Non abbattere le statue in nome della civiltà, ma quale civiltà?

16 Giugno 2020
[Fiammetta Cani]

Non abbattere le statue in nome della civiltà, ma quale civiltà? É con l’omicidio di George Floyd che il movimento Black Lives Matter, nato nel 2013, riporta a galla una controversa questione, le cui radici risalgono a tempi ben precedenti dei nostri: quello della rimozione dai luoghi pubblici di statue che rappresentano personaggi storici tutt’altro che lodabili. Se la discussione a riguardo ha origini ben più lontane di quanto si possa pensare, l’approccio all’argomento necessita di un’ampia e complessa analisi multidisciplinare.

Beni culturali nello spazio pubblico: quale funzione? Ci sarà spesso capitato di attraversare diverse piazze e domandarci il perché della presenza di certi monumenti, di cui difficilmente riusciamo a capire il significato. Il parallelismo con l’arte contemporanea ci aiuterà a capire quale sia la funzione sociale dei monumenti e il perché la loro presenza non sia neutra, ma modifichi il nostro vivere quotidiano, anche quando questo non viene direttamente percepito a livello conscio.

Che si tratti di una struttura più modesta o di una dalle grandi dimensioni, che si tratti della città in cui viviamo o di una che stiamo visitando, vedere un’opera come quella in immagine, ci può spesso provocare stupore e perplessità.

La funzione di tali opere è quella di modificare la nostra percezione del luogo, il nostro modo di vivere uno spazio collettivo. Queste sono precedentemente concepite proprio per il luogo in cui vengono posizionate, affinché chi attraversa quello spazio possa provare qualcosa che altrimenti non proverebbe in assenza di quel monumento, siano anche sensazioni negative.
La presenza di opere d’arte nello spazio pubblico però, non è certo un’invenzione nata con l’arte contemporanea, ha invece fondamenta ben più antiche.

L’obiettivo, anche durante tempi trascorsi, non è dissimile da quello menzionato. Quali sono le differenze tra presente e passato? Abituati all’arte come momento di contemplazione della bellezza, non concepiamo l’arte contemporanea in spazi pubblici; abituati a non vedere monumenti dedicati ai politici che negli ultimi anni hanno amministrato l’Italia, vedere quelli di chi ne ha fatto la storia, ci fa pensare semplicemente a una narrazione storica neutra. Ma quale narrazione storica?

Quante persone, oggi, troverebbero equo e non disturbante vedere la statua di un esponente della maggioranza politica attualmente in carica, collocata nella piazza di fronte alla propria casa, anche se non dovesse trattarsi di un criminale? Quante invece lo troverebbero assai disturbante, se questo fosse un pedofilo? Vista l’attuale struttura politica, trovare una statua di Giuseppe Conte, Matteo Renzi o Silvio Berlusconi, in uno spazio pubblico potrebbe sembrarci assai bizzarro. Sappiamo però come, tempo addietro, l’apparato politico permettesse con grande facilità di escludere del tutto gli avversari politici, avendo così la possibilità di creare una narrazione univoca, fatta anche di statue erette a proprio nome nel periodo in cui si amministrava determinati territori. Quel che oggi troviamo neutro, è in realtà uno spazio politico appositamente scelto per creare una determinata memoria storica, un preciso indirizzo politico per un definito periodo storico, un ideale che crea il clima del tempo.
Che dire, invece, delle statue che non rappresentano re o governanti? Imperversa in questi giorni la polemica contro la statua di Indro Montanelli, nuovamente macchiata dalla vernice. Analizziamo le implicazioni.

L’ideale di nazione, non solo una questione riguardante i beni culturali. L’acceso dibattito riguardante la rimozione delle statue nei luoghi pubblici, vede contraria anche una numerosa parte di persone che ben conosce i crimini perpetrati dalle persone rappresentate in quelle statue. Verrebbe dunque da domandarsi perché questa sia la loro posizione. Le argomentazioni vertono sulla salvaguardia dell’arte, su una millantata censura, c’è chi addirittura asserisce che si voglia cancellare la storia, o soffocare la cultura occidentale. I vari giornalisti che in questi giorni si sono espressi in merito, e che hanno difeso a spada tratta l’idea di mantenere nelle piazze raffigurazioni di colonialisti e stupratori, sanno bene quali azioni hanno commesso personaggi quali Indro Montanelli o Edward Colston. Quel che è più difficile ammettere è che, prelevare dallo spazio pubblico i monumenti a loro dedicati, significherebbe mettere in discussione secoli di dominazione coloniale, la stessa che ci viene giornalmente riproposta con un’accezione positiva. Come? Un’interessante analisi la troviamo in Colonialismo e neocolonialismo nei libri di storia per le scuole medie inferiori e superiori (Brodino, Di Giovine), che si sofferma in modo dettagliato su come i libri di storia, persino tempo dopo il fascismo storico, presentino con parole di lode la colonizzazione italiana in territori quali la Libia. La creazione dell’ideale di una nazione viene instillata nelle persone che la abitano fin dalla tenera età: “L’insegnamento della storia, specie quella contemporanea, si inscrive saldamente almeno per tutti gli anni cinquanta (e non solo) nell’ambito di una pedagogia volta ad alimentare il sentimento di identità nazionale delle nuove generazioni, che lungi dal presentare se non rarissime volte la geografia e i costumi delle popolazioni locali, passa per la negazione dell’Altro, tanto sotto il fascismo quanto all’epoca dei governi successivi”1.
Sempre riguardo la letteratura per l’infanzia, Gianluca Gabrielli, scrive: “Dopo la conquista di Tripolitania e Cirenaica le pubblicazioni riprendono un ritmo intenso, emergono nuove tematiche, come la figura dell’arabo e del turco, la celebrazione della memoria classica di Roma e una nuova declinazione dello sguardo razzizzante, mentre la presenza di accenti di critica o di dubbio quasi scompare, sommersa nella generalità dei romanzi che esaltano il destino coloniale.”
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Ma la costruzione dell’ideale collettivo che tiene in piedi una nazione non si limita all’istruzione, tocca ogni aspetto che circonda la vita di cittadine e cittadini: la musica, l’arte, il cinema. Ed è proprio a questo ultimo che dobbiamo pensare: nel 1981 esce il film Il leone del deserto, che narra della colonizzazione perpetrata dall’Italia ai danni della Libia. Il film viene censurato, in Italia, fino al 2009, perché considerato lesivo dell’immagine dell’esercito. Le fragili basi su cui si poggia il patriottismo e l’impossibilità di mettere lucidamente in discussione l’operato delle forze dell’ordine, si regge anche su censure lunghe decenni di cui non conoscevamo nemmeno l’esistenza.

Cancellare la storia? Prospettive per la contestualizzazione museale

L’ICOM (International council of museums) ha di recente messo in discussione la definizione di museo che, nel corso degli anni viene puntualmente rivista. Quella a cui si è approdati circa un anno fa, recita: “I musei sono spazi democratizzati, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sui passati e sui futuri. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano diversi ricordi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non hanno scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per le diverse comunità per raccogliere, conservare, ricercare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo, puntando a contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario”. Quando si parla di togliere alcune statue dalla pubblica piazza c’è chi parla della volontà di gruppi persone di cancellare una parte della storia occidentale. Il museo, di fatto, non si limiterebbe a esporre, ma darebbe la corretta contestualizzazione. Grazie alle placche spiegative nessuna memoria verrebbe cancellata, bensì spiegata con un linguaggio accessibile a qualsiasi tipo di pubblico, lo stesso che, passando per le piazze, non ha la possibilità di avere alcuna chiarificazione sui personaggi che vede eretti. In quale modo questa operazione potrebbe cancellare la storia, non ci è dato saperlo. Quel che viene da pensare, in merito a chi parla di memoria cancellata, è piuttosto al timore che la storia venga raccontata in modo lucido e non, di nuovo, solo dalla visione del colonizzatore.

Contestualizzazione museale, contestualizzazione storica

Un’altra sorta di contestualizzazione è nata nel dibattito: quella della contestualizzazione storica. Asserendo che non è possibile giudicare il passato con gli occhi del presente, c’è chi sostiene che fenomeni quali il madamato3 siano giustificabili perché contestualizzabili in un altro periodo storico, con un’altra coscienza collettiva. Ma siamo veramente sicuri che la contestualizzazione storica di cui tanto si parla, sia quella giusta e non, come al solito, frutto di un’idealizzazione del passato, priva di fonti storiche? A ben vedere, si può constatare come i rapporti con i e le minorenni ai tempi di Montanelli, in Italia, fossero illegali. Non solo: sappiamo che una coscienza collettiva che discrimina le violenze carnali si è sviluppata ben prima della nascita di personaggi come Montanelli, e si esplica in codici come quelli preunitari di Napoleone e nel codice penale italiano del 1889, in cui si fa esplicitamente riferimento alla corruzione dei minorenni. Quel che dobbiamo domandarci è: vogliamo normalizzare dei comportamenti perché la posizione del colonialista, ancora oggi, è la visuale a cui ci viene più comodo attingere, o vogliamo davvero contestualizzare i fatti storici?

 

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