Su sardu o sa limba?

19 Agosto 2023

[Marinella Lőrinczi]

Fare un bilancio, formulare giudizi, esigere spiegazioni riguardo alla politica linguistica dell’era Solinas, come si prospetta recentemente, richiesta alla quale ci potremmo senz’altro associare?

Del tutto legittimo. Necessario e soprattutto politicamente opportuno, dal momento che da poco è stata ribadita l’affinità ideologica tra Christian Solinas e Matteo Salvini che diluisce i fondamentali della Repubblica. Ma chi ha mai fatto pubblicamente un tale bilancio – entrando nei dettagli o, meglio, nelle pieghe della politica linguistica regionale – delle “ere” precedenti, anche in termini di investimenti ed obiettivi raggiunti, di costi e benefici, cioè di efficienza reale e capillare democraticamente rivolta alla comunità?

Tradotto brutalmente: quanti soldi sono stati utilizzati, per che cosa e quali ne sono i risultati? Dal momento che la politica, quale che sia, si attua anche attraverso investimenti mirati. Come disse Machiavelli (Il principe, cap. XVIII) “nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi, si guarda al fine. I mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati”. Dunque, riformulando la domanda, a che cosa miravano e mirano i vari progetti di politica linguistica, desumibili anche dagli investimenti, per lo meno dall’anno 2000 in poi?

E non siamo i soli a chiedercelo. In un volume recentissimo pubblicato da Condaghes (nel novembre del 2022) e intitolato “Per una pianificazione del plurilinguismo in Sardegna”  i curatori esprimono una loro idea al riguardo. Sarà che anche il loro è “un pensiero debole”, tanto per ricopiare questa nota definizione, usata impropriamente nell’articolo di partenza, di una corrente filosofica postmoderna, poiché essi, nel 2022, così sintetizzano: “Le iniziative volte alla tutela e promozione [del sardo e delle altre lingue minoritarie di Sardegna] introdotte negli ultimi trent’anni sono di difficile valutazione. Manca ancora una discussione basata su dati scientificamente rilevanti sia a livello qualitativo che quantitativo.” Quantitativo significa: spesi soldini 1 + 2 + 3 = 6. Qualitativo significa: per che cosa sono stati spesi 1, 2 e 3 (per che tipo di progetti, ad esempio, per quali iniziative, convegni, inviti, pubblicazioni e quant’altro) e con quali risultati?

Tuttavia, qualcosa era stato detto nel 2019, nel Ventennale dell’emanazione della legge nazionale 482/1999, durante un seminario svoltosi nel neocomune di Sèn Jan di Fassa (prov. di Trento). Cercando nel documento finale di 106 pp., delle iniziative concrete riguardanti il sardo (qui trascuriamo il catalano) si ricorda, a mo’ di esempio, un’inchiesta  del 2015 realizzata da tre accademici di Edimburgo con bambini sardi mono e bilingui, per dimostrare ciò che il buon senso di una persona colta o istruita da tempo ha assimilato: in questo mondo meglio essere poliglotti che monolingui; viene ricordato (a p. 85) un progetto riguardante la scuola primaria “Giovanni Lilliu” (Cagliari); sono state invece problematiche discusse a livello panitaliano la formazione dei docenti delle scuole primarie, la valutazione (inclusa la valutazione dei valutatori, argomenti spinosi attualissimi ancora nel 2023, quanto meno in Sardegna), e i materiali didattici da utilizzare nelle classi dove si vuole insegnare la lingua o nella lingua di minoranza (pp. 91 sgg.).

Quanto alla valutazione e sua certificazione, di delibera in delibera si torna indietro e si giunge alla n.16/14 del 18.4.2006 riguardante la Limba sarda comuna, questo sicuramente ancora nel 2022 (https://delibere.regione.sardegna.it/protected/60282/0/def/ref/DBR60064/).

Un precedente bilancio nazionale, del 2006, troppo vicino alla data di emanazione della legge 482/1999, ma tant’è, evidenzia che “Nell’aprile del 2006 la Giunta regionale, guidata da Renato Soru, ha emesso «la Limba Sarda Comuna» (la lingua sarda comune), che è stato il primo tentativo ufficiale di creare una lingua ufficiale da utilizzare [sperimentalmente! ma non viene detto] nell’amministrazione pubblica  [delibera n.16/14 del 18.4.2006]. Contemporaneamente è stato creato un ufficio per monitorare le attività di valorizzazione della lingua sarda.” (p. 12). Riguardo al numero di progetti finanziati dallo stato, regione per regione, c’è la quantificazione ma non la tipologia: nel 2006 la Sardegna supera le altre regioni (p.142). Se questo ha contribuito dappertutto e senza eccezione a “[creare] un percorso virtuoso di salvaguardia, tutela e promozione” delle minoranze linguistiche (p. 143) è tuttora una questione aperta come si è visto, dal momento che non conta soltanto la quantità, né dei progetti né dei soldi. Sorpresa! A p. 161, dove si riporta, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, la mappatura delle minoranze linguistiche italiane riconosciute dalla legge nazionale, “Sardo (Logudorese, Campidanese)”, cioè, sardo = logudorese + campidanese.

E così torniamo da dove siamo partiti. Un certo senso comune odierno, del 2023, assecondato dalla politica attuale, apparterrebbe a “chi si occupa di lingua sarda” (dunque, qualcuno se ne sta occupando e costituirebbe addirittura la “stragrande platea”); ma se questo senso comune andasse effettivamente ma anche per sola ipotesi “contro la diffusione, valorizzazione e al prestigio de sa Limba”, codificata intorno al 2006 (che peraltro non è il primo progetto di standardizzazione) in un sistema scritto unitario da far diventare anche parlato, cioè insegnabile, secondo certi tentativi universitari, di quale Limba si sta parlando? Comunque, secondo altri, tutti accademici, assisteremmo invece (nel 2022) a “un mutato atteggiamento dell’opinione pubblica sarda che, per quanto sempre più italofona nella sostanza, comincia a vedere positivamente un pieno inserimento del sardo [e non della limba !] (così come delle altre lingue di Sardegna) in tutti gli ambiti della vita quotidiana.”

Regna un dilemma, quindi: limba o sardo?  Una risposta netta si trova in un altro articolo recente che non può minimamente essere sospettato  di antisardismo linguistico, anzi: “dal 2006 [durante il governatorato di Renato Soru, 2004-2008] la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna [=LSC] … per i documenti in uscita [,che è] una lingua effettivamente parlata nel centro dell’Isola”. La LSC è comunque più rivolta e ispirata alle parlate del Capo di Sopra che non al Capo di Sotto, come testimoniano tutti, gente comune e studiosi. La LSC potrebbe corrispondere o avvicinarsi allo scanese (cioè di Scano di Montiferro) secondo alcune ricerche applicative di avanguardia, parlata che  appartiene al logudorese meridionale, per altri al logudorese centrale o comune, distinzioni poco importanti, sempre di logudorese si tratta. Infatti, la lingua sarda “consta di due fondamentali varianti o parlate: il logudorese e il campidanese”, così si afferma nel già citato articolo di Francesco Casula (log. e camp. sono in realtà due macrovarietà, due classi, e i parlanti che parlano una determinate varietà concreta, locale, sono sensibilissimi alle caratteristiche dialettali di qualsiasi altra varietà).

Detto questo, non risulta chiaro perché sa limba sarda comuna deve essere considerata come rappresentativa di tutte le varietà linguistiche sarde, cioè di tutti i dialetti o parlate della lingua sarda. A questa domanda chi se la sente di sostenere ed attuare il predominio indiscutibile de sa limba, deve fornire finalmente una risposta chiara, precisa e circostanziata, in base a quello che pensano i parlanti, i più importanti destinatari di qualsiasi politica o legge linguistiche. E lasciar stare i confronti “con le realtà minoritarie esterne” all’isola, perché ognuna ha la sua storia particolare, sempre che si arrivi – chissà quando – ad una definizione univoca di “minoranza” (infatti per adesso “Non esiste una definizione di minoranza giuridicamente vincolante da un punto di vista politico.

Vi sono innumerevoli tentativi di categorizzazione e di tipologizzazione delle minoranze.”). Ad esempio, sempre in Italia, “La ladinità bellunese è piuttosto etnica che linguistica, e le varietà parlate dei comuni ladini sono dei dialetti veneti alpini grammaticalmente non diversi da quelli dei comuni che non si sono dichiarati ladini.” (Gabriele Iannàccaro, 2010, a p. 79, studioso noto anche in Sardegna), per non dimenticare la situazione dello sloveno della Val di Resia (Friuli) i cui parlanti rivendicano una loro autonomia linguistica rispetto allo sloveno di Slovenia; ecc.

Più a sud di dove si usa limba, il sardo è lingua e i suoi parlanti ci tengono, eccome! Più a sud il toponimo Quartu va scritto con la Q e il nuraghe è nuraxi. Ma Q e X sarebbero lettere aliene all’anima linguistica sarda? oppure solo all’anima limbistica? Le due lettere sarebbero istrangias più dei numerosi catalanismi e ispanismi storici della lingua sarda nel suo insieme? Per non parlare degli italianismi, non sempre evitabili (il ricorso ai forestierismi è un fenomeno proprio delle lingue, le quali mutano inesorabilmente), italianismi lessicali e sintattici di cui sono cosparsi certe zelanti fatiche letterarie odierne quando vogliono parlare di cose moderne o di attualità tecnologica, burocratica, politica, oppure del “guvernare cun sa limba”, top down, ovviamente ed esplicitamente.

Nella frase “depimus dare pelea faghende cumprèndere a su mundu culturale sardu ca s’italianu est sa limba de s’istadu ma sa limba de sa Regione Sarda est su sardu.” (2015), la parola trainante, pelea, è un ispanismo, e si cerca di sminuire, inutilmente, che anche la legge quadro 482 del 1999 riconosce l’italiano come lingua ufficiale dell’intera Repubblica, non solo della parte ‘continentale’, che piaccia o meno. Se non piace la 482 non si chiedano finanziamenti erogati sulla sua base.

Veniamo ora a limba. L’attaccamento dei parlanti meridionali alle proprie parlate o varietà linguistiche locali non può essere marchiato come derivante da una supposta visione servile italofila e italocentrica di certi Sardi, di certe “cricche” intriganti, che rifiutano folcloristicamente un tutti uniti contro il predominio dell’italiano,  viva la LSC!, l’unità – anzi, lo standard a base logudorese – fa la forza! Infatti, proprio nell’era Solinas che non brilla per una concezione e una consapevolezza autonome delle realtà sarde (dalla sanità pubblica ai trasporti aerei, alla protezione e prevenzione filoambientale), quando però – paradossalmente – sembrerebbe che i finanziamenti per trasmissioni radiofoniche o televisive non vengano lesinati (poiché tutto questo costa meno fatica che impegnarsi in una politica linguistica democratica ed efficiente), coloro che usano il sardo in tali trasmissioni, usano il proprio sardo, campidanese compreso, ovviamente, e che altro dovrebbero fare? Leggere in LSC, anziché dialogare spontaneamente? I vari consigli comunali dovrebbero usare e far usare, anche nelle scuole, la LSC? Urtando e offendendo il sentimento linguistico dei propri cittadini e impedendo la trasmissione intergenerazionale?

Che l’imposizione dall’alto, e in tempi brevi, della LSC facesse parte di un “progetto di bilinguismo maturo” lo possono affermare soltanto i partigiani della medesima; a questi spetta ancora la rendicontazione dei propri procedimenti, del coinvolgimento democratico, dei risultati.

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