Su gli “Angeli e Demoni”. Perché il nostro viaggio verso l’inferno abbia presto una fine.

1 Luglio 2019

Militari Israeliani arrestano un Palestinese in seguito a manifestazioni ad Hebron, West Bank, Dicembre 2017 (Wisam Hashlamoun / Anadolu Agency)

[Aldo Lotta]

L’OIM: Quasi 40.000 i migranti morti nel mondo dal 2000. Il Border Patrol, la polizia di confine Usa, ha rifiutato i pannolini, altri articoli sanitari e giocattoli che un gruppo di volontari voleva donare ai bambini rinchiusi in un centro di detenzione di El Paso in Texas. Funzionari di governo hanno sostenuto di fronte ai dei giudici federali che il sapone, gli asciugamani e gli spazzolini da denti non costituiscono un diritto mentre dormire per terra su pavimenti di cemento non rappresenterebbe una violazione della legge. Un uomo salvadoregno annegato con la figlia di quasi due anni,Valeria Ramirez nel fiume Rio Grande a Matamoros, mentre cercava di attraversare il confine e arrivare in Texas, negli Stati Uniti, dal Messico. È morta di sete dopo aver passato una notte in un centro di detenzione per immigrati irregolari in New Mexico, Usa, e dopo una vana corsa in elicottero a un ospedale di El Paso. Jackelin Caal Maquin, una piccola guatemalteca di 7 anni. Documenti falsi, sedute per suggestionare i piccoli e altre accuse, i bambini sarebbero stati suggestionati anche con l’uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come “macchinetta dei ricordi”, un sistema che in realtà avrebbe “alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari. Secondo l’UNICEF 40.000 bambini nel 2014 lavoravano nelle miniere di cobalto e di coltan della Repubblica del Congo per la produzione dei telefonini, computer, piattaforme di videogiochi, batterie per automobili.

L’emozione di indicibile orrore di fronte alle immagini che accompagnano sul web alcune di queste notizie rischia purtroppo di essere un sentimento transitorio. In effetti si tratta di immagini che scardinano dei tabù e rimandano alla “banalità del male”, conducendoci ben oltre l’attimo e il luogo contingenti.

Bambini nelle miniere di coltan della Repubblica del Congo (Amnesty International)

E, quindi, difficilmente tale emozione è a lungo tollerabile. Possiamo ricordare a tale proposito la vicenda mediatica riguardante Alan Kurdi, il bimbo siriano di origine kurda annegato nel Mediterraneo (purtroppo da quel settembre 2015 UNICEF, UNHCR E OIM calcolano che più di 340 bambini siano annegati, con ben minori riscontri giornalistici, nello stesso mare).

Ma di fronte ad alcune di queste immagini Bernie Sanders osserva “Una nazione non è misurata sulla base di quanti miliardari ha, ma per come tratta i bambini, gli ammalati e i poveri”.

Un buon terreno di prova del nostro grado di tolleranza delle trasgressioni dell’etica comune e del diritto internazionale, anche e in gran parte nei confronti dei minori, è certo rappresentato dalle politiche oppressive e di apartheid da parte dei governi israeliani. La questione palestinese, a noi tanto attigua sul piano geografico e storico, ma lungi dal costituire un tema mediatico quotidiano, è paradossalmente un nodo intorno a cui da più di mezzo secolo si registrano discutibili, a volte criminali, scelte politiche ed economiche che hanno conseguenze di portata globale.

Ritenendo sia qui superfluo e pleonastico ribadire questioni e concetti tante volte sanciti dal diritto internazionale non “di parte”(O.N.U. , Amnesty International , B’Tselem, Defense for Children International, Breaking the Silence…) vorrei riportare, di seguito, un articolo a firma di una giornalista israeliana apparso su Haretz nel marzo di questo anno. Articolo ripreso, colla speranza di una estesa diffusione, da AURDIP (Association des Universitaires pour le Respect du Droit International en Palestine, con sede a Parigi) in Francese e in Inglese e che ho ritenuto giusto tradurre anche nella nostra lingua.

https://www.aurdip.org/endless-trip-to-hell-israel-jails.html?lang=en

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium.MAGAZINE-israel-jails-hundreds-of-palestinian-boys-a-year-1.7021978

‘Viaggio Infinito all’Inferno’: Israele imprigiona centinaia di ragazzi palestinesi all’anno. Queste sono le loro testimonianze

24 Marzo | Netta Ahituv per Haaretz

Vengono catturati nel cuore della notte, bendati e ammanettati, maltrattati e manipolati perché confessino crimini che non hanno commesso. Ogni anno Israele arresta quasi 1.000 giovani palestinesi, alcuni dei quali non ancora tredicenni.

Era un pomeriggio cupo, tipicamente freddo di fine febbraio, nel villaggio di Beit Ummar, in Cisgiordania, tra Betlemme e Hebron. Il tempo non aveva scoraggiato i bambini della famiglia Abu-Ayyash dal giocare e divertirsi all’aperto. Uno di loro, con un costume da Spiderman, recitava la parte saltando da punto all’altro. All’improvviso notarono un gruppo di soldati israeliani che arrancavano lungo il percorso sterrato dall’altra parte della strada. Immediatamente le loro espressioni passarono dalla gioia al terrore e si precipitarono in casa. Non era la prima volta che reagivano così, dice il loro padre. In realtà, è diventato abituale da quando Omar, 10 anni, è stato arrestato dalle truppe lo scorso dicembre.

Il bambino di 10 anni è una delle molte centinaia di bambini palestinesi che Israele arresta ogni anno: le stime vanno da 800 a 1.000. Alcuni hanno meno di 15 anni; alcuni sono persino dei preadolescenti. Una mappatura dei luoghi in cui avvengono queste detenzioni rivela un certo schema: quanto più un villaggio palestinese è vicino a un insediamento [coloniale n.d.t.], tanto più è probabile che i minori che risiedono lì si troveranno nella custodia israeliana. Ad esempio, nella città di Azzun, a ovest dell’insediamento di Karnei Shomron, non c’è quasi una famiglia che non abbia mai avuto l’esperienza di un arresto. I residenti dicono che negli ultimi cinque anni sono stati arrestati più di 150 alunni dell’unica scuola superiore della città.

In ogni momento, ci sono circa 270 adolescenti palestinesi nelle prigioni israeliane. La ragione più diffusa per il loro arresto – lancio di pietre – non racconta tutta la verità. Le conversazioni con molti giovani, così come con avvocati e attivisti per i diritti umani, compresi quelli dell’organizzazione per i diritti umani B’Tselem, rivelano un certo modello, anche se lasciano aperte molte domande: ad esempio, per quale ragione lo stato di occupazione preveda che gli arresti siano violenti e, di conseguenza, sia necessario minacciare i giovani.

Un certo numero di israeliani, la cui sensibilità è ferita dagli arresti di bambini palestinesi, hanno deciso di mobilitare e combattere il fenomeno. All’interno di un’organizzazione chiamata Parents Against Child Detention, i suoi circa 100 membri sono attivi nei social network e organizzano eventi pubblici “al fine di aumentare – come spiegano – la consapevolezza sulla portata del fenomeno e sulla violazione dei diritti dei minori palestinesi, e in modo da creare un gruppo di pressione che lavori per la sua cessazione”. Il loro target di riferimento sono altri genitori, che sperano rispondano con empatia alle storie di questi bambini.

In generale, non sembra mancare la critica al fenomeno. Oltre a B’Tselem, che si occupa con regolarità del tema, c’è stata anche una protesta dall’estero. Nel 2013, l’UNICEF, l’agenzia delle Nazioni Unite per i bambini, ha condannato “il maltrattamento dei bambini che vengono a contatto con il sistema di detenzione militare [che] sembra essere diffuso, sistematico e istituzionalizzato”. Un rapporto di un anno prima da parte di esperti britannici su questioni legali ha concluso che le condizioni a cui sono sottoposti i bambini palestinesi equivalgono alla tortura e solo cinque mesi fa l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha deplorato la politica israeliana di arrestare i minori, dichiarando: “Si deve porre fine a tutte le forme di abuso psicologico di bambini durante l’arresto, il transito e i periodi di attesa e durante gli interrogatori”.

L’arresto

Circa la metà degli arresti di adolescenti palestinesi viene effettuato nelle loro case. Secondo le testimonianze, i soldati delle Forze di Difesa Israeliane di solito irrompono nella casa nel cuore della notte, afferrano il giovane ricercato e lo portano via (sono pochissime le ragazze detenute), lasciando alla famiglia un documento che dichiara dove è trattenuto e con quale accusa. Il documento stampato è in arabo ed ebraico, ma il comandante in genere compila i dettagli solo in ebraico, quindi lo consegna ai genitori che potrebbero non essere in grado di leggerlo e non sanno perché il figlio è stato catturato.

Il procuratore Farah Bayadsi chiede perché sia necessario arrestare i bambini in questo modo, invece di convocarli per interrogarli in modo regolare. (I dati mostrano che solo il 12% dei giovani riceve una convocazione per un interrogatorio).

“So per esperienza che ogni volta che qualcuno viene convocato per essere interrogato va”, osserva Bayadsi. Lei è impegnata nella sezione israeliana di Defense for Children International, una ONG internazionale che si occupa della detenzione dei minori e della promozione dei loro diritti.”

La risposta che riceviamo in genere – dice – è che ‘si fa così per motivi di sicurezza’. Ciò significa che si tratta di un metodo deliberato, che non è destinato ad andare incontro ai giovani minorenni ma a causare loro un trauma inestinguibile”

Infatti, come l’Ufficio del Portavoce dell’IDF ha dichiarato a Haaretz, in risposta, “La maggior parte degli arresti, sia di adulti che di minori, viene eseguita di notte per ragioni operative e per il desiderio di preservare un tessuto ordinato di vita ed eseguire azioni specificamente mirate ovunque possibile.”

Circa il 40% dei minori è detenuto nella sfera pubblica – di solito nell’area degli incidenti che coinvolgono i lanci di sassi contro i soldati. È stato il caso di Adham Ahsoun, di Azzun. All’epoca aveva 15 anni e stava tornando a casa da un negozio di alimentari locale. Non molto lontano, un gruppo di bambini aveva iniziato a lanciare sassi contro i soldati, prima di scappare. Ahsoun, che non è fuggito, è stato arrestato e portato su un veicolo militare; una volta dentro venne colpito da un soldato. Alcuni bambini che hanno visto quello che era successo sono corsi a casa sua per riferirlo a sua madre. Dopo aver preso il certificato di nascita di suo figlio, lei si è precipitata all’ingresso della città per dimostrare ai soldati che era solo un bambino. Ma era troppo tardi; il veicolo era già partito, diretto a una base militare nelle vicinanze, dove avrebbe aspettato per essere interrogato.

Per legge, si suppone che i soldati ammanettino i bambini con le mani davanti, ma in molti casi viene fatto con le mani posteriormente. Inoltre, a volte le mani del minore sono troppo piccole per essere ammanettate, come un soldato della brigata di fanteria Nahal ha detto alla ONG Breaking the Silence. In un’occasione, ha riferito, la sua unità ha arrestato un ragazzo “di circa 11 anni”, ma le manette erano troppo grandi per bloccare le sue piccole mani.

La tappa successiva è il viaggio: i giovani vengono portati in una base militare o in una stazione di polizia in un insediamento vicino, con gli occhi coperti da un fazzoletto di flanella. “Quando i tuoi occhi sono coperti, la tua immaginazione ti conduce nei posti più spaventosi”, dice un avvocato che rappresenta i giovani Palestinesi. Molti degli arrestati non capiscono l’ebraico, quindi una volta spinti sul veicolo dell’esercito sono completamente tagliati fuori da quello che succede intorno a loro.

Nella maggior parte dei casi, il giovane ammanettato e bendato verrà spostato da un posto all’altro prima di essere interrogato. A volte viene lasciato fuori, all’aperto, per un po’. Oltre al disagio e allo smarrimento, i frequenti spostamenti in giro presentano un altro problema: nel frattempo hanno luogo, senza essere documentati, molti atti di violenza, in cui i soldati picchiano i detenuti.

Una volta alla base dell’esercito o alla stazione di polizia, il minore viene posto, ancora ammanettato e bendato, su una sedia o sul pavimento per alcune ore, in genere senza ricevere nulla da mangiare. Il “viaggio infinito all’inferno” è come Bayadsi descrive questo processo. La memoria dell’incidente, aggiunge, “è ancora lì anche a distanza di anni dalla liberazione del ragazzo. Implica in lui un sentimento continuo di mancanza di sicurezza, che rimarrà con lui per tutta la sua vita.”

Una testimonianza fornita a Breaking the Silence da un sergente dello staff dell’IDF su un incidente in Cisgiordania illustra la situazione dall’altra parte: “Era la prima notte di Hanukkah nel 2017. Due bambini stavano lanciando pietre sulla Highway 60, sulla strada. Quindi li abbiamo acciuffati e li abbiamo portati alla base. I loro occhi erano coperti dalla flanella, ed erano ammanettati davanti con manette di plastica. Sembravano giovani, tra i 12 ei 16 anni.”

Quando i soldati si sono riuniti per accendere la prima candela della festa di Hanukkah, i detenuti sono rimasti fuori. “Stiamo urlando e facendo rumore, usando la batteria, il che è una specie di usanza popolare, ha ricordato il soldato, sottolineando che supponeva che i bambini non conoscessero l’ebraico, sebbene forse loro capivano le maledizioni che udivano. “Diciamo sharmuta [slut] e altre parole che loro potrebbero conoscere dall’arabo. Come potevano sapere che non stavamo parlando di loro? Probabilmente potevano pensare che da un minuto all’altro saremmo andati a cucinarli.”

L’Interrogatorio

Gli ex detenuti riferiscono che l’incubo può essere di durata variabile. Da tre a otto ore dopo l’arresto, quando il giovane è stanco e affamato – e talvolta dolorante per essere stato percosso, spaventato dalle minacce e non sapendo nemmeno perché è lì – viene condotto all’interrogatorio. Questa potrebbe essere la prima volta che la benda viene rimossa e le sue mani liberate. Il processo di solito inizia con una domanda generale, ad esempio: “Perché lanci pietre ai soldati?” Il resto è più violento – una raffica di domande e minacce, volte a far firmare una confessione all’adolescente. In alcuni casi, gli viene promesso che se firmerà gli verrà dato qualcosa da mangiare.

Secondo le testimonianze, le minacce da parte di chi interroga sono rivolte direttamente al ragazzo (“Passerai tutta la vita in prigione”), o alla sua famiglia (“Porterò tua madre qui e la ucciderò davanti ai tuoi occhi”) o al sostentamento della famiglia (“Se non confessi, toglieremo a tuo padre il permesso per lavorare in Israele – per causa tua lui rimarrà senza lavoro e tutta la famiglia soffrirà la fame”).

“Il sistema dimostra che qui prevale l’intenzione di esibire il potere piuttosto che un impegno nell’esecuzione delle proprie funzioni”, suggerisce Bayadsi. “Se il ragazzo confessa, si apre un dossier; se non confessa, entra comunque nella cerchia criminale e si ritrova sotto una seria minaccia”.

La reclusione

Se il giovane detenuto ha firmato una confessione o meno, la prossima fermata è la prigione. O Megiddo, nella Bassa Galilea, o Ofer, a nord di Gerusalemme. Khaled Mahmoud Selvi aveva 15 anni quando fu messo in prigione nell’ottobre 2017 e gli venne detto di spogliarsi per una perquisizione corporale (come nel 55 percento dei casi). Per 10 minuti fu costretto a stare nudo, insieme ad un altro ragazzo, e in inverno.

I mesi di detenzione, in attesa del processo, e in seguito, se sono condannati, vengono trascorsi nell’ala giovanile delle strutture per i prigionieri di sicurezza. “Non parlano con le loro famiglie da mesi e possono ricevere una visita una volta al mese, attraverso il vetro”, racconta Bayadsi.

Molto meno ragazze palestinesi vengono arrestate rispetto ai ragazzi. Ma non esiste una struttura appositamente per loro, quindi sono detenute nella prigione di Sharon per le donne, insieme agli adulti.

Il processo

L’aula del tribunale è solitamente il luogo in cui i genitori hanno la prima possibilità di vedere il loro bambino, a volte diverse settimane dopo l’arresto. Le lacrime sono la reazione più comune alla vista del giovane detenuto, che indossa l’uniforme della prigione e le manette, e con una nuvola di incertezza che aleggia su tutto. Le guardie del servizio carcerario israeliano non consentono ai genitori di avvicinarsi ai giovani e li inducono a sedersi sulla panchina dei visitatori. Il consiglio di difesa è pagato dalla famiglia o dall’autorità palestinese.

Durante una recente udienza di rinvio per diversi detenuti, un ragazzo non smise di sorridere alla vista di sua madre, mentre un altro teneva gli occhi bassi, forse per nascondere le lacrime. Un altro detenuto sussurrò a sua nonna, che era venuta a fargli visita, “Non preoccuparti, dì a tutti che sto bene.” Il ragazzo successivo rimase in silenzio e osservò sua madre mentre gli sussurrava “Omari, ti amo.”

Mentre i bambini e le loro famiglie cercano di scambiare alcune parole e sguardi, i procedimenti vanno avanti. Come in un universo parallelo.

La sentenza

La stragrande maggioranza dei processi per i giovani termina con un patteggiamento: la safka in arabo, una parola che i bambini palestinesi conoscono bene. Anche se non ci sono prove concrete per coinvolgere il ragazzo nel lancio di pietre, spesso il patteggiamento è l’opzione preferita. Se il detenuto non è d’accordo, il processo potrebbe durare a lungo e sarà tenuto in custodia fino alla fine del processo.

La condanna dipende quasi interamente dall’evidenza di una confessione, afferma l’avvocato Gerard Horton, del British-Palestinian Military Court Watch, il cui riscontro, secondo il suo sito web, implica il “monitoraggio del trattamento dei bambini nella detenzione militare israeliana”. Secondo Horton, che opera a Gerusalemme, i minori saranno più inclini a confessare se non conoscono i loro diritti, sono spaventati e non ricevono alcun sostegno o sollievo finché non confessano. A volte a un detenuto che non confessa verrà detto che può aspettarsi di affrontare una serie di comparizioni in tribunale. Ad un certo punto, spiega l’avvocato, anche i giovani più forti dispereranno.

L’ Ufficio del Portavoce dell’IDF ha dichiarato in risposta: “I minori hanno il diritto di essere rappresentati da un avvocato, come qualsiasi altro imputato, e hanno il diritto di condurre la difesa in qualsiasi modo scelgano. A volte scelgono di ammettere la colpevolezza nel quadro di un patteggiamento, ma se si dichiarano non colpevoli, viene condotta una procedura che coinvolge le prove uditive, come i procedimenti condotti in [tribunali civili di] Israele, alla cui conclusione verrà presa una decisione legale sulla base delle prove presentate al tribunale. Le delibere sono stabilite in breve tempo e sono condotte in modo efficiente e con la garanzia per i diritti degli accusati”.

Gestione della comunità

Secondo i dati raccolti dalla ONG britannico-palestinese, il 97% dei giovani arrestati dall’IDF vive in località relativamente piccole che distano non più di due chilometri da un insediamento. Esiste una serie di ragioni per questo. Una implica il costante attrito – fisico e geografico – tra Palestinesi, da un lato, e soldati e coloni. Tuttavia, secondo Horton, c’è un altro, non meno interessante modo di interpretare questo fenomeno: vale a dire, dal punto di vista di un comandante dell’IDF, la cui missione è proteggere i coloni.

Nel caso di episodi di lancio di pietre, spiega, l’ipotesi del comandante è che i Palestinesi coinvolti siano giovani, di età compresa tra 12 e 30, e che provengano dal villaggio più vicino. Spesso l’ufficiale si rivolge al collaboratore residente nel villaggio, che gli fornisce i nomi di alcuni ragazzi.

La mossa successiva è “entrare di notte nel villaggio e arrestarli”, continua Horton. “E siano questi giovani quelli che hanno lanciato le pietre o no, hai già messo paura a tutto il villaggio” – il che egli dice essere uno “strumento efficace per gestire una comunità.”

Quando così tanti minori vengono arrestati in questo modo, è chiaro che alcuni di loro siano innocenti”, osserva. “Il punto è che questo deve accadere continuamente, perché i ragazzi crescono e nuovi bambini appaiono sulla scena. Ogni generazione deve sentire il braccio forte dell’IDF “.

Secondo l’Ufficio del Portavoce dell’IDF: “Negli ultimi anni molti minori, alcuni dei quali molto giovani, sono stati coinvolti in episodi di violenza, incitamento e persino terrorismo. In questi casi, non vi è altra alternativa che istituire misure, tra cui interrogatori, detenzioni e processi, nei limiti e secondo quanto stabilito dalla legge. Come parte di queste procedure, l’IDF opera per sostenere e preservare i diritti dei minori. Nel far rispettare la legge contro di loro, la loro età viene presa in considerazione.

Così, dal 2014, tra le altre misure, in alcuni casi, i minori sono invitati alla stazione di polizia e non vengono arrestati a casa. Inoltre, i procedimenti relativi ai minori si svolgono nel tribunale militare per i minorenni, che esamina la gravità del reato attribuito al minore e il pericolo che pone, tenendo in considerazione la sua giovane età e le particolari circostanze. Ogni accusa di violenza da parte dei soldati delle IDF viene esaminata, e i casi in cui le azioni dei soldati vengono giudicate errate questi vengono trattati severamente”.

Il servizio di sicurezza dello Shin Bet ha dichiarato in risposta: “Lo Shin Bet, insieme all’IDF e alla polizia israeliana, opera contro ogni elemento che minacci di danneggiare la sicurezza di Israele e la cittadinanza del paese. Le organizzazioni terroristiche fanno ampio uso di minori e li reclutano per svolgere attività terroristiche, e vi è una tendenza generale a coinvolgere minori nelle attività terroristiche come parte di iniziative locali.

Le interrogazioni di terroristi sospetti sono condotte dallo Shin Bet secondo la legge, e sono soggette a supervisione e al riesame interno ed esterno, compreso da tutti i livelli del sistema giudiziario. Gli interrogatori sui minori vengono eseguiti con maggiore sensibilità e con considerazione della loro giovane età”.

Khaled Mahmoud Selvi, arrestato a 14 anni (ottobre 2017)

“Sono stato arrestato quando avevo 14 anni, quella notte sono stati arrestati tutti i ragazzi della famiglia. Un anno dopo, sono stato arrestato di nuovo, con mio cugino. Hanno detto che avevo incendiato dei pneumatici. È successo mentre stavo dormendo. Mia madre mi ha svegliato. Pensavo fosse ora di andare a scuola, ma quando ho aperto gli occhi ho visto i soldati sopra di me. Mi hanno detto di vestirmi, mi hanno ammanettato e mi hanno portato fuori. Indossavo una maglietta a maniche corte e quella notte faceva freddo. Mia madre li pregò di farmi indossare una giacca, ma non erano d’accordo. Alla fine mi ha lanciato la giacca, ma non mi hanno lasciato infilare le braccia nelle maniche.

Mi hanno portato nell’insediamento di Karmei Tzur con gli occhi coperti, e ho avuto la sensazione che stessero girando in tondo. Quando ho camminato, c’era una fossa nella strada e loro mi hanno spinto dentro, e sono caduto. Da lì mi hanno portato a Etzion [stazione di polizia]. Lì mi hanno messo in una stanza, e i soldati continuavano a venire in ogni momento a prendermi a calci. Qualcuno è passato e ha detto che se non avessi confessato mi avrebbero lasciato in prigione per il resto della mia vita.

Alle sette di mattina, mi hanno detto che l’interrogatorio stava iniziando. Ho chiesto di andare prima in bagno. I miei occhi erano coperti e un soldato mise una sedia di fronte a me. Sono inciampato. L’interrogatorio è andato avanti per un’ora. Mi hanno detto che mi avevano visto incendiare le gomme e che il fatto aveva interferito con il traffico aereo. Ho detto loro che non ero stato io. Non ho visto un avvocato fino al pomeriggio ed egli ha chiesto ai soldati di portarci del cibo. Era la prima volta che mangiavo da quando ero stato arrestato la sera prima.

Alle sette sono stato mandato nella prigione di Ofer e sono rimasto lì per sei mesi. In quel periodo, sono stato in tribunale più di 10 volte. E c’è stato anche un altro interrogatorio, perché a un mio amico è stato detto mentre veniva interrogato che se non avesse confessato e non mi avesse denunciato, avrebbero portato sua madre e le avrebbero sparato davanti ai suoi occhi. Così ha confessato e fatto la denuncia. Non sono arrabbiato con lui. Era il suo primo arresto, era spaventato.

“Khaled Shtaiwi, arrestato a 13 anni (novembre 2018)

La storia di Khaled è raccontata da suo padre, Murad Shatawi: “La notte in cui è stato arrestato, una telefonata di mio nipote mi ha svegliato. Ha detto che la casa era circondata da soldati. Mi sono alzato e mi sono vestito, perché mi aspettavo che mi arrestassero, a causa delle manifestazioni non violente che organizzo il venerdì. Non avrei mai immaginato che avrebbero preso Khaled. Mi hanno chiesto il nome dei miei figli. Ho detto a loro Mumen e Khaled. Quando ho detto Khaled, hanno detto: ‘Sì, lui. Siamo qui per prenderlo.’ Ero sotto shock, così tanti soldati si sono presentati per arrestare un ragazzo di 13 anni.

Lo hanno ammanettato, bendato e condotto a est, a piedi, verso l’insediamento di Kedumim, mentre lo insultavano e un po’ lo picchiavano. Ho visto tutto dalla finestra. Mi hanno dato un documento che mostrava che si trattava di un arresto legale e che potevo recarmi alla stazione di polizia. Quando sono arrivato, l’ho visto attraverso un piccolo foro nella porta. Era ammanettato e bendato.

È rimasto così dal momento in cui lo hanno arrestato fino alle 3 del mattino, il giorno successivo. Questa è una immagine che non mi abbandona; non so come continuerò a vivere con quella immagine nella mia testa. Era accusato di aver lanciato pietre, ma dopo quattro giorni lo rilasciarono, perché non lo confessò e non c’erano altre prove contro di lui. Durante il processo, quando il giudice voleva parlare con Khaled, doveva piegarsi in avanti per vederlo, perché Khaled era così piccolo.

Com’è stato vederlo così? Io sono il padre. Questo dice tutto. Non ne ha parlato da quando è uscito, tre mesi fa. Questo é un problema. Ora sto organizzando un ‘giorno di psicologia’ nel villaggio, per aiutare tutti i bambini che sono stati arrestati. Su 4.500 persone nel villaggio, 11 bambini di età inferiore ai 18 sono stati arrestati; cinque avevano meno di 15 anni “.

Omar Rabua Abu Ayyash, arrestato all’età di 10 anni (dicembre 2018)

Omar sembra piccolo per la sua età. È timido e tranquillo, ed è difficile parlargli dell’arresto, così i membri della sua famiglia raccontano gli eventi al suo posto.

La madre di Omar: “È successo alle 10 di mattina. il venerdì, quando non c’è scuola. Omar stava giocando nella zona di fronte alla casa, gettava sassolini contro gli uccelli che cinguettavano sull’albero. I soldati, che si trovavano nella torre di osservazione dall’altra parte della strada, notarono ciò che stava facendo e si precipitarono verso di lui. Corse, ma lo catturarono e lo bloccarono a terra. Lui ha iniziato a piangere, e si è bagnato i pantaloni. Lo hanno preso a calci alcune volte.

Sua nonna, che vive qui sotto, è immediatamente uscita e ha cercato di portarlo via dai soldati, il che ha causato una colluttazione e urla. Alla fine, lo hanno lasciato da solo e lui è andato a casa e si è messo dei pantaloni asciutti. Un quarto d’ora dopo, i soldati sono tornati, questa volta con il loro comandante, che diceva che doveva arrestare il ragazzo per lancio di pietre. Quando gli altri bambini della famiglia hanno visto i soldati in casa, anche loro si sono bagnati i pantaloni”.

Il padre di Omar riprende la storia: “Ho detto al comandante che aveva meno di 12 anni e che dovevo accompagnarlo, così ho viaggiato con lui in jeep fino alla colonia di Karmei Tzur. Lì i soldati gli dissero di non lanciare più pietre e che se avesse visto altri bambini farlo, avrebbe dovuto riferirlo. Da lì lo hanno portato agli uffici dell’Autorità Palestinese a Hebron. L’intera storia ha richiesto circa 12 ore. Durante quelle ore gli hanno dato da mangiare alcune banane. Ora, ogni volta che i bambini vedono una jeep militare o dei soldati, entrano in casa. Da allora hanno smesso di giocare fuori. Prima dell’incidente, i soldati venivano qui per giocare a calcio con i bambini. Adesso hanno smesso di venire.”

Tareq Shtaiwi, arrestato a 14 anni (gennaio 2019)

“Erano circa le 14. Quel giorno avevo la febbre, così papà mi ha mandato da mia cugina, la porta accanto, perché quello è quasi l’unico posto nel villaggio con un’unità di riscaldamento. All’improvviso arrivarono dei soldati. Mi hanno visto mentre li guardavo dalla finestra, così hanno sparato dei colpi alla porta dell’edificio, l’hanno buttata giù e hanno iniziato a salire le scale. Mi sono spaventato, quindi sono scappato dal secondo piano al terzo, ma loro mi hanno bloccato e mi hanno portato fuori. I soldati non mi lasciavano prendere il cappotto, anche se faceva freddo e io ero malato. Mi portarono a piedi a Kedumim, ammanettato e bendato. Mi hanno fatto sedere su una sedia. Ho sentito porte e finestre sbattere forte, penso che stessero cercando di spaventarmi.

Dopo un po’, mi hanno portato da Kedumim ad Ariel, e sono stato lì per cinque-sei ore. Mi hanno accusato di aver lanciato pietre qualche giorno prima con il mio amico. Ho detto loro che non avevo gettato pietre. La sera mi hanno trasferito nell’edificio di detenzione di Hawara; uno dei soldati mi ha detto che non sarei mai andato via da lì. Al mattino fui trasferito nella prigione di Meghiddo. Non avevano le uniformi per prigionieri della mia taglia, quindi mi hanno dato vestiti di bambini palestinesi che erano stati lì prima ed erano stati lasciati lì per il prossimo della lista. Ero la persona più giovane della prigione.

Ho avuto tre udienze, e dopo 12 giorni, all’ultima udienza, mi hanno detto che era abbastanza, che mio padre avrebbe pagato una multa di 2.000 shekel [$ 525] e stavo ottenendo una sospensione condizionale di tre anni. Il giudice mi ha chiesto cosa intendevo fare dopo essere uscito, gli ho detto che sarei tornato a scuola e che non sarei più andato al terzo piano. Dal mio arresto, mio fratello minore, che ha 7 anni, ha avuto paura di dormire nella stanza dei bambini e si addormenta con i nostri genitori”.

Adham Ahsoun, arrestato nell’ottobre 2018, nel giorno del suo 15° compleanno

“Il giorno del mio 15° compleanno, sono andato al negozio nel centro del villaggio per comprare alcune cose. Verso le 7:30 di sera, i soldati sono entrati nel villaggio e i bambini hanno iniziato a lanciare pietre contro di loro. Sulla via di casa con la mia borsa, mi hanno preso. Mi hanno portato all’ingresso del villaggio e mi hanno messo su una jeep. Uno dei soldati ha iniziato a picchiarmi. Poi mi hanno messo le manette di plastica e mi hanno coperto gli occhi e mi hanno portato così alla base militare di Karnei Shomron. Sono stato lì per circa un’ora. Non riuscivo a vedere nulla, ma avevo la sensazione che un cane mi stesse annusando. Avevo paura. Da lì mi hanno portato in un’altra base militare e mi hanno lasciato lì per la notte. Non mi hanno dato niente da mangiare o da bere.

Al mattino, mi hanno trasferito nella struttura degli interrogatori di Ariel. Chi interrogava mi ha detto che i soldati mi avevano sorpreso a lanciare sassi. Gli dissi che non avevo gettato pietre, che stavo tornando a casa dal negozio. Quindi chiamò i soldati nella stanza degli interrogatori. Dissero: “Sta mentendo, lo abbiamo visto, stava lanciando pietre”. Gli dissi che non avevo davvero lanciato pietre, ma minacciò di arrestare mia madre e mio padre. Sono entrato nel panico. Gli ho chiesto: ‘Che cosa vuoi da me?’ Ha detto che voleva che firmassi che lanciavo sassi ai soldati, così ho firmato. Per tutto il tempo non ho visto o parlato con un avvocato.

Il mio patteggiamento stabiliva che avrei confessato e ottenuto una condanna a cinque mesi di prigione. In seguito, mi hanno dato un terzo di sconto per buona condotta. Sono uscito dopo tre mesi e una multa di 2.000 shekel. In prigione ho cercato di recuperare il materiale che avevo lasciato a scuola. Gli insegnanti mi hanno detto che avrebbero preso in considerazione solo i voti del secondo semestre, quindi questo non avrebbe danneggiato le mie possibilità di essere accettato per gli studi di ingegneria all’università”.

Muhmen Teet, arrestato a 13 anni(novembre 2017)

“Alle 3 del mattino, ho sentito bussare alla porta. Papà è entrato nella stanza e ha detto che c’erano dei soldati nel soggiorno e volevano che mostrassimo i documenti d’identità. L’ ufficiale in comando disse a mio padre che mi stavano portando a Etzion per essere interrogato. Fuori, mi hanno ammanettato e bendato e mi hanno messo in un veicolo militare. Siamo andati a casa di mio cugino; hanno arrestato anche lui. Da lì siamo andati a Karmei Tzur e abbiamo aspettato, ammanettati e bendati, fino al mattino.

Al mattino, hanno preso solo mio cugino per l’interrogatorio, non me. Dopo il suo interrogatorio, ci hanno portato nella prigione di Ofer. Dopo un giorno, ci hanno riportato a Etzion e hanno detto che stavano per interrogarmi. Prima dell’interrogatorio, mi hanno portato in una stanza, dove c’era un soldato che mi ha schiaffeggiato. Dopo avermi percosso in una stanza, mi ha portato nella stanza degli interrogatori. L’interrogante ha detto che ero responsabile dell’incendio di pneumatici gomme, e che a causa di ciò il bosco vicino alla casa avrebbe preso fuoco. Ho detto che non ero io e ho firmato un documento datomi da chi interrogava. Il documento era stampato anche in arabo, ma chi interrogava lo ha compilato in ebraico. Sono stato riportato alla prigione di Ofer.

Ho avuto sette audizioni in tribunale, perché alla prima udienza ho detto che non intendevo confessare, semplicemente non avevo capito cosa avevo firmato e che non era vero. Così mi hanno rimandato per un altro interrogatorio. Ancora una volta non ho confessato. Poi mi hanno mandato per essere interrogato un’altra volta e ancora non ho confessato. Questo è come è andata nei tre interrogatori. Alla fine, il mio avvocato ha fatto un accordo con il pubblico ministero secondo cui se avessi confessato in tribunale – cosa che ho fatto – e la mia famiglia avesse pagato 4.000 shekel, mi avrebbero rilasciato.

Sono un bravo studente, mi piace il calcio, sia giocare che guardarlo. Dall’arresto, a stento mi aggiro fuori.”

Khalil Zaa arrestato all’età di 13 anni (gennaio 2019)

“Circa alle due di notte qualcuno ha bussato alla porta. Mi sono svegliato e ho visto molti soldati in casa. Hanno detto che dovevamo sederci tutti nel divano del soggiorno e non muoverci. Il comandante chiamò Uday, il mio fratello maggiore, gli disse di vestirsi e lo informò che era in arresto. Era la terza volta che lo arrestavano. Anche mio padre era stato arrestato. All’improvviso mi dissero di mettermi le scarpe e di andare con loro.

Ci hanno portato fuori di casa e ci hanno legato le mani e coperto gli occhi. Siamo andati così a piedi fino alla base di Karmei Tzur. Lì mi hanno fatto sedere sul pavimento con le mani legate e gli occhi coperti per circa tre ore. Circa alle cinque ci hanno trasferiti a Etzion. Durante il viaggio in jeep ci hanno picchiato, mi hanno schiaffeggiato. Ad Etzion, sono stato inviato da un medico per un controllo. Mi ha chiesto se fossi stato picchiato e ho detto di sì. Non ha fatto nulla, ha solo controllato la mia pressione sanguigna e ha detto che avrei potuto sostenere un interrogatorio.

Il mio interrogatorio è iniziato alle 8 di mattina. Mi hanno chiesto di dire loro quali bambini lanciano pietre. Ho detto che non lo sapevo, quindi chi interrogava mi ha dato uno schiaffo. L’interrogatorio è andato avanti per quattro ore. In seguito, mi hanno messo in una stanza buia per 10 minuti e poi mi hanno riportato nella stanza degli interrogatori, ma allora mi hanno solo

preso le impronte digitali e messo in una cella di detenzione per un’ora. Dopo un’ora, io e Uday siamo stati trasferiti nella prigione di Ofer. Non ho firmato una confessione, né su me stesso né sugli altri.

Sono uscito dopo nove giorni, perché non ero colpevole di nulla. I miei genitori hanno dovuto pagare 1.000 shekel per la cauzione. Mio fratello minore, che ha 10 anni, da allora ha sempre avuto molta paura. Ogni volta che qualcuno bussa alla porta, si bagna i pantaloni.”

Bambini arrestati (Breaking the Silence)

“… il diritto della punizione corporale, conferito a uno su gli altri, è una delle piaghe della società, è uno dei mezzi più forti per l’annientamento in essa di qualsiasi germe, di qualsiasi tentativo di spirito civile e la premessa certa di una sua immancabile e ineluttabile dissoluzione” (da Memorie di una casa di Morti, di Fedor Dostoevskij)

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