Sono già passati dieci anni?

16 Maggio 2013

Pdup 75

Gigi Sullo
Sono già passati dieci anni? Che strano. Anzi no, stupirsi è naturale. Uno come me, serenamente convinto che non esista alcun al di là, sa che le persone che ti sono state a cuore continuano a vivere, in un certo modo, nelle cose che pensi e che fai, nelle pieghe del tuo carattere e nel tuo modo di guardare il mondo, nelle cicatrici impresse sui tuoi neuroni. Per me questo è caso di Luigi, come dell’altra figura che ha accompagnato tutta la mia vita professionale e soprattutto umana, Piergiorgio Maoloni, ancora dei miei familiari- madre, fratello e padre – oggi tutti scomparsi, e quasi basta.
L’inizio e la fine (anche se in effetti non è mai davvero finita) della mia vicenda nel manifesto, quotidiano comunista, 1977 e 1999, hanno l’impronta di Luigi. Ero arrivato da poco più di un anno, quando lui torno al gornale che aveva abbandonato per dissapori con altri tra i fondatori. Trovò alcuni estranei, tra cui me, messo precocemente a fare il redattore capo. Un giorno misi in pagina una notizia sul Pdup, che era appunto la fonte di quei dissapori, e questo signore che io non conoscevo fece una delle sue rarissime scenate: se la prese con me. E io, dopo un attimo di sconcerto, replicai sullo stesso tono, cioè gridando. “L’hai fondato tu, il Pdup, sono faccende tue, non scassarmi…”, urlavo tra l’orrore generale. Nessuno si era mai azzardato. Tutti tacevano. Mi alzai di scatto e andai in un’altra stanza a trafficare con la macchina da scrivere, e dopo qualche minuto sentii una mano che si posava sulla mia spalla e una voce che diceva: “Non te la prendere”.
Ventidue anni dopo comunicai a Valentino che mi sarei licenziato dal giornale: volevo creare un altro giornale, che poi nacque con il nome di Carta e durò a sua volta una dozzina d’anni. Non dissi nulla a Luigi. Però un pomeriggio entrò nella stanzetta in cui ero da solo, il mio ufficio, prese una sedia, si sedette guardando la finestra, restò lì in silenzio per diversi minuti, tanti da diventare imbarazzanti, poi si alzò e uscì. Nemmeno una parola.
Tra il primo e il secondo episodio ero diventato una persona molto diversa. Specialmente grazie a Luigi, ai suoi silenzi, a quel che scriveva, al suo stile asciutto, alle sue indignazioni e ai suoi principi. Non che fosse una persona facile. Il massimo dell’affetto che mi dimostrò, in modo esplicito, furono quelle poche parole dell’inizio e il mutismo della fine. Ma io, che ero un po’ presuntuoso come sono in generale i giovani, imparai prima di tutto il rispetto, verso di lui, verso me stesso e specialmente verso quell’entità apparentemente astratta ma in verità così presente chiamata “i lettori”.
Quando morì Enrico Berlinguer, in quel modo tragico, Luigi si ritirò nella sua stanzetta, davanti alla macchina meccanica che ci permetteva con il tuo tip-tap di capire se stesse scrivendo o no, e ne uscì qualche ora dopo con il pezzo più lungo che avesse mai scritto (in seguito ne scrisse un altro così, era su Gandhi, quando uscì il colossale film di Attenborough, e lui ne era rimasto affascinato), leggendo il quale capii cosa volesse dire l’ormai abusata espressione di Gramsci, la “connessione sentimentale”. Pintor, che era stato scacciato dal Partito (lui lo pensava con la maiuscola, ne sono sicuro) anche grazie a Berlinguer, aveva “sentito”, prima ancora di analizzare, l’enorme emozione, il grande lutto popolare, che la morte del segretario del Pci aveva provocato. E ne era diventato parte lui stesso, riconoscendo che, pur nelle politiche sbagliate che aveva scelto di fare, Enrico Berlinguer era stato forse l’ultimo ad incarnare, letteralmente, l’ammirazione delle masse (uso questa parola con intenzione) per il rigore, lo stile, l’umanità di un dirigente politico. (E d’altra parte ne era stato ricambiato, quando Berlinguer, poco prima di morire, alla domanda su chi fosse il miglior giornalista italiano, rispose con un vago sorriso “Luigi Pintor”).
Così, per molti anni feci la spola, in senso proprio, tra la laconicità e la capacità di cogliere il senso di un fatto o di un periodo, la rabbia fredda nei confronti di imbroglioni e mentitori, insomma chi scavava ineguaglianza, cioè Luigi, e il lavoro minuto, dettagliato, ed esplosivo, di Piergiorgio Maoloni, il miglior grafico (“la grafica non esiste”, diceva però lui) che la carta stampata abbia avuto in Italia, che mi spingeva, disegnando e ridisegnando il giornale, tra la fine degli ottanta e la metà degli anni novanta, a esplicitare, mostrare, articolare, reinventare i segni della comunicazione ben oltre la pura parola scritta.
E Luigi lasciava fare, guardando e capendo tutto ma quasi senza commentare o correggere. I due si guardavano con curiosità, le rare volte in cui si incontravano di persona, e io ero in tensione, temevo una esplosione o un sarcasmo che non vennero mai. Forse avevano compreso che l’uno e l’altro, ciascuno con i suoi mezzi, tentavano di dire parole eccentriche in un modo nuovo. E il compimento di questo tentativo fu il giornale che facemmo nel ’94, che uscì in edicola pochi giorni prima della prima vittoria elettorale di Berlusconi e un mese prima di quel 25 aprile milanese che percorremmo tutto, metro dopo metro, io a fare da compagno di strada di una persona non alta, non robusta, in giacca e cardigan di cachemire (sì, era la sua debolezza), completamente inzuppato da una pioggia così insistente e fitta da sembrare una sfida al nostro coraggio, e che però camminò per ore con un sorriso sulla faccia che raramente gli avevo visto: perché “i lettori” si erano infine materializzati nelle centinaia, migliaia di persone di tutti i generi che, riconoscendo Pintor lo applaudivano, gli stringevano la mano, qualcuno azzardava un abbraccio, lo circondavano e lo stringevano come un amico d’infanzia ritrovato.
Possiedo una sola fotografia di quel giorno. La scattò una lettrice che poi la mandò al giornale. Si vede il piccolo striscione che annunciava “il manifesto” e, sotto, Luigi come incerto, forse assalito dalla sua ritrosia; ci sono io, allampanato e sbilenco; c’è Gabriele Polo, allora all’esordio nel giornale, che reggeva lo striscione da un lato; e a reggere l’altro capo Rina, Rina Gagliardi, che ci ha lasciato qualche anno fa, con un cappotto di lana che la pioggia aveva gonfiato e che doveva pesare un accidente. Siamo lì, felici di trovarci in una enorme buona compagnia.
Luigi non è il mio passato: ogni volta che comincio a scrivere la prima riga di qualunque cosa penso a lui. Non per imitarlo, ovvio, ma perché ho bisogno, se voglio comunicare, del suo maggiore insegnamento: l’apparente contraddizione tra lo sdegno, lo scandalo, che bisogna saper coltivare, per il mondo come esso è, e la misura, l’assenza di retorica, gli accenti di verità con cui si deve raccontarlo, capirlo, denunciarlo.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI