Prendiamo una frase

1 Febbraio 2016
13.-Wassily-Kandinsky-Composizione-su-bianco-1920-olio-su-tela-San-Pietroburgo-Museo-di-Stato-Russo-©-Wassily-Kandinsky-by-SIAE-2012-480x330
Gianni Loy

Prendiamo una frase, una a caso, scritta nei giorni scorsi dai rappresentanti della Troika, cioè dal Fondo Monetario, dalla Banca Centrale Europea e dalla Commissione Europea. Una frase, una delle tante, rivolte alle istituzioni politiche dei portoghesi. Che non sono, come molti credono, coloro che entrano a sbafo negli stadi, ma gli abitanti di un piccolo pese dell’Europa Unita (?). Persone che, come e più di noi, si dibattono tra i tentacoli della crisi economica.

Prima ancora di rivelare quale sia la frase pronunciata dalla Troika, giova ricordare che quel triunvirato non è una istituzione democratica: a differenza del governo portoghese, non è affatto espressione della volontà popolare. Giova tenere a mente anche il fatto che la lettera contenente la frase di cui parliamo, potrebbe essere indirizzata a qualsiasi altro paese dell’Unione europea scelto tra quelli che, a giudizio delle “autorità monetarie”, non avrebbero i conti a posti.

Del resto, analoga corrispondenza, negli anni scorsi  è stata indirizzata anche ai presidenti di altri paesi, come Grecia, Spagna, Italia.  Dapprima in forma riservata, segreta. Poi queste missive sono diventate il segreto di Pulcinella. Qualche capo di Governo, ogni tanto, inscena qualche forma di protesta estemporanea. Rivendicando la propria autonomia, dichiara di non volersi assoggettare alle imposizioni di una autorità che, comunemente, viene indicata con il nome di Europa. Ma si tratta di rappresentazioni effimere, di una sorta di “clausole di stile”. In realtà, terminato lo sfogo, tutti quei presidenti rimettono in tasca la “lettera segreta”, si ricompongono e si organizzano per compiere, al meglio, il compito loro affidato.

Anche i più belligeranti, alla fine, si arrendono. Così è stato per Tsipras, che ha persino scomodato il popolo con un referendum. Così per Mariano Rajoy che, vista la propensione conservatrice,  si è adeguato volentieri. Così è stato per diversi presidenti del Consiglio italiani. Il più onesto è stato Monti: in un intervista allo Spiegel rilasciata il 5 agosto del 2012, ha infatti rivelato che compito del governo è quello di “educare le Camere” (sic): “Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttive del mio parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles.”

Qualche giorno fa è toccato, ancora una volta, al Portogallo. Gli ispettori si sono nuovamente presentati per consegnare la pagella. La Troika, a differenza delle Agenzie, private, di rating (come Standard & Poor’s, Moody’s)  che, in cambio di un lauto compenso, danno i voti agli Stati, si affida ancora ai giudizi. Perché il Portogallo non riesce riesce ad uscire dalla crisi economica? Perché continua ad avere un debito pubblico immenso ed ha sinora restituito appena 2 miliardi di euri dei 78 che gli altri paesi europei gli hanno, generosamente, prestato?

La risposta la si può trovare nell’ultima pagella: il Portogallo non riesce ad uscire dalla crisi perché “è ancora difficile licenziare i lavoratori” e perché “la formazione dei salari si mantiene centralizzata a causa della contrattazione collettiva”. L’espressione “a causa della”, ovviamente, deve intendersi come “per colpa della”. Poco importa  se il diritto alla contrattazione collettiva sia un diritto costituzionalmente garantito e faccia parte dei  diritti fondamentali dell’Unione europea.

Partendo dalla premessa maggiore per cui la contrattazione collettiva produce l’effetto di mantenere elevati i salari; se introduciamo, quale premessa minore, il postulato secondo il quale la riduzione dei salari determinerebbe un aumento della produttività, si giunge, ovviamente, alla conclusione secondo la quale la contrattazione collettiva va abolita. Il processo, peraltro, è già in pieno svolgimento. I contratti collettivi aziendali, in Italia, possono già derogare in peius non soltanto rispetto alla contrattazione nazionale, in attesa che venga cancellata del tutto, ma persino alle garanzie previste dalla legge.

Dire contratto aziendale, nelle piccole e piccolissime imprese, è come dire che siamo tornati al contratto individuale, all’unica forma contrattuale riconosciuta prima che nascesse il diritto del lavoro come diritto speciale rispetto al diritto civile. Tocca ripetersi: qualcuno la definisce riforma, a me sembra un’altra manifestazione della restaurazione. Chissà che non ritorni anche il re: gli aspiranti non mancherebbero.

I signori della Troika osteggiano la contrattazione centralizzata dei salari per il semplice fatto che la forza contrattuale delle categorie dei lavoratori, se rappresentate nel loro insieme a livello nazionale, è assai più forte di quella di un gruppo di lavoratori che debbano contrattare il proprio salario direttamente  con il proprio datore di lavoro. L’aspetto sostanziale, quello che più importa agli economisti, in definitiva, è quello di poter ridurre i salari, forma poetica che, in forma prosaica, suonerebbe: pagar meno i lavoratori. Quindi, aggiungo io, attingendo agli economisti classici e non a Carlo Marx,  riducendo il costo del lavoro per incrementare i profitti.

Qualche economista, ancora infatuato delle “supposte” leggi del mercato, mi correggerebbe nel senso che il sacrificio dei lavoratori  (guarda caso) favorirebbe invece la competitività e, quindi, le esportazioni.  Parliamo del Portogallo, ma si tratta degli stessi “suggerimenti”  graziosamente forniti anche alla Spagna, alla Grecia, all’Italia… E dire che il Governo portoghese aveva appena aumentato il salario minimo del 5 per cento, portandolo a 618 euri al mese. Con tale somma, come a tutti è noto, ci campa una famiglia e ci possono scappare anche i bagordi. E non si dimentichi che, in altre occasioni, gli stessi signori hanno formalmente invitato gli Stati che lo prevedono a ridurre il salario minimo.

Se tutte le cose che si strombazzano in giro fossero vere, il Portogallo avrebbe già, senza bisogno di affamare ulteriormente i propri lavoratori, un discreto vantaggio competitivo, visto che il salario minimo nella vicina Spagna è già più elevato e che poco più in là, in Francia, è di 1457 euri per un orario settimanale di 35 ore, come del resto in Belgio, Olanda, e Regno Unito.

Mi chiedo anche perché a tutti i paesi in crisi di quest’Europa unita venga suggerita la stessa ricetta, quella di fondare il proprio riscatto sull’export. Da dilettante dell’economia, immagino che mentre il Portogallo punta ad esportare in Italia in Spagna ed in Grecia, ad esempio, l’Italia  sua volta punterà sugli stessi mercati esteri. A meno che questa forsennata caccia all’export non debba essere indirizzata verso  i paesi ricchi, cioè evitare la concorrenza tra poveri ed insidiare i mercati più solidi, quelli che possiedono un più alto potere di acquisto. Alto potere di acquisto che, inevitabilmente, non può che derivare da un più elevato livello salariale.  Quindi, secondo una elementare logica, ma magari mi sbaglierò, in che modo i lavoratori portoghesi, mediante la riduzione dei salari, quindi con la riduzione del proprio potere d’acquisto,  potranno raggiungere un accettabile livello di benessere?

Sarà un ritorno della politica dei due tempi? Quella che: adesso fai i sacrifici e dopo arriveranno le vacche grasse. Quella che: adesso mangia la mela che dopo diventerai come Dio! Che sappiamo come è andata a finire, per Eva e per tutti noi.

A meno che, ma questa è soltanto una mia illazione, il vero interesse di chi ha inviato i propri ispettori in Portogallo sia un altro, quello di far si che il Portogallo possa rimborsare i propri debiti e non rischi di destabilizzare il precario equilibrio su cui si fonda l’Europa e, soprattutto, la sua unità monetaria.

Ma ridurre i salari, evidentemente, non basta. Tra le gravi insufficienze segnalate, come si è detto compare anche la seguente: , “è ancora difficile licenziare i lavoratori”.  Ci abbiamo messo oltre un secolo far si che i lavoratori superassero quella forma di soggezione caratterizzata soprattutto dal fatto di poter essere licenziati liberamente e senza motivo. Sapete come viene ancora definita, nei libri di testo, la libertà di recedere dal contratto senza motivo? Licenziamento “ad nutum”, espressione latina che significa “con un semplice cenno del capo”.

Così, senza neppure proferire una parola, un semplice sguardo, una smorfia, un ghigno… e capisci da solo che devi andartene. Ed ora vogliono farci credere che l’economia di una nazione si risolleva   rendendo più facile il licenziamento dei lavoratori subordinati? Ma la cosa peggiore, di fronte a questo drammatico ritorno al passato,  quella sorta di neo-feudalesimo che è dietro l’angolo, è che sempre meno riusciamo ad indignarci.

Ma perché racconto queste cose?

 

Nell’immagine: Dipinto di Wassily Kandinsky, Marnau (paesaggio d’estate), 1909, olio su cartone, San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

 

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