Il sardo? Una lingua per finta. Il pensiero debole della politica linguistica al tramonto dell’era Solinas

7 Luglio 2023

[Giuseppe Corongiu]

Fare un bilancio sulla politica linguistica dell’era Solinas (2018-2023) è un’attività rischiosa e poco conveniente. In molti si potrebbero adirare, o anche offendere perché, si sa, la verità punge e chi la rivela, non è un analista costruttivo, ma è un cattivone invidioso o disonesto.

In particolare, non perché sia assente una visione e un’efficacia in questa politica, o perché sia stata assente o cattiva, ma anzi perché il Presidente, o chi per lui, ha perfettamente assecondato, spesso non facendo assolutamente nulla o semplicemente seguendo la corrente, ciò che la stragrande platea di chi si occupa di lingua sarda in fondo desiderava. E in questo cedere ha accontentato il senso comune di molti, non solo a livello economico.

Peccato che questo senso comune, anzi questa miriade di sensi comuni individuali e personalistici, la cui somma non fa un movimento come in passato, vadano contro la diffusione, la valorizzazione e il prestigio de sa Limba, ma tant’è. Per capire questa sindrome mimetica che attanaglia la questione lingua, che comprende l’eterogenesi dei fini, dobbiamo immergerci in questa visione totalmente succube di una visione compatibile con l’italo centrismo culturale sardo, della mancanza di confronto con le realtà minoritarie esterne e dell’accettazione passiva del credo in un sardo quale lingua di serie b: diviso, arcaico, incomprensibile e popolare, irrimediabilmente dialettale (cioè polinomico e diviso in varianti).

Può sembrare un’iperbole, ma Solinas, e la sua stessa interfaccia assessoriale Biancareddu, ha interpretato perfettamente il pensiero politico sociale linguistico diffuso di questi operatori o appassionati del settore, che, a giudicare dalle reazioni, anzi dalle non reazioni, hanno gradito perfettamente ciò che si è fatto, o non si è fatto. Infatti, non si sono registrate, in questi anni, critiche o proteste di rilievo (a parte i soliti noti, cioè noi) nonostante l”evidente stagnazione, i fallimenti e le operazioni sgangherate di alcune cricche linguistiche. E nonostante un interesse per la lingua finto, occasionale, mai sostanziale. Il vero problema è infatti che la classe dirigente sarda non crede che la questione lingua possa essere realmente importante per la gestione dell’autonomia e la agita, come vessillo identitario, solo quando conviene perché cancellarla proprio, non si può, troppo complicato. Una lingua per finta, appunto, in modo che la Sardegna è diventata un simbolo negativo per le politiche linguistiche minoritarie in tutta Europa. Sardegna è uguale a: cosa non si deve fare.

I dieci obbiettivi di politica linguistica falliti

La realtà vera, anche triste, è che nonostante il governo di un Presidente del P.S.d’Az (partito sedicente indipendentista, a favore della lingua nazionale sarda, almeno nel suo Statuto) sono stati falliti tutti gli obiettivi storici tradizionali della questione della lingua elencati nei programmi del partito, della coalizione e della maggioranza ai tempi della campagna elettorale con Salvini.

1) Ai fini di aumentarne il prestigio, la Regione non ha mai valorizzato in questi anni il sardo come lingua civica o ufficiale se non per qualche sporadico e strumentale intervento in Consiglio Regionale. Peraltro tecnicamente di basso registro;

2) La presenza del sardo a scuola è rimasta insignificante, debole e inconsistente nonostante gli sbandieramenti e gli effetti annuncio ripetuti. Un fallimento totale di cui l’Università è responsabile quanto la Regione per aver avallato il comitato di guida delle politiche di istruzione. Tale comitato si è caratterizzato per un pensiero debole e inefficace;

3) La presenza del sardo nell’università è sempre minima e subordinata a una visione di lingua tribale inferiore, sempre subalterna e divisiva, strutturalmente condannata a un’eterna fruizione laboratoriale, mai di lingua normale. L’accademia sarda continua indisturbata a diffondere il suo credo che nei fatti smentisce la presenza di Sardegna di una lingua propria;

4) il numero dei parlanti non è aumentato, non si ha percezione di un miglioramento del prestigio del sardo nella società e comunque sono mancate ricerche o survey di verifica;

5) non si è fatto nulla per promuovere e difendere la trasmissione intergenerazionale della lingua;

6) non si è fatto nulla per promuovere il sardo nei culti, cattolico e altri, puro folklore le messe celebrate in forma pluridialettale senza un codice univoco, cosa peraltro vietata dal Vaticano;

7) non si è fatto nulla per promuovere una letteratura di prestigio contemporanea e normale;

8) non si è fatto nulla per completare la codificazione unitaria del sardo, base di ogni politica di rilancio di una lingua minoritaria, né di una grammatica ufficiale o di un dizionario normativo, le cosiddette infrastrutture della questione linguistica. Nulla di nulla, nonostante lettere, richiami, articoli, richieste di confronto;  

9) non si è fatto nulla per un uso credibile nella Pubblica Amministrazione;

10) non è stata applicata gran parte della legge regionale 22/2018 nonostante sia stata voluta proprio per sedare le questioni linguistiche, ma evidentemente ritenuta ancora troppo “innovativa”. Non si è mai convocata la “Conferenza della Lingua Sarda”, prevista obbligatoriamente dalla legge, né la Consulta. Paura del confronto e della democrazia?

Anche laddove si è avuto un briciolo di visibilità si è lavorato male e senza una visione di insieme volta a una valorizzazione reale. I grandi investimenti nei media sono apparsi ognuno slegato dall’altro, con codici, grafie e parlate lasciate allo spontaneismo di operatori non sempre competenti che hanno spesso offeso, la vista, l’orecchio, la sintassi e il lessico. La famosa “norma ortografica” con la quale si sarebbero “certificate” centinaia di figure di esperti, è proprio la caricatura di una norma standard e prevede tutto e il contrario di tutto. In realtà è solo una grafia dei dialetti che viene usata fingendo che sia una norma vera e propria. Ciò in spregio della legge che aveva previsto un altro percorso. Esempi del genere si riscontrano solo per alcune tribù native del Canada e popoli dell’Est siberico.

Il trasformismo folk dialettale versus la lingua vera

È chiaro che l’ordine di scuderia politico è stato quello di volare basso, di evitare discussioni e quindi le occasioni di dibattito pubblico. L’ordine è stato certamente di occuparsi di cose “importanti”, non certo della lingua. Niente male per un sardista. Nessuna concessione alla condivisione democratica dei temi: solo il rispetto formale dei passaggi consiliari e soprattutto, da evitare come la peste, il confronto sulla codificazione unitaria della lingua, silenziata per cinque lunghi anni nonostante sia prevista dalla legge del 2018 e nonostante possa fare del sardo una vera lingua e non una lingua per finta (che è come dire dialetto). In sostanza i grandi attori, le grandi agenzie alle quali è stato dato il compito di traghettare la politica linguistica, e cioè Regione, Università, Rai e Chiesa, hanno organizzato solo parate simboliche per sventolare una bandiera nella quale non si crede realmente, più per egemonizzare un tema ritenuto in passato pericoloso, che per svilupparlo veramente. E soprattutto per non lasciarlo in mano a pericolosi agitatori ignoranti e blasfemi (cioè noi). 

Non mi si venga a dire che oggi non si può attuare la politica linguistica per colpa di un presunto colonialismo italiano. Siamo noi, le nostre élite, che abbiamo determinato questo disastro. Con le nostre scelte e l’insipienza dei nostri intellettuali. Insomma, l’approdo della politica linguistica di Solinas è stato un negazionismo mirato, profondo e populista della questione. Purtroppo con la complicità di molti esponenti del mondo culturale e perfino linguistico.  In sostanza si è sopito (almeno per ora) il lungo confronto durato dagli Anni Settanta, tra chi diceva che il sardo era una lingua e non un dialetto, tra chi sosteneva l’artificialità dell’idioma politico e chi rivendicava l’identità. Ha vinto, almeno per ora, questa sorta di compromesso tra le élite di una parte e dell’altra: io ti do i finanziamenti, ma tu favorisci l’uso territoriale e folk della lingua, non arrivi mai al livello del dibattito politico. Meglio se il sardo serve per ridere e divertirsi. Cioè togli alla questione della lingua sarda tutta la sua carica rivoluzionaria e di cambiamento della società. Annulli il legame de sa Limba con una visione politica, trasformi il movimento linguistico in una movida di piacioni, non produci idee nuove, non progetti società più giuste, ma traduci, solo in dialetto, ciò che è già stato pensato in italiano, la vera lingua della Sardegna.

Un’operazione di trasformismo complessa e anche, a suo modo, bisogna riconoscerlo, penetrante.  

Devitalizzare Gramsci e il discorso linguistico

Ciò che intendeva Gramsci della capacità della questione linguistica di mettere in discussione le egemonie interne di una società, può essere depotenziato dal fatto di permettere a una lingua di esprimersi, privandola però della sua forza politica, che si esplica in modo particolare nell’unitarietà e nella capacità di comunicazione in tutto il suo dominio. Negando la codificazione unitaria, la si riduce a un ventaglio di espressioni locali senza simbolismo politico e culturale ‘nazionale’ o semplicemente civico. L’uso che se ne fa è locale (se non personale) e non si produce né un nuovo pensiero né una nuova classe dirigente culturale. Anzi, i posti visibili vengono occupati spesso da operatori o studiosi che in origine erano contrari allo stesso concetto di lingua. Essi sono reclutati proprio per questo, perché negano con la loro stessa esistenza, e usando strumentalmente un brandello di lingua credibile, ciò che Gramsci affermava. Spesso ripetono in un sardo inelegante e popolareggiante un pensiero conformistico e non auto creato. Le sub lingue sarde (varianti) che residuano in questa politica di addomesticamento della questione accentuano lo straniamento territoriale. Viene promosso un naturalismo strumentale (dialetto, variante) e scoraggiato l’uso prestigioso ed esteticamente rilevante (con l’accusa che sia artificiale, esperanto, di plastica). Attraverso queste modalità complesse, parlare o scrivere sardo anche in contesti pseudo colti o ufficiali finisce per depotenziare il contesto e confermare il predominio di altre lingue.

Del resto, lo stesso movimento linguistico fu azzoppato già dagli Settanta bollando di artificialità la sola idea di promuovere una lingua sarda unitaria. E da Michelangelo Pira in giù, compresi i filologi, gli stessi promotori si adattarono a una visione polinomica che fosse più accettabile dal potere dominante, democratico si, ma italocentrico e linguisticamente sardofobo. La visione di una lingua normale e codificata “sul serio” di Simon, di Lussu, di LIlliu, de Su Populu Sardu e altri sembra oggi in disgrazia. Il movimento, o la movida linguistica, è incartato su stesso, su questa sua contraddizione folkloristica e dialettale, conformista, provinciale, biddunculo. Non ama le critiche e neppure affrontare le questioni a viso aperto. Cerca la legittimazione dell’accademico, chissà poi perché visto che in genere è contrario e distante. Piuttosto si offende e si ritira. Nessuna innovazione, creatività, modernità, contemporaneità. Nessuna vitalità sul piano della cultura contemporanea.

La lingua metafora della condizione sarda in tutti i settori

Lo aveva detto anche Giulio Angioni, che non vorrei citare perché ha ostacolato ai suoi tempi ogni progetto di bilinguismo maturo, ma che cito per utilità, che la classe dirigente sarda non aveva contezza dello sforzo che ci voleva per operare questa rivoluzione linguistica. Che si andava dritti contro un muro, al buio. Che al massimo tutto sarebbe finito con quattro cartelli e un grande collettivo sforzo di “orgoglio dialettale”.  E così è infatti oggi. Quando si incontrano o si ascoltano o si leggono presunti esperti, l’impressione è di pochezza culturale, di refugium peccatorum, di marginalità.  Chi ha preso in mano le operazioni, dopo aver eliminato quelli della LSC, non ha portato nessun risultato concreto a casa, se non le retribuzioni. Per il resto la questione è andata fuori dall’agenda politica che conta. Pedalano tutti furiosamente, ma sono chiusi in una stanza con una cyclette immobile. Che bel risultato!

Del resto la lingua è solo metafora del tutto. La Sardegna in quanto progetto politico non esiste più: ognuno pensa solo al suo territorio, sia esso Città Metropolitana, Sassari, Olbia, Zona Interne, Nuoro o altro. Sono tutte isolette di sughero galleggianti nel mare, legate tra loro, ma che non si uniscono, confliggono. L’insularità non è un paradigma: in realtà la Sardegna è un arcipelago di interessi territoriali spesso contrapposti e contrari.  Ciò che succede nella lingua succede in tutti i campi, si dovrebbe prestare attenzione.

Pertanto Solinas ha lavorato male (poteva chiamare prima assessori volitivi come Ada Lai o Antonio Moro ad esempio qualcuno di spessore all’Istruzione, poteva ascoltare di più e meglio e non solo gente che aveva bisogno delle sue prebende, poteva convocare la Conferenza e la Consulta e sentire le proposte, poteva insomma sentire non solo i suoi), ha privato il suo partito della possibilità di scrivere in positivo la storia della lingua e ha sostanzialmente inseguito gli umori di operatori culturali e intellettuali interessati più a essere i boss del proprio orticello che a creare un dominio largo. E stato in sintonia con chi preferisce lavorare oggi per pochi spiccioli che costruire un futuro. Purtroppo, Solinas in questo non è isolato e molta classe dirigente sarda è tentata dalle ragioni di questa direzione. La politica in questo è cinica e pragmatica. Alla lingua manca il suo popolo e mancano intellettuali che perlomeno non la vogliano negare nei fatti.

La ricerca del consenso non sempre corrisponde con il riconoscimento del senso.

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