L’Assemblea costituente per riscrivere lo Statuto sardo

16 Novembre 2019
[Francesco Casula]

Tre Regioni (Veneto, Lombardia, Emilia: tutte e tre a statuto ordinario) rivendicano più poteri e “Autonomia differenziata”. Mentre la Sardegna dorme. Da anni. Sembra anzi che la riscrittura dello Statuto sardo sia stata derubricata dall’agenda del Consiglio regionale. Eppure è urgente.

Nato – secondo la colorita espressione di Lussu – come “gatto” invece che come “leone”, in questi 71 anni di vita esso si è trasformato in un topolino, per di più cieco. E’ stato infatti viepiù sottoposto a compressione e depotenziamento: dall’esterno come dall’interno.
Ovvero da parte dello Stato (ben coadiuvato dalla Corte costituzionale) che in ogni contenzioso – specie per quanto attiene ai poteri concorrenti – ne esce vincitore con la Regione: se non altro perché vince sempre il più forte.

Come da parte della stessa Regione e delle forze politiche sarde che non sanno o non possono o non vogliono utilizzare gli stessi strumenti, possibilità, spazi e poteri che il pur debole Statuto, loro offriva. Basti pensare a questo proposito alla vicenda delle norme di attuazione che avrebbero dovuto riempire di contenuti le astrattte previsioni statutarie, stabilendo quali dovevano essere i poteri reali della Regione nelle materie attribuite alla sua competenza.
Queste norme o non vengono emanate o vengono emanate in modo eccezionalmente riduttivo e in ritardo o non vengono quasi mai poste in atto.

Un dato è illuminante e paradigmatico: le norme di attuazione emanate dalla Regione sarda in 71 anni di Autonomia sono state 26. Il Trentino-Alto Adige ne ha attivato 72!
Ma c’è di più: a mio parere lo Statuto sardo nasce con un peccato d’origine e un limite ancora più grave: l’economicismo. Di cui l’articolo 13 (Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola) è la cartina di tornasole.
A significare in qualche modo che la Sardegna ottiene lo Statuto speciale in virtù della sua povertà e arretratezza. Se così fosse però, perché non concedere lo Statuto speciale alla Lucania o anche ad altre regioni italiane che allora erano povere come la Sardegna se non di più?

La verità è che il motivo reale non è economico. E’ invece da ricondurre alla sua identità etno-storica ed etno-culturale e linguistica. Ma non lo si vuole amettere né confessare. Altrimenti i Costituenti avrebbero dovuto trarre le conseguenze: cultura e lingua sarda a scuola ecc.
Di cui nell’intero Statuto non c’è traccia: né nel Prologo né nell’intero articolato. Anzi: i Costituenti respingeranno la proposta di Lussu tesa a inserire l’insegnamento della lingua sarda nelle scuole elementari (in quanto patrimonio millenario che occorre conservare) né tennero conto dei consigli di Giovanni Lilliu che suggeriva ai Costituenti sardi di rivendicare per la Sardegna competenze primarie ed esclusive, almeno per quanto riguardava i Beni culturali.

Dopo 71 anni di Autonomia (o di Eteronomia?) dobbiamo dunque dire che oggi l’attuale Statuto sardo è un arnese inservibile. Esso anzi, di fatto rappresenta un ostacolo alla realizzazione di una vera Autonomia, o peggio: serve solo come copertura alla gestione centralistica della Regione da parte dello Stato, di cui non ha scalfito per niente il centralismo. Paradossalmente lo ha perfino favorito, consentendo ai Sardi solo il succursalismo e l’amministrazione della propria dipendenza, culturale e linguistica prima ancora che economica.

Per la verità da decenni lo Statuto è inservibile. Fin dagli anni ’70, quando il democristiano Paolo Dettori, visti i colossali limiti, lanciò la politica “contestativa” nei confronti dello Stato.
E negli anni ’90 il Consiglio regionale nominò addirittura una Commissione ad hoc, pomposamente chiamata “Commissione speciale per l’Autonomia”, che partorì però un documento mostricciatolo, che non fu neppure discusso in Aula da parte del Consiglio regionale.

Fino ad arrivare agli inizi del duemila con la Proposta di Assemblea Costituente.
La proposta fu presentata a Cagliari da un “Comitato per la Costituente” formato da 11 personalità (ci sono fra gli altri i segretari di Cgil-Cisl-Uil-Css, oltre a intellettuali ed esponenti della Chiesa). Anche tale proposta e iniziativa è caduta nel vuoto. Occorre riprenderla: perché mi pare l’unico strumento per poter riscrivere lo Statuto, visti anche i reiterati fallimenti, con l’impotenza e l’incapacità del Consiglio regionale.

Ma se pur anche fosse finalmente in grado, mi cghiedo, con le stantie e consunte procedure e riti e mediazioni sempre al ribasso, quale Statuto potrebbe esso produrre, chiuso com’è nell’invalicabile palazzo di Via Roma, che “enfatizza e ribadisce superbamente la separazione fra la piazza e lo Stato, fra i dannati della terra e gli addetti ai lavori, con una Regione che si è fatta stato e l’autonomia si estenua nei tempi morti della burocrazia e nei giochi simulati dei vassalli che chiedono a Roma gli inutili riti dell’investitura”? (Elisa Nivola).

Ma c’è di più: a me l’Assemblea Costituente pare essere lo strumento e il modo più democratico per riscrivere la Nuova Carta Costituzionale della Sardegna, una vera e propria Carta De Logu, per ricontrattare i rapporti con lo Stato su basi federali, per stabilire un nuovo patto fra la Sardegna, l’Italia e l’Europa e insieme per definire e sancire le prerogative e i poteri di una Comunità moderna, orgogliosa e sovrana.

Fra l’altro essa può anche rappresentare un’occasione formidabile per mettere in campo il protagonismo e la partecipazione diretta dei Sardi, per realizzare un grande e profondo movimento di popolo, finalmente coeso, che creda in se stesso e che prenda coscienza della propria Identità, dispiegando tutta intera la propria energia per potersi così aprire, senza subalternità e complessi di inferiorità, alle culture d’Europa e del mondo, pronta a competere con le sue produzioni materiali e immateriali, finalmente decisa a costruire un futuro di prosperità, lasciandosi alle spalle lamentazioni e piagnistei.

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