizzate dalla maschera e dal travestimento. Ma chi non vede che anche la nostra epoca postmoderna conosce e usa la maschera e il mascheramento? Nella nostra modernità sono state fatte innumerevoli generalizzazioni sulla maschera per forma, uso, significato, da Denis Diderot a Karl Marx, da Montaigne a Lévi-Strauss, da Nietzsche a Roger Caillois, da Montesquieu a Freud, con riferimento a varie tradizioni. Infatti le maschere sono senza dubbio un fenomeno universale, tanto che lo si dovrebbe dire elementarmente umano, e infinite volte è stato ripetuto che la maschera è antica quanto l’uomo stesso. Le maschere sono presenti in attività ludiche, sono portate da guaritori ed esorcisti, sono impiegate per nascondere l’identità di membri di società segrete, sono usate nell’adorazione di divinità, per manifestare e per acquisire autorità e per molto altro ancora, compreso il mero apparire, l’estetica del corpo, tanto è vero che spesso le maschere sono messe in mostra come oggetti estetici, e non è fuori luogo che una qualsiasi maschera (compresa la celata del guerriero medievale o la maschera antigas delle guerre recenti) sia esposta più o meno esplicitamente come oggetto estetico, anche fuori del suo contesto originale. La maschera ha gli scopi occasionali più vari, da quelli pratico utilitari di una maschera teatrale greco romana usata però in un contesto altamente estetico a quelli più banalmente civettuoli della veletta o del trucco femminile, da quelli socio-politici come presso la società veneziana di ancien régime (di cui ci restano residui ludici dei carnevali veneziani di oggi) a quelli religiosi dell’isola di Bali. Non solo abbiamo antiche maschere greche ed egiziane, ma c’è più di una ragione di credere che la figura conosciuta col nome di Le Sorcier, nella Cave des Trois Frères in Francia, che rappresenta una forma di maschio cornuto di renna eretto su piedi umani, e che risale al paleolitico, sia una primitiva forma di mascheramento in rituale di possessione, più precisamente, forse, di un mascheramento rituale di un dio incarnato. Il mascheramento rituale di un dio incarnato si ritrova in molti posti nell’era paleolitica e poi dopo il neolitico, dall’Egitto a Babilonia, dalla Grecia all’Europa medievale e moderna nei suoi carnevali, e in tutto il mondo, compresi i carnevali barbaricini, con la frequenza della maschera cornuta, che però è anch’esso fenomeno mondiale dentro e fuori i carnevali.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI