Parlane bene (della Sardegna)

16 Maggio 2007

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un intervento col quale la Prof.Sanna offre il suo contributo alla riflessione aperta da Franco Tronci sull’identità.

di Simonetta Sanna

Intendiamoci: non parlo qui di un testo letterario, ma di una prospettiva sociale e politica, che sembra delineare fenomeni ancora vivi dietro la facciata della nostra modernità. Mi riferisco ad un diario di viaggio proposto di recente dalla casa editrice nuorese Il Maestrale: Parlane bene (della Sardegna) di Thomas Münster (1912-1983), ingegnere, ma anche scrittore che con i più famosi Grass, Böll o Enzensberger ha fatto parte del Gruppo 47. D’accordo, la sua pubblicazione in Germania risale all’ormai lontano 1958, eppure è un libro prezioso per la giustapposizione di un partecipe e profondo ‘mal di Sardegna’ – lo scrittore, dopo un primo contatto fortuito, vi tornerà più volte – con categorie sociali e politiche decisamente più avanzate. Ma, anche quando osserva l’Isola con gli occhi del cittadino europeo, finisce per ‘parlarne bene’, proprio perché fonde uno stupore affettuoso e una profonda preoccupazione. Sono questi sentimenti che gli fanno, ad esempio, percepire con estrema nitidezza un primo aspetto centrale del nostro vivere comune: l’incredibile “mancanza di senso storico” dei Sardi, per i quali “ciò che è rimasto impresso nel ricordo, è accaduto da poco tempo ed è tuttora così vivo, che anche nel ventesimo secolo non ha perduto la sua validità”. Come chiunque si guardi intorno con occhi aperti, Münster è in grado di suffragare la sua asserzione con numerosi esempi, fra cui l’anacronistica validità del detto di Carlo V: “tuttora ad Alghero vi indicheranno persino la finestra, dalla quale egli parlò al popolo. Ciò che stupisce, però, è l’interpretazione, tipicamente sarda, (poiché) da allora vale come stabilito, che cioè ogni Algherese è un nobile”. Sembrerebbe, insomma, che nella nostra pur ottima memoria l’immagine memorizzata sia “piatta e tutti gli avvenimenti storici sono visti come su un dipinto, contemporaneamente e uno accanto all’altro”. Di conseguenza, ancor oggi nell’Isola si “vive soltanto nel presente”, tant’è che si stenta a “riconoscere il senso di una pianificazione di ampie proporzioni”. Un altro aspetto centrale, intimamente connesso al primo, rinvia al perdurare dei rapporti di rete, familiari, di censo e ceto, che determinano la forte staticità della società isolana, fenomeno da cui Münster, cittadino dell’Europa del ventesimo secolo, sente che lo “separavano secoli”. Ragionando, ad esempio, sui nuraghi sparsi in tutta l’isola, egli ritiene che non fossero abitati da capi tribù, “perchè non si può suddividere il piccolo popolo sardo in diecimila tribù”. Più pertinente gli sembra l’immagine del padre-pastore, affine a quella di re-pastore di Lussu, che appare ai suoi occhi come “una figura di gran dignità, che con lo stesso gesto benedice e comanda… Era una figura regale, ma re – sempre e soltanto – della sua famiglia allargata.” E’ questa la struttura che in Sardegna “ha sempre funzionato ed essa rappresentava, nella coscienza popolare, l’ordinamento per eccellenza”. Di conseguenza, soprattutto per quei Sardi per eccellenza che vivono nell’altopiano barbaricino, il “concetto di Stato non è … una necessità mentale, poiché il loro sistema sociale, vale a dire la struttura familiare allargata, ne ha sempre soddisfatto tutte le esigenze.” Questo modo di intendere fece sì che Gialeto, proclamato re dell’intera Isola, la suddividesse subito in circoscrizioni giudiziali governate da regoli, non troppo diversamente da come ancora in tempi recenti siamo stati in grado di moltiplicare le province. Anzi, le molte isole nell’Isola provocano finanche le rivalità con i paesi vicini, come quella che Münster osserva tra Fonni e Orgosolo, anche se “agli Orgolesi non si poteva rimproverare nulla di concreto”, appunto perchè “il loro peggior difetto era che fossero Orgolesi”. Se, insomma, gli abitanti dell’Isola non sembrano allora caratterizzati da un’incontrollata brama di potere, non sembrano però conoscere neppure quella “vis sufficiente a fondare uno Stato” o un senso moderno del destino collettivo. Né conoscono un senso tutto moderno dell’individuo, cancellato come è dagli onnipresenti rapporti di rete. L’identità del singolo è definita invero dall’identità della ‘famiglia allargata’ o del gruppo di appartenenza. Perfino nel capoluogo – e “il cagliaritano è un vero cittadino” – e, anzi, addirittura al mare, dove sotto altri cieli ciascuno può essere finalmente se stesso, regna invece “un’area di noiosa mondanità”, giacché al Poetto “una persona di classe, almeno una volta, deve essere presente quando ha inizio la stagione balneare”. Ma è soprattutto l’altra metà dell’universo, sono le donne, che derivano la loro identità dall’osservanza di un codice intrinsecamente patriarcale. Così lo scrittore le ritrae mentre, da “timide, diventano spigliate e allegre conversatrici quando si ritrovano insieme in gruppo”; o annota che, “osservate singolarmente, offrono uno spettacolo di maestà regale”, mentre “quando si muovono in gruppo, allora sembrano formiche, … quasi schiave in divisa”. Ma l’assimilazione di regole conformi alle relazioni sociali fra gli uomini si manifesta soprattutto nella vicenda della bella Isa, con cui il diario si chiude. Nel giorno del suo matrimonio, volendo “mostrare ai vicini che donna virtuosa il Minnei avesse accolto in casa”, Isa, osservando il dovere dell’ospitalità, rimane dal mattino presto fino a notte tarda seduta accanto al focolare, ma qui diviene oggetto di un brindisi da parte di un ignaro maestro, appena giunto in Sardegna. E mentre nessun uomo del paese rivolgerà mai un rimprovero al forestiero, la donna è sfregiata dal marito. “Non ci fu alcuna resistenza”, né da parte sua, né da parte di suo padre, che pure assiste allo scempio. Per il paese, “colpevole, infatti, è la padrona di casa, se un ospite trasgredisce in questo modo le regole della decenza”; per Isa, poi, il volto sfregiato finirà per costituire, fra “l’invidia delle vicine”, la sua nuova identità: “E’, infatti, doveroso che di lei si ricordi che non solo era stata corteggiata da qualcuno, ma che le nuoresi antepongono l’orgoglio alla propria bellezza”. Certo, le problematiche che, con l’avanzare dell’industrializzazione, sono determinate dal perdurare di questi aspetti peculiari del nostro vivere comune possono essere solo adombrate nel lontano 1958. In ogni caso, Parlane bene registra che “l’adeguamento ai sistemi di vita europei sta avvenendo con rapidità costante e crescente”, sicché presto anche in Sardegna “la televisione, …sindacati, tariffe e settimana di quarantacinque ore” avrebbero cancellato il sistema sociale fondato sulle famiglie allargate. Anzi, anche l’oste, che per natura e per mentalità non si sentiva un cassiere, avrebbe presto abbandonato il codice dell’onore agro-pastorale e si sarebbe piegato ad “incassare denaro per i servizi resi”, e forse ne avrebbe bramato sempre di più, senza troppo sottilizzare sui modi con cui ottenerlo, anche perché le vecchie rivalità e l’invidia paesana si sarebbero presto trasferite, dai modi di essere, sull’avere. Insomma, quel “complesso d’inferiorità così radicato”, che Thomas Münster constatava nel 1958, non ci avrebbe difeso contro il degrado di una modernità che avanza, mentre il senso moderno della collettiva e la capacità di una pianificazione di più ampie prospettive, che non si arresti all’oggi – strumenti necessari per forgiare un altro destino – stentano a nascere. Così come il nostro senso della comunità diffusa non è riuscito a riversarsi produttivamente su un sistema delle autonomie ascendente, capace di garantire a comuni e province una partecipazione feconda ai processi decisionali, invece di ingessarli in un sistema di intese centripeto e discendente. Nel profluvio di discorsi stereotipati su Sardi e ‘sardità’, questo testimone esterno della nostra realtà, insieme partecipe e critico, ci invita a riflettere su alcuni nodi ancor oggi irrisolti: è come una boccata di aria pura imbattersi in autori che aiutano a capire.

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