Nella valle di Elah

16 Dicembre 2007

IN IRAQ
Manuela Scroccu

Quando il 20 marzo del 2003 le truppe americane, alla guida della coalizione dei “cosiddetti” volenterosi, entrarono in una spettrale Baghdad, allestendo per il pubblico mondiale l’edificante e rassicurante spettacolo dell’abbattimento della statua del tiranno con contorno di sventolio di bandiera “stars&stripes”, le voci del dissenso che non avevano rinunciato ad un minimo di senso critico, che dicevano semplicemente “sarà l’inferno”, venivano ridicolizzate da una martellante campagna mediatica a sostegno delle scelte dell’amministrazione Bush. Sono passati, ormai, quasi cinque anni.
Alla fine dei conti, i disfattisti, gli irresponsabili “pacifisti senza se e senza ma”, gli “antiamericani a prescindere” avevano ragione. La sporca guerra è ancora lì. L’autoinganno collettivo che imprigionava la coscienza democratica della società statunitense, e non solo, abilmente alimentato da politica e mass media, dell’“andiamo, abbattiamo il dittatore cattivo e ci prendiamo gli applausi dei buoni” è stato alfine svelato. Oggi si dice chiaramente, ma ancora sottovoce e senza fare troppo rumore, quello che qualche anno fa si additava come bestemmia: in Iraq è in atto una guerra civile che vede impegnate da una parte l’esercito americano (e quel che resta dei suoi alleati) al fianco del nuovo governo iracheno, dall’altra un movimento di resistenza a prevalenza sunnita di cui fanno parte blocchi disparati che vanno da ex membri del Baath e dell’esercito a gruppi religiosi etnici e tribali. Le elezioni del 2005 potevano ingannare e far gridare alla vittoria della democrazia solo certi politici delle nostre parti con la coscienza sporca. Agli osservatori più attenti sono apparse subito per quel che erano: una farsa. Gli scontri tra le varie milizie armate hanno spinto milioni di iracheni a fuggire dalle proprie case, ingrossando le file dei profughi. I costi umani, li chiamano. L’unico numero certo è quello delle perdite avute dalla coalizione: 4.188 morti e 28.000 feriti fino al 1 dicembre 2007, mentre nessuno sa dire con certezza quanti civili iracheni abbiano perso la vita. In fondo a chi interessa tenere il conto? Formalmente, l’Iraq non è neanche in guerra, è una democrazia con il cartello “lavori in corso”.
La vittoria è stata annunciata con grandi festeggiamenti nel maggio 2003 da Bush the Liar (Bush il mentitore, come lo chiamano dalle parti sue) ed infatti non ci ha creduto nessuno. Nessun Tiziano Terzani ha raccontato la seconda guerra del golfo. Ma per ogni giornalista embedded, per ogni informazione edulcorata da una stampa imbavagliata o, molto peggio, autocensurata, c’era la fotocamera digitale o il telefonino che ogni soldato, per autoesaltazione, per compiacimento, per documentare o forse solo per passare il tempo, chissà, ha portato con se nello zaino. Le immagini che arrivavano, e continuano ad arrivare, diffuse dai sistemi di comunicazione alternativi, raccontavano altre storie. Storie di torture e di civili uccisi per “sbaglio”, storie che hanno cominciato a varcare l’oceano e a turbare i sogni dell’uomo americano medio, a minare nel profondo le certezze della “grande potenza”.
A una di queste storie si è ispirato il regista Paul Haggis per il suo ultimo film “Nella valle di Elah”. Qui, secondo il racconto biblico, il gigante Golia venne ucciso dal bambino Davide.
I fantasmi di un intera nazione sono raccontati attraverso il dolore di un padre, patriota devoto e reduce del Vietnam, che vede disfarsi come un castello di sabbia in una mareggiata quelle che credeva essere le solide fondamenta della democrazia del suo paese. Hank Deerfield parte alla ricerca del figlio Mike, tornato dall’Iraq da più di una settimana e misteriosamente scomparso. Hank cerca un giovane e valoroso soldato, ritrova, invece, il corpo del figlio brutalmente fatto a pezzi e bruciato. Comincia allora il disvelamento della verità, che non è solo la risoluzione del caso giudiziario, attraverso il meccanismo narrativo del giallo, ma assume la forza di una lucidissima requisitoria contro l’imbarbarimento dell’America dell’era Bush. Il poliziotto patriottico in pensione continua a fare la piega ai suoi pantaloni e a pregare prima dei pasti, mentre tutto intorno a lui emana puzza di decadenza e di corruzione. Continua a lucidarsi le scarpe come un vero soldato anche quando si rende conto, dai filmati del cellulare del figlio, che il suo ragazzo, in Iraq, era diventato una belva feroce. Così Haggis sceglie di mostrare la crisi morale e politica di una nazione e la bandiera capovolta che appare nel finale simbolizza l’assordante grido d’aiuto di chi assiste all’inesorabile e doloroso disfacimento dei valori fondanti di una società democratica.
La malattia è ormai interna all’America stessa. “Ehi, che diresti se scoprissi che il diavolo ha la tua stessa faccia?” Così dice un giovane soldato messicano, brutto, sporco e cattivo come da tradizione, e per questo perfetto capro espiatorio, ad un ormai sempre più spaesato Hank alla disperata ricerca del “cattivo”.
La guerra anestetizza, corrompe e infetta il corpo sano di un’America scioccata dalle brutalità del mattatoio Iraq, ma che non sembra pronta a riflettere sulle responsabilità politiche di ciò che è stato. Diventa emblematico un personaggio secondario del film, il brufoloso ragazzetto dipendente del mattatoio comunale che, portato alla stazione di polizia con l’accusa di torturare le galline cavandogli gli occhi, si difende con un innocente “lo fanno tutti”. Riappare nel finale, in divisa, pronto a partire per il fronte. God Bless America. Dio benedica il resto del mondo, verrebbe da dire, che per una volta, vorrebbe veder prevalere la logica della legalità a quella del diritto del più forte, costringendo i responsabili di tali orrori a risponderne ad un Tribunale Internazionale.

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