Quale ruolo per il sindacato?

16 Aprile 2014
Lavoro Minorile e la Rivoluzione Industriale Inglese
Gianfranco Sabattini

Il conflitto in atto all’interno del sindacato più importante d’Italia, la CGIL, tra il segretario della FIOM Maurizio Landini e il segretario generale Susanna Camusso palesa o ripropone il dilemma di quale debba essere il ruolo del sindacato dal punto di vista della tutela, non solo degli interessi del mondo del lavoro, ma più in generale di quelli dell’intero sistema-paese, al cui interno l’attività sindacale viene svolta.
In altri termini, il sindacato deve essere unicamente attento, costi quel che costi, a far sì che le sue “posizioni di lotta” non siano mai in forte contrasto con le linee dell’azione politica condotta dai partiti, oppure deve essere portatore di istanze critiche verso quelle linee di azione, sino a pretendere di dover essere ascoltato sulle ipotesi di riforma del sistema sociale, destinate ad influire sulle condizioni economiche immediate dei rappresentati, in una prospettiva temporale più o meno lunga? La risposta è intrinseca al modo in cui si considera la natura del rapporto che, funzionalmente, dovrebbe sempre esistere tra sindacati e partiti politici.
Nell’immaginario collettivo, i sindacati dovrebbero avere lo scopo di difendere e promuovere gli interessi dei lavoratori subordinati nei confronti di tutti i datori di lavoro, pubblici o privati che siano, ma anche di difendere i loro diritti nella definizione delle procedure da osservare durante lo svolgimento del rapporto di lavoro e nei momenti del rinnovo dei contratti. Nell’esperienza delle società industriali si è però affermata, riduttivamente, l’idea che i sindacati debbano occuparsi della contrattazione delle condizioni retributive e normative a livello nazionale, territoriale e aziendale, nonché del controllo e della verifica dell’applicazione delle normative contrattuali e di legge che regolano i rapporti di lavoro.
Nel consolidamento di questa esperienza, complesso è sempre stato il rapporto dei sindacati coi partiti, soprattutto con quelli più sensibili alle problematiche del mondo del lavoro. In tal caso, lottando entrambi per gli interessi delle classi lavoratrici, spesso i sindacati ed i partiti dei lavoratori (soprattutto quelli socialisti) si sono trovati su posizioni molto vicine o coincidenti. Tale stato di cose, secondo alcune linee di pensiero non disinteressate, avrebbe portato ad una confusione dei ruoli, con perdita di efficacia sia dell’azione sindacale, che di quella politica. Si sono affermate così due linee interpretative: una che afferma la separazione tra sindacati e partiti, nel senso che i primi devono occuparsi degli “interessi economici immediati dei lavoratori”, mentre i secondi devono curare più in generale gli aspetti politici e il governo della società nell’interesse di tutti. L’altra linea interpretativa considera i sindacati come “cinghia di trasmissione” tra i partiti e il mondo del lavoro; nell’ottica di questa seconda linea interpretativa, i partiti e i sindacati, pur dotati di funzioni differenti, devono però conservare un’unità d’intenti, nel senso che i secondi devono essere strumentali all’azione dei primi.
La separatezza dell’azione dei sindacati da quella dei partiti è sempre stata criticata, ad esempio, da Antonio Gramsci, secondo il quale la scissione tra economia e politica non è altro che un’astrazione teorica della necessità empirica, tutta pratica, di scindere provvisoriamente l’unità attiva dell’azione sociale, per meglio studiarla e comprenderla. Ma la società, come l’uomo, è sempre e solo una unità storica e ideale, che si sviluppa negandosi e superandosi continuamente.
La critica gramsciana riflette in parte le osservazioni di B. Croce e di V. Pareto, svolte in occasione della loro disputa sul metodo, all’inizio del secolo scorso; infatti, a differenza del primo, ma come il secondo, Gramsci accetta che, per motivi di studio e sul piano squisitamente formale, l’aspetto economico dei fatti sociali possa essere separato dall’aspetto politico; ma, a differenza del secondo e come il primo, egli afferma anche che i fatti sociali vanno considerati, sul piano dell’azione e delle decisioni volte a governarli, nella loro indissolubile unità, nel senso che non è possibile decidere su uno di essi, economico o politico che sia, senza valutare congiuntamente gli aspetti, tanto politici che economici. Persistere nel tenere separate l’azione dei sindacati da quella dei partiti, significa spingere sindacalisti e politici a commettere lo stesso errore, portando i primi ad escludere arbitrariamente dall’unità dell’attività sociale le valutazioni politiche, e i secondi, per contro, quelle economiche; quando ciò accade, gli uni fanno della cattiva economia e gli altri della pessima politica.
E’ molto lontana quest’ultima riflessione dal come si svolgono in Italia le relazioni tra le cosiddette parti sociali? Quel che sta accadendo all’interno della CGIL (ma non negli altri sindacati: CISL e UIL, che sembrano essersi acquietati nello svolgimento di una funzione ancillare rispetto ai partiti) non è tanto un problema di democrazia interna, quanto la presenza di un pregnante oggetto del contendere: è quanto espresso dall’urgenza avvertita dalla FIOM, ma non dell’attuale segreteria della CGIL, di pervenire al superamento di ogni condizionamento del sindacato proveniente dall’azione politica. Considerate le condizioni in cui versa il paese e le misure con cui il governo intende rilanciare l’occupazione e la crescita, potrebbe essere utile, nell’interesse di tutti, un sindacato più critico e più vigile sulle scelte di fondo che la classe politica dovrebbe compiere, per portare definitivamente fuori dalla crisi il sistema-Italia.

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