Alas impestadas non bolant

1 Marzo 2022

[Marinella Lőrinczi]

Questo è il titolo metaforico dato al convegno organizzato dal comune di Quartu Sant’Elena per discutere (il 26 febbraio 2022) di politiche linguistiche a tutela delle minoranze presenti sul territorio nazionale.

E’ stato tradotto in italiano, con un sottile innalzamento stilistico, con Le ali malate non consentono il volo. Non so se quello sardo sia un proverbio effettivo, ma questo conta poco. La raccolta ottocentesca del canonico Giovanni Spano include un detto simile  (Senza alas non si podet bolare),  il cui significato, sia letterale che traslato, è ugualmente chiaro. Vengono in mente anche le ali tarpate, in italiano, per indicare metaforicamente di essere impediti volutamente, da altri, di fare, realizzare, avere iniziative, di essere autonomi e creativi. Sul modello reale delle ali tarpate a volatili domestici (alle oche, ad esempio) o rinchiusi in uno zoo (cfr. “folklorizzazione”), per renderli inabili al volo.

E ovviamente Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia, 1975, di Sergio Salvi.

Impestadas (infestate, malate), dal significato senz’altro suggestivo, è un participio passivo, e perciò obbliga a chiedersi a chi imputare il malfunzionamento odierno delle alas, cioè delle capacità di usare appropriatamente gli idiomi di minoranza dal momento che esistono leggi nazionali e regionali per la loro tutela e i relativi finanziamenti? Usarli appropriatamente, cioè in maniera adatta alle circostanze sociali, private e pubbliche, nel parlato – per non farle morire – ed eventualmente nello scritto. Evitando per quanto possibile o per quanto necessario anche gli influssi reciproci tra le lingue conviventi. Anzi, le contaminazioni reciproche, tanto per rimanere nella sfera semantica della “cattiva salute” cui appartiene impestadas. Parlando in generale, gli influssi reciproci tra idiomi conviventi sono un processo storico del tutto normale; sempre che le abitudini e le situazioni social-politiche del momento (storico) non impongano, o non ritengano conveniente, tener separate le lingue conviventi, che alle volte possono essere più di due (vedi la storia del sassarese https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_sassarese). Conviventi nell’individuo e/o nella comunità, che sono fenomeni distinti.

Antonio Gramsci, ad esempio, che viene spesso citato a questo proposito, nella famosa lettera (del marzo 1927) indirizzata alla sorella Teresina raccomanda “di lasciare che i …  bambini succhino tutto il sardismo [anche linguistico] che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.” Premette che “l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile” (https://www.facebook.com/groups/266491950145853/permalink/4298473920280949/). Chi cita queste pionieristiche osservazioni di Gramsci, spesso non aggiunge, però, che in altri scritti egli “constata che i soli dialettofoni [nel senso di subalterni] partecipano a un’intuizione del mondo tendenzialmente  «ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica» e che “una grande lingua nazionale è «storicamente ricca e complessa» … permettendo ai suoi parlanti di «mettersi in contatto con vite culturali diverse»”;  «salvo rare eccezioni … tra la lingua popolare e quella delle classi colte  c’è una continua aderenza e un continuo scambio». (voce Lingua in Dizionario gramsciano, Carocci 2009). «Se non sempre è possibile imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre almeno imparare bene la lingua nazionale.» (ibidem, v. Dialetto).

C’è un detto, molto popolare presso gli Ungheresi, che recita Quante lingue sai, altrettante persone sei; viene attribuito a un aristocratico colto asburgico, deceduto nel 1922, che conosceva tedesco, inglese, francese, ceco e ungherese, e aveva studiato latino e greco. Ma la provenienza del detto è oramai poco conosciuta, mentre esso circola ancora persino tra i ragazzi. Questo per dire che i vantaggi del plurilinguismo moderno, consapevolmente coltivato ed appreso, sono evidenziati da tempo, da parte di numerose personalità, politiche, culturali e scientifiche. Un commentatore anonimo, nel 2012, così spiega in un blog il senso del detto che ho citato: “Se impari più lingue e più impari a conoscere la cultura e le usanze di altri popoli, la tua visione del mondo si allargherà proporzionalmente e la conoscenza delle lingue arricchirà anche la tua personalità.”

E’ quello che in generale sostengono gli studiosi del bi o plurilinguismo democratico, in tutte le parti del mondo; l’incontro di lingue è incontro di culture, per cui localizzare la questione nei termini “Se il bimbo conosce il sardo oggi, domani impara meglio l’inglese” , oppure “La conoscenza della lingua minoritaria non impedisce al bambino l’apprendimento di altre lingue. Anzi,…”, sfonda, a livello della consapevolezza internazionale avanzata e, ripeto, democratica, porte aperte (https://www.youtg.net/canali/dai-comuni/43878-stati-generali-delle-lingue-minoritarie-il-26-febbraio-esperti-riuniti-a-quartu). Anche perché si sarebbe dovuto subito spostare e localizzare di nuovo la questione, per correttezza, su che cos’è e cosa significa per i Sardi la limba sarda comuna (LSC) o anche de mesania, una simil-LSC; in quest’ultima è redatta, ad esempio, anche  la versione sarda della locandina del convegno tenutosi a Quartu. Ed evidenziare, inoltre, che l’apprendimento dell’inglese (o del francese, spagnolo, tedesco, cinese, lituano, basco, albanese …) dipende non soltanto dalle capacità cognitivo-linguistiche del bambino (mono o bilingue) ma anche dalla qualità dell’insegnamento scolastico, di massa e non elitario. E rimarcare, complementarmente, lo sviluppo semispontaneo di idiomi misti come l’itanglese, fenomeno ugualmente molto studiato. I vari ‘piani Marshall’ linguistici sono operanti, sotto copertura o (in)consapevolmente, da più di sessant’anni. Nel non lontano 2018, ad esempio, qualcuno scriveva, sul Corriere della Sera, Perché è sbagliato proibire [da parte del Consiglio di Stato] i corsi universitari in inglese.

Al convegno quartese, che ho seguito per intero, il significato concreto delle alas impestadas del sardo (o degli altri idiomi minoritari della Sardegna, esclusi dalla discussione) non è stato chiarito da parte degli organizzatori. E nemmeno la lettera di Gramsci a Teresina, che pure era annunciata nel programma, è stata presentata. Inoltre, come desumibile sempre dalla locandina, non era prevista la pur minima discussione e infatti non ce n’è stata, contrariamente alle usanze dei cunvegnos di studi. E tra il pubblico, come nemmeno tra i relatori, non c’era nessun linguista delle due università sarde. E il pubblico, come si diceva, non è stato invitato a intervenire. Per cui mi limito alla locandina.

Il linguaggio usato nella locandina è molto interessante. Personalmente noto:  l’indelicatezza di usare la simil-LSC a Quartu, e meno male che non hanno scritto Cuartu;  gli ammiccamenti dotti come quello di Sa politica linguistica de sa República in tempos de virus che richiama El amor en los tiempos del cólera di Gabriel García Márquez; si nota la sostituzione del sostantivo attobiu, già di consolidato uso per “incontro, convegno”, con cunvegnu comprensibile, invece, a chi non sa il sardo o non vive in Sardegna. La traduzione di (Giornata della) lingua madre è stata resa con limba mama (non mamma), il cui assetto fonetico rende l’espressione limba mama quasi un balbettio ossia lallazione infantile (provarci, ad alta voce, per credere). Giulio Solinas l’aveva resa, in una sua poesia, con lingua de mammài. Più in generale, en los tiempos dello schwa, mi meraviglia la discriminazione del bab(b)u. E non posso comprendere, per concludere, se questi dettagli linguistici della locandina abbiano migliorato la situazione delle alas impestadas.

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