Umbras di Fabian Volti: un cortometraggio senza tempo sul mondo pastorale sardo

3 Ottobre 2021

[Daniela Piras]

Umbras è un cortometraggio di 16 minuti diretto da Fabian Volti. Composto da materiali filmici di diverse epoche, è la storia di un padre e di un figlio che si prendono cura del loro gregge sul costone di una collina. Il film verrà proiettato per la prima volta al 24° Festival Cinemambiente di Torino lunedì 4 ottobre nella sezione fuori concorso  “Made in Italy”, dedicata ai migliori film italiani su tematiche ambientali.

Perché Umbras? Raccontaci qualcosa riguardo questa tua ultima produzione che ti vede come protagonista in più voci. 

Umbras in sardo significa “ombre” ma in un significato più ampio sono le tracce e i segni del tempo, ombre di persone che sono venute prima di noi; sono riflessi di mutamenti della società che è possibile scorgere quando si osservano con attenzione le pratiche di vita e di lavoro delle genti. Umbras nasce in un ambiente di ricerca dedicato allo sguardo ravvicinato di certi ambienti pastorali, il fare del pastore di greggi oggi rispetto a ciò che il pastore ha rappresentato in Sardegna nel passato. Può darsi che sia una figura anacronistica ma di fatto – nella mia idea filmica – quella figura guida una comunità che è quasi scomparsa oppure è decisamente cambiata.

Incontrai casualmente un padre e un figlio – Pietro e Luigi – in un piccolissimo ovile posto in collina senza particolari segni che potessero ricondurci a un’epoca esatta. Non ci conoscevamo, mi sono presentato e gli ho chiesto se avessi potuto documentare il loro lavoro per qualche giornata, in vari momenti. La loro attività era funzionale alla sussistenza familiare; durante le prime timide riprese mi accorgevo che – se pur con diffidenza – avrebbero concesso al mio sguardo pratiche inusuali o quasi. Ad ogni modo, si trattava di una condizione di vita nell’ambito di un ovile essenziale, una produzione merceologica senza sofisticazioni, un riscatto dell’umiltà al cospetto di una società votata al comfort e a quel modello industriale che ha letteralmente travolto la pastorizia dagli anni ‘70 in poi.

Incontrai successivamente il poeta Gigi Angeli di Luras, cresciuto in una comunità di pastori e da molto tempo residente a Palau. Confidai le mie convinzioni sul perchè oggi sarebbe stato bene porre nuovamente l’attenzione su una certa figura del pastore in Sardegna, forse una silente provocazione da lanciare ancora nel lago sociale. Lesse una sua poesia del 1998 dal titolo Umbras: ascoltare quelle parole fu come perdersi nella voce del tempo, vedere proiettate scene riflesse dei momenti in cui mi trovavo dentro l’ovile con Pietro e Luigi. L’incontro con il poeta mi diede ulteriori elementi e continuai la ricerca pensando agli archivi audiovisivi della Cineteca Sarda a Cagliari.

È stata una ricerca avvenuta tra gli sguardi di filmmaker o antropologi visuali di un tempo precedente. Pensai che il cambiamento lo avrei potuto raccontare oggettivamente per accostamento di riprese o punti di vista lontani nel tempo: i miei filmati rispetto a riprese in ovili, realizzate, per esempio, negli anni ‘70. La Cineteca Sarda accolse l’idea e mi propose la visione di diversi filmati, fra i quali quello dell’antropologo Felice Tiragallo realizzato insieme al filmmaker Salvatore Angius dal titolo Su Cuile, insieme a un altro film di una giornata in ovile dello stesso Angius. Riflettei e studiai su questi filmati che mi colpirono per similarità o assoluta analogia con le mie riprese, a distanza di circa 40 anni. Era quasi incredibile: in un casolare di pietra un padre e un figlio accettano di essere filmati durante una giornata di lavoro in ovile. Nell’altro filmato alcuni ragazzini giocano spensierati nell’ovile e con le pecore. Fu questa presenza dei giovani che mi restituì il vero senso del film: l’insorgere sottile di un interrogativo dagli occhi di un giovane figlio verso quella società pastorale che non c’è più e con essa la misconosciuta figura o ruolo del pastore di greggi oggi.                     

Dalla sinossi del film si evince che molta importanza è stata riservata ai gesti quotidiani che contraddistinguono le giornate dei due pastori. La storia si svolge in una dimensione “senza tempo”. Ci potresti spiegare i motivi di tale scelta? Come sei riuscito a caratterizzare le due diverse generazioni – di padre e figlio – non collocandole in un momento storico specifico?

L’assenza di un momento storico specifico credo abbia dato un certo valore al possibile significato narrativo del film: la figura del pastore e le sue pratiche di lavoro non sofisticate sembrano resistere agli impietosi mutamenti della società. Siamo abituati a cercare elementi caratterizzanti del tempo passato e del presente, per esempio individuando i tratti generazionali collettivi. Nella società odierna è certamente assente una particolare figura del pastore, insieme alla scomparsa della sua società. Questa potrebbe essere una caratteristica della società contemporanea e delle generazioni che non riconoscono la sconfitta. Nel film entrano in sottile relazione due sguardi in due momenti temporali differenti: da una parte, apparentemente, si azzerano le differenze generazionali  per ridare luce all’immagine latente del pastore nel tempo, insieme al suo valore sociale ed economico; allo stesso tempo, si alimenta un forte interrogativo verso la società del presente che indubbiamente taglia dal futuro il giovane pastore.

Come è cambiata la società pastorale in Sardegna negli ultimi decenni, e cosa invece è rimasto immutato? Cosa c’è di positivo in ciò che si tramanda da generazioni, e cosa invece sarebbe auspicabile che si adattasse alla modernità? Ti sei fatto un’idea a tal proposito?

Il cambiamento della società pastorale è avvenuto in Sardegna con l’avvento dell’industria pesante. Nel contesto del Mediterraneo è noto che la società pastorale in Sardegna sia stata letteralmente travolta da una politica coloniale italiana interessata al pieno controllo del territorio, attraverso la cancellazione di un modello di società pastorale considerato arretrato, e dei suoi caratteri culturali. Lo stesso è accaduto nelle società agricole meridionali d’Italia, ricordiamo Matera e l’importante testimonianza storico-culturale di Carlo Levi. Giolitti aveva definito quella società rurale “la vergogna d’Italia”.

Credo che in Sardegna le sue genti si tramandino d’istinto il valore della cultura pastorale che si fonda essenzialmente su principi di solidarietà, senso della comunità, valore del territorio e il suo rispetto. La modernità, in un senso di villaggio globale, potrebbe rappresentare per il pastore di greggi un’opportunità di nuova resilienza. Credo che il riscatto della dignità della società pastorale potrà avvenire se essa dimostrerà consapevolezza della propria conoscenza.              

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