Una riforma delle istituzioni comunitarie per un’Europa al servizio dei cittadini

1 Maggio 2020
[Gianfranco Sabattini]

L’introduzione dell’euro nella regolazione dei rapporti economici tra i Paesi dell’Unione Europea ha avuto conseguenze ampiamente inaspettate, molto diverse rispetto alle finalità indicate nei Trattati originari di unire l’Europa per il perseguimento di un aumento del benessere collettivo e di un’equità sociale condivisa.

Al riguardo, molti economisti, fuori e dentro l’Italia, soprattutto dopo la Grande Recessione del 2007/2008, non hanno mancato di “denunciare” che le istituzioni comunitarie non sono mai state adeguate per contrastare gli effetti negativi provocati da persistenti differenze di struttura delle basi produttive dei singoli Paesi o da shock finanziari improvvisi; per questo motivo, già da prima della grande crisi, essi hanno sostenuto l’ineludibilità di una riforma istituzionale per la costruzione di un’Europa unita che fosse realmente al servizio dei cittadini e non soggetta all’alea del succedersi di continue crisi economiche di natura reale o finanziaria dei Paesi membri. E’ quanto sostiene, da ultimo, Nicola Acocella nel suo volume di recente pubblicazione, dal titolo: “L’unione economica e monetaria europea. Fondamenti, politiche, opzioni attuali”; a suo parere, il disegno istituzionale di ogni progetto internazionale dovrebbe essere concepito e costruito “con attenzione, in modo da assicurare il funzionamento efficace e coerente dei mercati”; ma anche delle istituzioni preposte al governo dell’attività orientata al perseguimento degli interessi comuni.

Acocella sottolinea la complessità e le difficoltà che si frappongono allo svolgimento di questo compito, a causa delle differenti valutazioni degli interessi dei quali sono portatori i Paesi partecipanti alla realizzazione del progetto internazionale. Le possibili conseguenze negative, intrinseche alle diverse posizioni dei singoli Paesi, non sono state tenute nel dovuto conto al momento della firma dei Trattati originari istitutivi della Comunità Europea, ragione, questa, per cui le istituzioni che sin da allora sono state costruite, congiuntamente a quelle sorte in seguito, sono risultate inefficaci e incoerenti rispetto alle finalità del disegno europeo, in quanto carenti sul piano delle modalità di governo dei rapporti reciproci di debito e credito dei Paesi comunitari, soprattutto dopo l’adozione dell’euro.

In realtà, una critica sui limiti delle istituzioni adottate per la realizzazione del processo di integrazione europea era stata avanzata già molti anni prima della fatidica data del 2007/2008; tra il 1958 e il 1961, all’inizio quindi dell’attuazione del “progetto europeo”, Tibor Scitovsky e Robert Alexander Mundell avevano messo in evidenza le insidie delle quali poteva essere portatore il processo di integrazione economica. Tibor Scitovsky, ad esempio, osservava che il processo di integrazione economica europea, oltre che vantaggi, poteva anche determinare degli svantaggi, le cui cause, se non preventivamente eliminate, avrebbero impedito la realizzazione del disegno originariamente concepito.

E’ accaduto infatti che l’integrazione di strutture produttive differenti non abbia tardato a rivelare le difficoltà cui sono andati incontro i singoli Paesi nella gestione interna dei loro sistemi economici; difficoltà che potevano essere superate, solo se fosse stata attuata da subito l’integrazione di natura politica dei Paesi aderenti alla costruzione dell’Europa comune ed adottata una politica monetaria e fiscale comune per rimuovere le differenze di struttura delle singole economie. L’integrazione economica, senza la realizzazione preventiva di quella politica, ha comportato la propensione di alcuni Paesi, come la Germania, a caratterizzare il proprio sistema economico in termini di avanzo strutturale della bilancia commerciale, dando origine ai mancati benefici attesi da gran parte dei restanti partner europei.

Infatti, la persistenza dell’avanzo commerciale del Paese divenuto dominante all’interno dell’area europea, unita alla sua volontà a non porvi rimedio, hanno comportato che la rimozione delle differenze strutturali tra le economie dei diversi Paesi avvenisse attraverso automatismi monetari non supportati dagli appropriati criteri di funzionamento indicati dalla teoria dell’ottimalità delle aree valutarie, esposta nella sua forma più completa nel 1961 da Robert Alexander Mundell. Secondo questa teoria, l’esperienza storica era valsa a dimostrare che gli squilibri delle bilance commerciali dei Paesi operanti all’interno di un’area di libero scambio sono destinati a tradursi in una crisi del sistema di regolazione delle loro reciproche posizioni debitorie e creditorie, se la fissità dei tassi di cambio e la rigidità dei salari e dei prezzi impediscono che la loro flessibilità possa contribuire al loro riequilibrio.

Per evitare le difficoltà cui sfortunatamente possono andare incontro i Paesi che decidono di organizzarsi in un’area di libero scambio (con l’adozione di un sistema di valute nazionali collegate tra loro mediante tassi di cambio flessibili, oppure con l’adozione di un’unica valuta) i singoli Paesi devono necessariamente rispettare le “regole del gioco” che presiedono al corretto funzionamento dell’area valutaria comune; in caso contrario, la crisi dei sistemi interstatali di pagamento può trasformarsi in ostacolo alla stabilità e alla crescita, non solo dei Paesi con bilance in deficit, ma anche, più in generale, dell’intera area di libero scambio. Perché quest’ultima possa configurarsi come ”area valutaria ottimale”, occorre che, all’interno dei singoli Paesi, la Banca Centrale (nel caso di tassi di cambio flessibili in presenza di valute diverse) o la Banca Centrale istituita per l’intera area (nel caso dell’adozione di un’unica valuta) svolgano la funzione di regolare la quantità di moneta circolante, provvedendo ad allargare o a restringere la circolazione, a seconda della posizione della bilancia commerciale di ogni singolo Paese rispetto a quella degli altri.

In entrambi i casi ipotizzati, ciò implica che le Banche Centrali agiscano in modo tale da consentire ai Paesi in disavanzo di ridurre la circolazione, al fine di abbassare il livello generale dei prezzi interni, quindi di aumentare le esportazioni; per contro, all’interno dei Paesi con bilancia commerciale in avanzo, le Banche Centrali dovranno provvedere ad immettere nuova moneta, al fine di aumentare il livello generale dei prezzi interni, promuovendo una diminuzione delle esportazioni. Così, nel tempo, le “regole del gioco” cui devono attenersi nel governo della politica monetaria le Banche Centrali, stimolando l’operatività degli automatismi di mercato, favoriscono l’aggiustamento delle bilance commerciali di tutti i Paesi integrati all’interno dell’area valutaria comune.

Su queste regole, invece, nell’agenda dei Paesi europei, sino agli anni Settanta del secolo scorso, sono del tutto mancate possibili ipotesi di accordo in ambito politico. Solo dopo una crisi globale prolungata dei mercati monetari e di quelli energetici è stato realizzato, nel 1978, il Sistema Monetario Europeo (il cui scopo era quello di assicurare una maggiore stabilità monetaria, una riduzione dell’inflazione e tassi di cambio meno variabili, attraverso una maggiore cooperazione tra i Paesi membri). Successivamente, con gli anni Ottanta, si è giunti alla decisione di compiere passi in avanti verso l’integrazione, oltre che economica, anche politica dell’Europa: con la sottoscrizione dell’”Atto Unico Europeo” (entrato in vigore nel 1987) è stata decisa la realizzazione del mercato unico interno; con la firma, nel 1992, del Trattato di Maastricht, è stata creata una Banca Centrale Europea (BCE), per la gestione della politica monetaria, e approvate le regole che avrebbero disciplinato la circolazione della moneta unica (l’euro), adottata alla fine del millennio.

In presenza degli squilibri nelle bilance commerciali dei singoli Paesi, mancando un accordo comune che ne favorisse il risanamento, il processo di sviluppo dell’integrazione europea e la nascita dell’Unione Economica e Monetaria hanno reso ancora più attuale il dibattito sulla teoria delle aree valutarie ottimali che, dopo la Grande Recessione del 2007/2008, ha focalizzato l’attenzione sui motivi per cui non hanno funzionato gli automatismi monetari compensativi. Sulle ragioni di questa disfunzione, si sono affermate due posizioni contrapposte: da un lato, la crisi della mancata rimozione degli squilibri delle bilance commerciali è stata considerata il risultato delle politiche sociali (in particolare, quella del welfare) di alcuni Paesi membri poco “virtuosi”, che avrebbero provocato un effetto negativo a cascata sull’intera area valutaria dell’euro, amplificando le difficoltà determinate dalla crisi del 2007/2008; dall’altro lato, gli squilibri delle bilance sono stati ricondotti all’ipotesi che alcuni Paesi membri fossero vittime, non tanto del loro atteggiamento poco virtuoso e dell’inadempimento degli obblighi comunitari, quanto dei difetti strutturali presenti nelle istituzioni (in particolare, nella Banca Centrale Europea) preposte alla gestione dell’eurozona.

Le fasi seguite alla crisi hanno polarizzato il consenso di molti economisti sulla seconda posizione, cioè su quella che riconduceva il mancato funzionamento degli automatismi compensativi alla insufficiente azione della BCE; in particolare, al fatto che tale azione fosse impedita dai Paesi con bilance commerciali in avanzo, i quali, adducendo ragioni ideologiche a difesa dei loro sistemi produttivi, non hanno mai accettato che i rapporti di debito e credito dei Paesi dell’area-euro potessero essere regolati attraverso l’instabilità dei propri prezzi interni. In altre parole, tali Paesi non hanno voluto che si procedesse sulla via dell’integrazione politica; per cui, come era stato deciso a Maastricht, la creazione e la gestione della moneta unica sono state affidate alla BCE, formalmente e completamente indipendente dai governi nazionali.

In questo modo, alla BCE è stato assegnato “un potere enorme”, esercitato unicamente per controllare l’inflazione, senza che essa fosse condizionata e influenzata dalla politica dei singoli Paesi aderenti all’area valutaria comune; la conseguenza di tale status istituzionale della BCE è stata il mancato svolgimento di una politica monetaria comune volta, da un lato, a realizzasse più equilibrati rapporti tra le strutture produttive dei diversi Paesi comunitari, e dall’altro, a promuovere la crescita del benessere e dell’occupazione dell’intera area, attraverso un’incisiva politica della domanda aggregata europea. Con la politica deflativa imposta dall’Europa, i Paesi (tra i quali l’Italia) che hanno patito maggiormente gli effetti negativi della Grande Recessione hanno subito le conseguenze di un minor saggio reale di sviluppo e di una maggiore disoccupazione; ciò a causa della mancata possibilità, dopo l’adesione all’eurozona, di coordinare la propria politica monetaria con la politica fiscale, per via del vincolo di subordinare la seconda alla prima. Questa situazione ha creato la paralisi dei Paesi con eccesso di debito, aggravata dal fatto che i rilevanti avanzi di bilancia corrente di altri Paesi (come l’Olanda e la Germania) non venissero “riciclati” a sostegno della domanda.

E’ questo il motivo per cui, oggi, si impone la necessità di riformare le istituzioni dell’eurozona, allo scopo di evitare – sottolinea Acocella – lo squilibrio macroeconomico dei Paesi membri in deficit nei confronti di quelli in avanzo, attraverso il superamento del vincolo asimmetrico che fissa l’onere di aggiustamento a carico dei primi piuttosto che dei secondi. Ciò può essere fatto, a parere di Acocella, attraverso un programma di ricostruzione e riforma delle istituzioni dell’Europa, articolato in prospettive di breve, medio e lungo periodo.

A tale scopo sarà inevitabile il contributo dei singoli Paesi; ma il loro coinvolgimento potrà avvenire solo sulla base di valutazioni politiche diverse. Ciò significa che la proposta di Acocella potrà essere accolta, solo rimuovendo la pretesa di quei Paesi che aspirano a ripristinare la loro presunta “grandeur” del passato; oppure, abbandonando la rigida volontà di quei Paesi che intendono conservare la fissità delle regole poste a fondamento della circolazione della moneta unica, allo scopo di tornare ad essere “grandi tra i grandi” del mondo. Solo rinunciando a questi “disperati desideri” (come spesso sono chiamati) che ancora alimentano la volontà politica di alcuni dei Paesi membri dell’Unione Europea, potranno essere perseguiti gli obiettivi indicati da Acocella, compatibili con la effettiva realizzazione di un’altra Europa.

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