Nel mare ci sono i coccodrilli

1 Settembre 2010

zanda

Antonello Zanda

Tre giorni a Bauladu, dal 20 al 22 agosto, per parlare di viaggi, emigrazioni e immigrazioni. Tra gli appuntamenti previsti è da sottolineare l’incontro con lo scrittore Fabio Geda, autore del libro-racconto “Nel mare ci sono i coccodrillli” (B.C. Dalai editore), insieme al protagonista del libro-viaggio Enaiatollah Akbari, un giovane afgano che vive a Torino e che oggi ha circa 20-21 anni (gli è stata assegnata una data ipotetica per il suo compleanno, il 1° settembre) e che ha cominciato il suo viaggio all’età (circa) di 10 anni.

Geda sceglie per raccontarci questa storia, ad un tempo terribile e avventurosa, la forma dell’ascolto questa perché forma ci riporta all’oralità della narrazione ed è quella che ha maggiori possibilità di restituirci la memoria esperienziale dell’io narrante, un’esperienza ancora viva e pulsante sul corpo del giovane Enaiat.
Questa esperienza dell’ascolto la possiamo analizzare da cinque punti di vista che sottolineano la struttura del racconto. La prima cosa che racconta questo libro è il rapporto tra Geda e Enaiat, nato per caso in occasione di una presentazione del primo libro (“Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani”) dello scrittore. Un rapporto che nasce con l’ascolto, con un lavoro di ricerca e di ricostruzione della storia, che Enaiat aveva bisogno di raccontare, ma che aveva anche bisogno di estrarre dal deposito della memoria per essere restituita alla memoria collettiva oltre che alla propria.
La seconda cosa che racconta questo libro è la vicenda in senso stretto, il viaggio di Enaiat che comincia a Quetta, in Pakistan, dove la madre lo abbandona al suo destino. Dopo tre notti passate vicino alla madre, il quarto giorno il piccolo si risveglia solo, senza la madre vicino. Enaiat si trova improvvisamente gettato nel crogiuolo del mondo con il compito di sopravvivere in una realtà in cui non conosce nessuno e in cui deve confidare soltanto sulle sue capacità di resistere e adattarsi per non essere travolto. Il viaggio che lo porterà in Italia (attraverso Iran, Turchia e Grecia, secondo un percorso non lineare di ritorni e di tentativi di fermarsi) non è in programma: Enaiat si sposta solo per cercare un posto dove stare meglio, dove costruire la propria identità.
E infatti la terza cosa che racconta il libro è il viaggio come formazione personale, come crescita e maturazione individuale. Il viaggio comincia per tutti nascendo e si compie veramente solo vivendo. Ma mentre la vita di tutti è normalmente accompagnata da una schiera più o meno ampia di figure importanti che ci prendono per mano e ci accompagnano nella crescita, Enaiat si ritrova completamente solo e da solo deve imparare tutto, vivendo, scoprendo, sbagliando, subendo, tollerando, resistendo, cambiando. Unica guida è il suo intuito e la sua capacità di capire quando è necessario fare una scelta importante e cambiare direzione nel viaggio.
La quarta cosa che racconta il libro è l’universo di emozioni e sentimenti, di bisogni e desideri di un bambino, che la scrittura imprime al lettore nella lettura. Per quando soggettiva possa essere l’esperienza della lettura, la forma dell’ascolto che l’autore ha consegnato alla sua scrittura induce il lettore ad emozionarsi nelle emozioni di Enaiat, a sentire nei sentimenti del bambino, a desiderare e soffrire nei desideri e nella sofferenza cui obbliga il viaggio della vita. Questo è un pregio della scrittura e quindi è un merito dell’autore, perché egli è riuscito, a partire dal suo ascolto, a riprodurre nella lettura la medesima esperienza intima e personale dell’ascolto. Una forma espressiva decisiva, ma non solo. Perché questa è anche una scelta ideologica, anzi un invito ideologico, cioè l’affermazione e la denuncia del diffuso contemporaneo deficit di ascolto e di capacità di ascoltare, quindi di solidarietà, che caratterizza i nostri tempi. Perché l’ascolto è la prima forma di solidarietà necessaria per una comunità.
La quinta cosa che racconta il libro è quindi il lavoro di scrittura: 10 anni di vita raccontati nella forma dell’ascolto sembrano scorrere come fossero 10 anni di ascolto che si avvertono nello scorrere delle pagine. In questi di dieci anni Enaiat è vissuto e cresciuto ed è cambiato. Geda sembra voler restituire la temporalità dell’esperienza nel racconto. Così all’inizio del racconto Enaiat racconta come un bambino di 10 anni perché la scrittura cerca di restituire l’espressività infantile di quella età, colorata da fantasie, metafore, modulazioni e sensibilità tipiche di un bambino di 10 anni. Ma noi sappiamo che il racconto Enaiat lo ha ricostruito alla fine del suo viaggio e che l’ascolto ha messo davanti allo scrittore torinese un ragazzo cambiato dalla sua esperienza anche nel linguaggio, nel suo modo di raccontare.

Geda ha cercato di riportare alla luce la temporalità dell’esperienza e questo è un fatto che pesa sulla giusta fortuna di questo libro. Enaiat cresce, le esperienze avventurose e terribili si accumulano, ma il giovane afghano matura un’ironia sottile (che certamente lo ha aiutato a sopravvivere) che trova il suo culmine nelle esperienze di viaggio che Enaiat compie con un gruppo di ragazzi. Come per esempio la storia del viaggio in gommone sulle coste della Grecia, che nella drammaticità dei fatti si accompagna anche a momenti divertenti. Lo stesso viaggio altamente drammatico dall’Iran alla Turchia attraverso le montagne, è segnato nel racconto da una maturazione espressiva di Enaiat che ci traduce quell’atmosfera di morte che incombe sui viaggi della speranza di migliaia di uomini in fuga verso un presente di libertà e dignità. In una recente intervista Fabio Geda ha definito la storia di Enaiat racontata dal suo libro una storia utile perché dopo averla letta si è costretti a guardare il mondo con occhi diversi. Io credo che questo sia vero, ma solo in parte. Perché l’ascolto è quell’esperienza che presuppone non solo un narratore e una narrazione efficace, ma anche un ascoltatore disponibile. Se valutassi il gradiente di civiltà della nostra attuale società occidentale e delle nostre democrazie sulla base della variabile dell’ascolto la conclusione sarebbe che la nostra civiltà è in caduta libera e che il degrado socioculturale è fortemente compromesso se non irreversibile (pensiamo solo alla cultura leghista, al cinismo liberista e al politicismo strisciante e affarista della nostra classe dirigente). A molti di questi la storia di Enaiat non offrirebbe margini di redenzione e di riscatto.

Ma l’ottimismo poggia su fatti concreti: ce lo dice lo stesso Enaiat quando racconta che decide di restare in Italia perché in Italia ha incontrato delle persone che lo hanno aiutato in modo disinteressato, nonostante il terrificante periodo trascorso nei Cpt. Molte delle persone che ha incontrato per strada hanno cercato – a loro modo – di aiutarlo, dai mercanti afghani, ai datori di lavoro iraniani ai trafficanti di uomini. Ma non bisogna comunque dimenticare che quella di Enaiat è una storia finita bene accanto a mille altre storie finite male. Molti dei suoi compagni di viaggio sono morti e tanti altri ancora stanno inseguendo una speranza. Io credo che in questa storia e in questo racconto ci sia un messaggio molto forte che viaggia sotto le righe, in uno spazio tra storia e racconto che emerge bene nelle finestre di dialogo tra Fabio e Enaiat che spezzano il racconto. Noi abitiamo per caso questo mondo e solo il caso ci assegna ad un luogo e ad un tempo piuttosto che ad altri luoghi e tempi. Nasciamo nomadi e stanziali allo stesso tempo,cioè viaggiatori. Il viaggio significa che nel mondo noi siamo gettati come ospiti transitori e che quindi il nostro vivere è un transitare: ciò che importa non è dove vivi ma come vivi e il significato che dai alla tua vita nel convivere con gli altri. La comunità ci convolge tutti.

Se al mondo c’è chi pensa che nascendo occupiamo uno spazio e un tempo di cui siamo padroni assoluti e che gli altri sono un nemico da respingere, c’è anche chi vive il tempo e lo spazio come una finestra aperta al mondo, alla conoscenza e alla crescita. La terna dei comandamenti che Enaiat eredita dalla madre sono una guida perché sono input che spingono a non crescere egoisti e vigliacchi: non rubare, non uccidere e non drogarti vuol dire che devi vivere senza offendere il mondo, gli altri e te stesso. Ed essere liberi vuol dire essere liberi di viaggiare, cioè di cambiare. Oggi Enaiat, ottenuto lo status di rifugiato politico, vive e studia a Torino e ha ripreso i contatti con la madre e i suoi familiari.

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